SpotPolitik
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Perché la «casta» non sa comunicare

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Perché la «casta» non sa comunicare

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Che cos'è la SpotPolitik? È la politica che pensa che per comunicare basti scegliere uno slogan generico, due colori e qualche foto. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo. Di SpotPolitik hanno peccato tutti i partiti italiani con pochissime eccezioni. Gli anni dal 2007 al 2011 sono stati i peggiori in questo senso, ma non illudiamoci che sia finita: la cattiva comunicazione potrebbe sommergerci ancora.Riflettere sugli errori del passato può essere utile ai politici, per non caderci ancora; e a tutti noi per scoprire come sia stato possibile accettare (e votare) quella roba.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858103876

1.
Più in basso di così c’è solo da scavare

Giù verso le scarpe

In Italia la cultura della comunicazione è scarsa. Scarsa in due sensi: poca e tendenzialmente scadente. Il che è paradossale, se si pensa che negli ultimi vent’anni le lauree nel settore della comunicazione si sono moltiplicate a dismisura (erano cinque nel 1993, sono quasi 150 oggi, fra lauree triennali e bienni di specializzazione), i corsi di formazione professionale sono migliaia, i sedicenti comunicatori sono sparpagliati ovunque – nelle imprese, nelle amministrazioni pubbliche, in politica – e le belle parole su quanto è importante (fon-da-men-ta-le) comunicare bene si sentono anche al bar (perché oggigiorno se non comunichi non esisti, signora mia). Ma per dar conto del livello medio di questa ossessione collettiva, basterebbe ricordare il gesto che nel 1985 faceva sempre Riccardo Pazzaglia, il «filosofo» della trasmissione televisiva di Arbore Quelli della notte incaricato di «tenere alto il livello della trasmissione»: a un certo punto del chiacchiericcio da lui stesso fomentato, agitava una mano giù verso le scarpe, in direzione parallela al pavimento, senza aggiungere altro. Il livello era sceso fino a terra, voleva dire Pazzaglia.
Intendiamoci: non è una posizione snobistica, la mia, come se guardassi il mondo della comunicazione dall’alto di chissà quali competenze accademiche e professionali che gli altri non avrebbero e io invece sì.
No.
La mia esperienza nel settore compie ormai vent’anni, ma la radicalità della mia posizione parte da un assunto elementare, quasi banale, che non ha bisogno di vent’anni di studi per essere compreso: per comunicare bene è necessario fare un semplicissimo cambiamento di prospettiva che in Italia, evidentemente, pochi sono disposti a fare: uscire da se stessi per mettersi nei panni degli altri. Dimenticare i propri pensieri, desideri, valori – il proprio mondo – per concentrarsi esclusivamente su quelli della persona o delle persone a cui si vuole comunicare qualcosa. Se non sei capace o disposta a fare questo spostamento, puoi aver studiato valanghe di libri, frequentato centinaia di ore di formazione, esserti plurilaureata e specializzata ma sei, e resterai, una cattiva comunicatrice, un cattivo comunicatore. Tutto qua.
La comunicazione, poi, sta peggio in politica che in altri settori. Prendiamo per esempio il vecchio adagio dei venditori: il cliente ha sempre ragione. Molti lo fraintendono come se fosse un invito all’ipocrisia manipolatoria. Ma se al posto della parola cliente mettiamo, in politica, cittadino o cittadina, fa tutto un altro effetto: i cittadini hanno sempre ragione. Il che, a ben pensarci, significa esattamente quello che ho appena detto: nessuno comunica un bel nulla a nessuno se non riesce a mettere gli altri, quelli a cui vuole rivolgersi, al centro dei propri pensieri. E per farlo in modo adeguato deve studiare nei minimi dettagli cosa pensano, sentono, desiderano gli altri, fare di tutto per entrare nella loro testa e nel loro cuore; nella loro «pancia», come si dice oggi anche in tono dispregiativo. Invece non c’è nulla di disprezzabile nel fatto che per comunicare si debba uscire da se stessi fin quasi a sentire le viscere altrui come fossero le proprie: la comunicazione è innanzi tutto una relazione fra persone, le persone sono dotate di corpi che sentono, vedono, percepiscono il mondo, e sono inoltre attraversate continuamente da emozioni, prima ancora che da pensieri logici e argomentazioni razionali. Il che è vero anche in politica, non solo nella vita quotidiana. Come vedremo in una miriade di casi.
Ma quanti sono, oggi, i politici italiani davvero disposti a uscire dall’autoreferenzialità, al punto da pensare che i cittadini abbiano sempre ragione? Al punto da volersi mettere in sintonia emotiva con le persone a cui si rivolgono? L’idea più diffusa è che non ce ne sia nessuno. O che almeno, se ci provano, non ci riescono. Non a caso, dopo il bestseller del 2007 di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, è invalso l’uso di chiamare la classe politica casta: in India, e in qualunque società a cui la parola sia riferita per estensione, le caste sono gruppi sociali rigidissimi e disposti in ordine gerarchico. In una piramide di scatole chiuse, nessuna scatola comunica con nessun’altra, evidentemente.

Un’attitudine e un metodo

Attenzione però. Non sto dicendo che i cittadini – o i clienti – abbiano davvero sempre ragione: il mondo è pieno di cittadini e clienti che hanno torto marcio. Sto dicendo che l’idea che gli altri possano di principio (così va inteso quel sempre) avere ragione è un assunto necessario che devo sempre tenere ben fermo in testa, se voglio comunicare in modo efficace, se cioè voglio raggiungere di volta in volta gli obiettivi che mi prefiggo: vendere un prodotto, far conoscere il mio nuovo marchio, persuadere un certo elettorato della bontà delle mie soluzioni ai problemi del paese. Vincere le elezioni. Il che in soldoni vuol dire questo: se dopo che ho parlato o scritto qualcosa, alcuni mi dicono che non hanno capito questo o quello, sono io che non sono stata abbastanza chiara e non sono loro incolti o sciocchi; se mi dicono che non li ho convinti, sono io che non sono stata efficace, non loro incapaci di cogliere la forza della mia argomentazione; se li vedo svogliati o insofferenti mentre parlo, sono io una cattiva oratrice, non loro un pessimo pubblico.
In poche parole, se il mio destinatario mi dice che sbaglio, la prima cosa che devo fare è cercare l’errore in ciò che ho detto e fatto, pensando che da qualche parte, anche remota, lui può avere ragione e io torto. Anche se ammettere lo sbaglio può ledere il mio orgoglio e costarmi la fatica di rifare tutto daccapo. Anche se gli amici – che in politica sono i sostenitori del mio partito – mi dicono che non è vero che ho sbagliato, perché le mie parole erano chiare e il discorso convincente. E anche se sarebbe molto più piacevole per me ascoltare solo chi mi dice che sono un’eccellente comunicatrice, fingendo che gli altri – quelli che non ho convinto – non esistano. O abbiano torto, appunto.
L’idea che i cittadini abbiano sempre ragione va dunque intesa in questo duplice senso: 1. come una disposizione mentale che i politici dovrebbero avere a priori, per uscire dal loro mondo e sintonizzarsi con quello degli elettori; 2. come un metodo, uno strumento a posteriori (a comunicazione fatta e finita) per individuare eventuali errori (sempre se ne fanno) ed evitare di ripeterli in futuro.
Insomma, partire da questa attitudine e applicare questo metodo non implica nessun pregiudizio antipolitico per cui i cittadini sarebbero sempre buoni e giusti, e la politica cattiva e sbagliata. L’antipolitica – dai movimenti di piazza a Beppe Grillo, a certi toni e atteggiamenti di Antonio Di Pietro – ha avuto molto successo da noi negli ultimi anni proprio perché ha ribaltato con un trucchetto populista e demagogico la sempre più evidente incapacità dei politici di ascoltare le ragioni dei cittadini: quanto più questi si sentono maltrattati e abbandonati dai politici, tanto più l’antipolitica li seduce dicendo loro che sono belli, bravi e hanno sempre ragione. E poiché a tutti piace sentirsi fare i complimenti, ecco svelato perché molti sono disposti a seguire in capo al mondo il pifferaio che li blandisce tutti i giorni. Facile, no?
Ma è una menzogna, perché i cittadini non sono affatto sempre belli e bravi (alcuni lo sono, altri no), né hanno sempre ragione (a volte ce l’hanno, a volte no). Dunque fargli questo complimento è demagogia. Ma fare come se potessero, di principio, avere sempre ragione è tutt’altra cosa: serve a rispettarli come persone e a mettersi in relazione con loro, che è l’unico modo per comunicare bene, evitando errori marchiani. Che invece in Italia la politica continua a fare con un’insistenza persino un po’ inquietante: errare è umano, perseverare diabolico (o da stupidi), dicevano sant’Agostino e altri prima di lui.

Quali errori e perché

Nel campionario di disastri comunicativi che i nostri politici hanno accumulato negli ultimi anni, avevo solo l’imbarazzo della scelta. Non potendo esaminarli uno per uno, per ovvi limiti di energie, tempo e spazio, ho deciso di fare così.
Prenderò in considerazione solo alcuni errori, non tutti: diciamo i più gravi, ricorrenti e sistematici. Che in quanto tali sono rappresentativi anche di altri. E metterò a fuoco solo il periodo dalla fine del 2007 a poco dopo la metà del 2011.
Perché proprio questo periodo?
Negli ultimi mesi del 2007 nasce il Partito democratico e viene annunciato il Popolo della libertà; la prima metà del 2011 è contrassegnata dalla pessima gestione, da parte di Berlusconi e del centrodestra, della campagna per le amministrative, che infatti si conclude con una clamorosa sconfitta del Pdl e della Lega in diverse città chiave: Milano, Torino, Napoli, Bologna, Cagliari. Ma cosa accade esattamente alla comunicazione politica fra queste due date?
Per vederlo meglio, facciamo un passo indietro.
Nel 1994 Berlusconi fu il primo a introdurre nella politica italiana alcune tecniche normalmente usate nel marketing commerciale, e lo fece adattandole a una realtà che restava comunque refrattaria. La sinistra, in particolare, ha sempre frainteso l’operazione come se fosse un imbarbarimento, un inquinamento della «purezza» politica, e ha cominciato a parlare di berlusconismo come se fosse stato Berlusconi il primo a inventarsi questa mossa. In realtà Berlusconi non ha fatto altro che portare in Italia, con le sue televisioni negli anni Ottanta e la «discesa in campo» nel decennio successivo, una commistione fra sistema politico, media, marketing e pubblicità che negli Stati Uniti c’era già dalla prima metà del Novecento. Sarebbe dunque ora che anche la politica italiana – tutta, sinistra inclusa – si rassegnasse ad accettare la realtà: piaccia o non piaccia, il marketing politico non è un imbarbarimento, ma un allineamento – per giunta tardivo da parte nostra – a come funzionano tutte le democrazie moderne.
In questo senso Berlusconi non è affatto un genio della comunicazione, ma è semplicemente stato il primo in Italia – e per certi aspetti resta ancora l’unico – ad aver capito fino in fondo come si fa: prima si guarda cosa sta nella testa e nella famigerata «pancia» delle persone, anche cercando di indirizzarlo, poi si comincia a comunicare. Chi non fa così è destinato a parlarsi addosso.
Alla fine del 2007, con la nascita del Partito democratico, Veltroni decide di combattere Berlusconi con le stesse armi; purtroppo però lo fa in modo maldestro, cioè traendo dalle tecniche commerciali solo gli aspetti più esteriori e volatili: scelte cromatiche per il logo e i manifesti, invenzione di formule generiche per gli slogan, coinvolgimento di testimonial provenienti dallo spettacolo. Per di più, imita la comunicazione di Obama senza adattarla al contesto italiano. Nell’aprile del 2008 la sconfitta elettorale lo punisce, ma da allora il Pd, pur cambiando due volte segretario – prima Franceschini e poi Bersani – non riesce più a liberarsi dall’idea superficiale di comunicazione che gli ha impresso Veltroni: come se la comunicazione potesse essere ridotta alla retorica del bel discorso e all’estetica dei manifesti, e non comportasse, invece, una capacità fondamentale da parte dei leader di entrare in relazione con gli elettori e le elettrici, condividendo con loro essenzialmente due cose: emozioni e valori.
Un anno dopo – fra aprile e maggio 2009 – nel centrodestra scoppia lo scandalo Noemi, e Veronica Lario, allora moglie di Berlusconi, chiede la separazione, definendo pubblicamente il marito «una persona malata, che frequenta le ragazzine». A Noemi seguono, nei mesi immediatamente successivi, le interviste-confessioni di Patrizia D’Addario e delle altre escort e ragazze-immagine che dichiarano di aver trascorso notti e festini con Berlusconi; passa poco più di un anno, e a fine 2010 si aggiunge il caso Ruby, per cui Berlusconi entra nel registro degli indagati con l’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile e concussione. È così che, mese dopo mese, anche Berlusconi, dopo una breve reazione iniziale degna delle sue migliori performance degli anni Novanta (...

Indice dei contenuti

  1. Premessa: Che cos’è la «SpotPolitik»
  2. 1. Più in basso di così c’è solo da scavare
  3. 2. Con quella faccia un po’ così
  4. 3. Chiamatemi un’agenzia, un creativo!
  5. 4. Ma le donne? Dove stanno le donne?
  6. 5. Parla come mangi
  7. 6. La luce in fondo al tunnel
  8. Per saperne di più
  9. Riferimenti bibliografici
  10. Grazie a...