A Sinistra
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Il pensiero critico dopo il 1989

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Il pensiero critico dopo il 1989

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Jean-Paul Sartre l'aveva già decretato: la sinistra, quella storica, è morta. Oggi, la sinistra rinasce nelle vesti di un nuovo pensiero, critico, audace, radicale.

La coscienza contemporanea è pervasa da un senso di spaesamento, dettato dalla progressiva consumazione dei tradizionali criteri di orientamento e dalle illusions perdues del 1989. Con la liquidazione dei vecchi assetti si sono indeboliti e finanche vanificati i 'paradigmi' classici della sinistra intellettuale e al loro posto ne sono subentrati altri. Nel campo della filosofia, dell'economia e della sociologia si sono affacciate nuove formule e determinate nuove proposte, ancora tutte da scoprire nella loro originalità e complessità. A esse il libro è dedicato, con lo scopo di fornire una più aggiornata mappa della sinistra intellettuale contemporanea, specie nelle sue punte più audaci e radicali. Si tratta, in un certo senso, di una storia del pensiero critico contemporaneo, comprensiva delle sue correnti e dei suoi autori maggiormente significativi tra cui Giorgio Agamben, Alain Badiou, Étienne Balibar, Luc Boltanski, Wendy Brown, Judith Butler, David Harvey, Ernesto Laclau, Jacques Rancière, Wolfgang Streeck, Slavoj Žižek.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858136409
Argomento
Economics

Capitolo secondo.
Il destino della sovranità
nell’epoca neoliberista

L’insieme dei fenomeni politici a sfondo catastrofico che caratterizzano la nostra contemporaneità, dall’immigrazione di massa alle crisi ecologiche e dalle tempeste finanziarie al terrorismo internazionale, sembra aver determinato il progressivo indebolimento della sovranità statuale, intesa come potere supremo, perpetuo, assoluto, completo e non trasferibile, oltre che legato a un certo e determinato territorio. Ciascuno di questi attributi appare inoltre contraddetto dall’irrobustirsi dei flussi di merci, capitali e persone che hanno un enorme effetto sugli Stati, senza che questi ultimi siano in grado di riportarli sotto il proprio controllo. Ma perché la sovranità si mostra così esposta alle turbolenze globali? Qual è la radice della sua attuale problematicità? A tale riguardo, in particolare dagli anni ’80 in poi, la filosofia «radicale» è venuta sviluppando una larga messe di riflessioni, in parte ispirate dalla valorizzazione, o in alcuni casi dalla riscoperta, di pensatori quali Foucault e Schmitt non interni al «canone» liberaldemocratico, soprattutto per come questo si è venuto configurando dopo la svolta normativa di Rawls e Habermas. Si tratta, tuttavia, di riflessioni che non di rado prendono strade divergenti. Là dove Antonio Negri insiste sull’antinomia fra potenza e potere sovrano, fra immanenza del desiderio e mediazione trascendente del politico, Giorgio Agamben lavora piuttosto sulla esclusione includente fra vita e diritto che segnerebbe il destino della sovranità fin dal diritto romano arcaico. Tuttavia, entrambi respingono l’associazione fra processo di costituzione della sovranità e imporsi della regola democratica, riposante sulla figura del cittadino libero ed eguale. Tale critica al connubio fra sovranità e democrazia non è accolta da Wendy Brown la quale, pur mettendo in luce la crisi della sovranità generata dall’affermazione dei dispositivi securitari e neoliberisti, continua a rivendicarne il profondo valore normativo.

1. Giorgio Agamben:
linguaggio, homo sacer e potere destituente

La filosofia di Giorgio Agamben1 è uno degli sviluppi più profondi seguiti alla fissazione, compiuta da Martin Heidegger, della differenza ontologica come differenza fra essere ed ente: non potremmo mai incontrare gli enti se non fossimo già guidati da un Seinsverständnis, da una comprensione dell’essere. Tuttavia, la filosofia occidentale nasce precisamente sulla base dell’oblio, della rimozione, di questa differenza:
Quando Talete, alla domanda su che cosa sia ciò che è [...] risponde: è acqua, egli spiega qui ciò che è a partire da un ente [...], pur cercando in fondo che cosa è l’ente in quanto essente [...]. Nella domanda egli comprende qualcosa come l’essere, nella risposta invece interpreta l’essere come ente (Heidegger 1988, p. 306).
In questo brano del corso estivo del 1927 all’Università di Marburgo su I problemi fondamentali della fenomenologia, Heidegger rinvia, come già in Essere e tempo, al Dasein, all’esserci, come suprema condizione di possibilità per l’apertura della differenza ontologica. Ma che cosa è esattamente il Dasein? Nel suo libro filosoficamente forse più denso, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Agamben ritrova nella lettera di Heidegger a Jean Beaufret del 23 novembre 1945 la spiegazione più perspicua di questo concetto. Da questa lettera si ricava che Dasein significa
essere-il-Da. Se si accetta la traduzione ormai invalsa di Dasein con Esserci, si dovrebbe allora intendere questa espressione come ‘essere-il-ci’. Se questo è vero [...], questo significa che proprio nel punto in cui la possibilità di essere il Da, di essere a casa nel proprio luogo, è assunta, attraverso l’esperienza della morte, nel modo più autentico, il Da si rivela come il luogo da cui minaccia una negatività radicale. Qualcosa è, nella piccola parola Da, che nullifica, che introduce la negazione in quell’essente – l’uomo – che ha da essere il suo Da. La negatività proviene al Dasein dal suo stesso Da (Agamben 1982, p. 11).
Il Dasein è dunque ciò che deve essere la sua negatività. Ma l’esperienza più radicale della negatività è per lo Heidegger di Essere e tempo l’essere-per-la-morte, il riconoscimento, durante la vita, della possibilità della sua fine. Ne segue che in tanto il Dasein è in quanto si assume la possibilità di non essere.
In Heidegger, l’assunzione con la morte della propria non possibilità è però singolarmente scissa da ciò che il linguista e psicanalista francese Jean-Claude Milner avrebbe chiamato il factum loquendi, il fatto che gli esseri viventi parlino e dispongano del linguaggio, in quanto sia distinto dal factum linguae, dal fatto che ciò di cui l’essere vivente parla merita di essere portato a espressione linguistica. Solo nella chiamata della coscienza (parr. 56-58 di Essere e tempo) il Dasein incontra il discorso, ma al suo grado zero, là dove esso stinge nel suo opposto: «la coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del tacere» (Heidegger 2005, p. 327). Onde si può dire che l’appropriazione della negatività che attraversa il Dasein in quanto esser-per-la-morte avviene nel silenzio, in ciò che solo ex negativo può suscitare il puro factum loquendi.
All’alba della metafisica occidentale, in Aristotele, si aveva però già contezza dell’impossibilità di divaricare homo sapiens e homo loquens. Definendo l’uomo come zoon logon echon, come quell’essere che ha il linguaggio, che ha da essere il linguaggio, così come il Dasein ha da essere la sua morte, Aristotele ha infatti spezzato la naturale immanenza del linguaggio all’uomo. A differenza degli animali, nei quali la terre ingénue, avrebbe detto Mallarmé, si esprime in modo non-decomposée nella voce, di modo che essi sono sempre nella lingua, non possono averla, l’uomo non è naturaliter parlante, e non lo è perché ha un’infanzia, vive una fase nella quale deve appropriarsi del linguaggio come qualcosa di preesistente. Tuttavia, come Agamben spiega nel suo terzo libro, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (1978), dedicato alla delineazione di questa problematica, l’infanzia non va intesa solamente come una particolare scansione nell’esistenza dell’uomo, ma come in-fanzia, strutturale esperienza-limite, luogo «trascendentale» della differenza fra nome e discorso, langue e parole, semiotico e semantico. Che cosa significa ciò? Per comprenderlo dobbiamo ritornare al brano tratto da I problemi fondamentali della fenomenologia. Heidegger vi sostiene che alla domanda circa «che cosa sia ciò che è» la filosofia ha tentato di rispondere studiando «l’ente in quanto essente», l’ente in quanto rimandato all’essere, a ciò che, benché altro da sé, pure viene fondandolo. È la struttura dell’«in quanto» o del «come», dice Agamben in uno dei suoi libri più belli, La comunità che viene, a rendere dunque possibile la differenza ontologica. Se si dice, infatti, che qualcosa è in quanto o come «qualcosa» non si sta solo percorrendo il circolo della comprensione, per il quale il quod est, l’ente, presuppone il quid est, l’essere o essenza; ciò che si sta determinando è al contempo la capacità del linguaggio di ospitare la differenza fra soggetto e predicato. Ma nella filosofia «ciò che era propriamente da pensare – la parola come, la relazione di esposizione – è rimasto impensato. Questo come originario è il tema della filosofia, la cosa del pensiero» (Agamben 1990, p. 71).
La genesi dell’interrogazione intorno a quest’impensato della filosofia è in Agamben legata alla frequentazione di Benjamin, la cui figura, in molti modi decisiva per lui2, ha fatto ingresso nel suo mondo ideale contemporaneamente a quella di Heidegger, di cui ha costituito il «contravveleno» (Andreotti, De Melis 2006, p. 2). Se ne capisce già la ragione: criticando, in Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, la nozione borghese di linguaggio come puro mezzo di comunicazione e invitando ad accedere all’esperienza della stessa comunicabilità, della pura esistenza del linguaggio, Benjamin ha definitivamente sottratto Agamben alla presa di un Dasein afasico. Tuttavia, è ancora al pensiero di Aristotele che bisogna innanzitutto ricorrere se si vuole intendere la tesi agambeniana circa la differenza interna al linguaggio fra nomi e discorso, langue e parole, semiotico e semantico, senso e denotazione. A questa differenza interna al linguaggio sovrintende in Aristotele quella, in un certo senso esterna, fra phoné e logos, cui si è appena fatto cenno. La formulazione della Politica (1253 a 10-18) è a questo riguardo molto chiara: la phoné è il suono che emettono gli animali in immediata corrispondenza del piacere e del dolore, mentre il logos, da cui dipendono il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, dunque le sorti della comunità politica, è peculiarmente umano. Donde si può facilmente concludere che il linguaggio coincide con il togliersi della voce, «ha luogo nel non-luogo della voce» (Agamben 2016, p. 30). Nel De Interpretatione (16a, 3-7), tuttavia, Aristotele aggiunge che il processo di significazione è composto da quattro termini: ciò che è nella voce, i patemi dell’anima correlati alla voce, le cose a loro volta corrispondenti ai patemi dell’anima e le lettere (i grammata). La presenza di quest’ultimo termine è paradossale: mentre i primi tre termini sono esclusivamente segni, in quanto rinviano ad altro, le lettere sono allo stesso tempo segno ed elemento della voce. È anzi la lettera a permettere alla phoné di diventare énarthros, «articolata», di farsi cioè linguaggio. Onde si può sostenere che il passaggio dalla voce al linguaggio, il «togliersi» della prima nel secondo, è promosso da un termine che è indice di se stesso, è una traccia di se stesso.
L’importanza di Derrida sta nell’aver colto la decisività del gramma come traccia nel processo di costituzione della cultura occidentale. Ma il suo limite sta nel non aver inteso che la metafisica non è
semplicemente il primato della voce sul gramma. Se metafisica è quel pensiero che pone in origine la voce, è anche vero che questa voce è, fin dall’inizio, pensata come tolta, come Voce. Identificare l’orizzonte della metafisica semplicemente nella supremazia della φωνή e ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo. Crisi e critica del capitalismo
  3. Capitolo secondo. Il destino della sovranità nell’epoca neoliberista
  4. Capitolo terzo. Le nuove dimensioni della soggettività
  5. Capitolo quarto. Tra universalismo e antagonismo: la democrazia difficile
  6. Capitolo quinto. Il pluriverso delle identità
  7. Bibliografia