1.
Le classificazioni binarie
1.1. Noi e loro, amici e nemici
Nella comunicazione politica contemporanea accade sempre più spesso che fatti, eventi, situazioni nazionali e internazionali complesse e sfumate siano ridotte a formule binarie, per cui la realtà diventa una contrapposizione fra un noi compatto e privo di differenze e contrasti, e un loro rappresentato come ugualmente omogeneo, una contrapposizione rispetto alla quale si invitano gli elettori e le elettrici, i cittadini o, come sempre più spesso si dice in politica, «la gente», a fare una netta scelta di appartenenza.
Questo è solo uno dei modi in cui si esprime una tendenza ancor più generale, che possiamo chiamare tendenza alla semplificazione e che si ritrova nel linguaggio con cui gli attori politici si rivolgono – tramite i media tradizionali, i nuovi media o in prima persona sul territorio – al loro elettorato di riferimento (§ 3.1). A questa stessa tendenza può essere ricondotto, per usare un’espressione oggi di moda, il cosiddetto storytelling, vale a dire l’uso di strutture narrative elementari per organizzare ciò di cui si parla o si scrive (cap. 2). Anche la personalizzazione della politica (§§ 2.1 e 3.1), in atto da così tanti anni nelle democrazie cosiddette «mature» o post-democrazie (cfr. Crouch 2003) che ormai le scienze politiche la danno per scontata, può essere vista come tendenza alla semplificazione, perché significa ridurre a una sola voce, quella di un/a leader, la polifonia di temi, punti di vista e interessi che inevitabilmente si agitano in un partito, in una coalizione, in una qualunque aggregazione politica e sociale.
Fra i primi a rilevare la propensione alle classificazioni binarie ci fu, all’inizio degli anni Novanta, il sociologo statunitense Jeffrey Alexander (1992): in tutte le democrazie, osservava, i discorsi politici tendono a organizzarsi sistematicamente attorno a uno schema binario rigido, che corrisponde alla divisione fra noi e loro, fra amici e nemici, da cui nasce la lotta politica. Da un lato dello schema binario, valorizzato come positivo, sta il/la leader che parla (e il partito, la coalizione, l’organizzazione che rappresenta), e da quello stesso lato si posizionano valori che si dà per scontato siano – in assoluto e in qualunque contesto – positivi, buoni e da perseguire: ad esempio democrazia, libertà, giustizia; dal lato opposto stanno i significati e i valori degli avversari, bollati come anti-democratici, anti-libertari, repressivi, ingiusti, e come tali considerati decisamente negativi, in qualunque contesto e da qualunque punto di vista li si guardi. Si dà così per scontata, come se fosse ovvia e naturale, una suddivisione rigida, attorno alla quale prendono forma le dispute politiche: lo schema binario, infatti, non è mai reso esplicito, non si relativizzano i concetti che mette in gioco (libertà di chi e per fare cosa? giustizia nei confronti di chi e in che campo? democrazia di che tipo, con quale sistema elettorale?), né mai si mette in discussione la legittimità del collocarsi da un lato o dall’altro dell’opposizione (siamo sicuri che la parte politica che predica libertà, democrazia e giustizia le realizzi poi davvero?).
1.2. Lo schema binario in Italia
Il primo a portare in Italia questa tendenza con particolare nettezza fu Silvio Berlusconi, con la sua «discesa in campo» nel 1994. La stessa denominazione Polo delle Libertà assunta dalla coalizione di centrodestra da lui guidata esprimeva la divisione che abbiamo detto: presentarsi come Polo delle Libertà vuol dire infatti comunicare sia una visione binaria della scena politica, sia un’attribuzione di significati e valori radicale, per cui chi parla è il polo positivo «delle libertà» (non una, ma tante libertà, idealmente tutte), mentre l’avversario diventa il polo negativo della repressione anti-democratica e anti-libertaria.
Per esemplificare lo schema binario su cui Berlusconi fondò non solo il suo primo ingresso in politica, ma gran parte della sua comunicazione nei successivi vent’anni, riprendo uno stralcio del celebre discorso della «discesa in campo» con cui, il 26 gennaio 1994, annunciò la sua intenzione di entrare in politica per realizzare un «nuovo miracolo italiano». È un brano interessante non solo e non tanto per il suo valore storico, ma perché vi si leggono con grande chiarezza, pur a distanza di molti anni, contrapposizioni che ancora oggi sono molto vive, sulla scena sia italiana sia internazionale:
La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica. Mai come in questo momento l’Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato.
Il movimento referendario ha condotto alla scelta popolare di un nuovo sistema di elezione del Parlamento. Ma affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che al cartello delle sinistre si opponga un polo delle libertà che sia capace di attrarre a sé il meglio di un Paese pulito, ragionevole, moderno.
Di questo polo delle libertà dovranno far parte tutte le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle democrazie occidentali, a partire da quel mondo cattolico che ha generosamente contribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria. L’importante è saper proporre anche ai cittadini italiani gli stessi obiettivi e gli stessi valori che hanno fin qui consentito lo sviluppo delle libertà in tutte le grandi democrazie occidentali.
Quegli obiettivi e quei valori che invece non hanno mai trovato piena cittadinanza in nessuno dei Paesi governati dai vecchi apparati comunisti, per quanto riverniciati e riciclati. Né si vede come a questa regola elementare potrebbe fare eccezione proprio l’Italia. Gli orfani e i nostalgici del comunismo, infatti, non sono soltanto impreparati al governo del Paese. Portano con sé anche un retaggio ideologico che stride e fa a pugni con le esigenze di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia.
Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell’iniziativa privata, non credono nel profitto, non credono nell’individuo. Non credono che il mondo possa migliorare attraverso l’apporto libero di tante persone tutte diverse l’una dall’altra. Non sono cambiati. Ascoltateli parlare, guardate i loro telegiornali pagati dallo Stato, leggete la loro stampa. Non credono più in niente. Vorrebbero trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna (corsivi miei).
Da una parte stanno, valorizzati negativamente, «la vecchia classe politica italiana», «i vecchi governanti», «gli orfani e i nostalgici del comunismo» (e cioè dei «vecchi apparati comunisti, per quanto riverniciati e riciclati»), coloro che «non credono più a niente»; dall’altra parte stanno, visti positivamente, il «Polo delle libertà», «le persone con la testa sulle spalle», quelle che vogliono un «Paese pulito, ragionevole, moderno», «le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle democrazie occidentali» e desiderano un’«amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia».
Suddivisioni binarie simili – o addirittura identiche – hanno accompagnato tutta la comunicazione di Berlusconi dal 1994 a oggi, anche accendendosi, negli anni, di forti coloriture passionali che lo hanno portato a esprimersi persino in termini di contrapposizione fra amore e odio. Bastano pochi esempi, distanti negli anni, a testimoniare la straordinaria persistenza di queste dicotomie.
Lo slogan della campagna di centrodestra per le elezioni regionali del 2000, ad esempio, ripetuto ossessivamente negli spot televisivi, sulle affissioni stradali, nei materiali cartacei inviati per posta, era «una scelta di campo», che riduceva la complessità della situazione economica, sociale e politica del Paese a una scelta fra «due Italie», una tutta positiva e capace di amare, l’altra tutta negativa e capace solo di odiare e incutere paura. Questo è il testo completo che nel 2000 la coalizione di centrodestra inviò per posta a tutte le famiglie italiane, simulando una lettera scritta e firmata da Berlusconi in persona:
Una scelta di campo
tra il rischio di un regime e la certezza della libertà.
Il 16 Aprile sarai chiamato a scegliere il governo della tua regione.
Ma dovrai fare, in realtà, una scelta più importante. Una scelta di campo tra due Italie: tra la «loro» Italia, l’Italia della disoccupazione, delle pensioni insufficienti, delle tasse troppo alte, dell’insicurezza e della paura, un’Italia che sa solo proibire e odiare, e la «nostra» Italia, l’Italia che sa anche e soprattutto amare, l’Italia libera, giusta, generosa, che ho in mente io e che, sono sicuro, hai in mente anche tu.
Silvio Berlusconi (citato da Gelsumini 2007, p. 24, corsivi miei).
Sei anni dopo, nel 2006, Berlusconi costruì sulla stessa opposizione fra amore e odio (quest’ultimo sempre combinato alla paura) l’appello che lanciò agli elettori pochi giorni prima delle elezioni politiche, durante la trasmissione televisiva Dopo il Tg condotta da Clemente Mimun il 6 aprile 2006:
Il 9 e il 10 aprile dovete andare a votare [e] dovete fare una scelta di campo tra due Italie, [quella] dell’odio e della paura [e quella] dell’amore [...]. [Da un lato ci sarà] l’Italia della sinistra, l’Italia delle tasse, delle pensioni umilianti, delle porte spalancate ai clandestini, degli scioperi, dei no global, dei cortei che incendiano striscioni, l’Italia della paura, l’Italia che vuole buttare fuori dalle scuole la religione, l’Italia che tassa [...]. [Dall’altra parte invece,] ci sarà la nostra Italia, l’Italia del benessere, della piena occupazione, del primo impiego, l’Italia della possibilità data ai ragazzi di mettere a frutto il proprio talento. L’Italia che sa anche e soprattutto amare (ivi, p. 25, corsivi miei).
Ricordo infine che nel 2010 Berlusconi arrivò a pubblicare un libro dal titolo L’amore vince sempre sull’invida e sull’odio (Berlusconi 2010).
È dunque contro la vecchia classe politica (tutta negativa) che nel 1994 sorgeva, per scalzarla, quella nuova (tutta positiva) rappresentata da Berlusconi, un non politico che non solo ha sottolineato fin dall’inizio la sua non appartenenza al mondo politico (all’epoca pesantemente screditato dagli scandali di Tan...