L'uomo romano
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L'uomo romano

  1. 440 pagine
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L'uomo romano

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Il politico e il cittadino - il soldato - il sacerdote - il giurista - il contadino - lo schiavo - il liberto - il mercante - l'artigiano - il povero - il bandito: come in un gioco di mille specchi, il volto dell'uomo romano cambia a seconda dei punti di osservazione.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105764
Argomento
Histoire

Brent D. Shaw. Il bandito

«Sono stato il capo di una famosissima banda e ho saccheggiato tutta la Macedonia. Sono un predone famoso, quell’Emo di Tracia al cui nome tremano intere province. Terone fu mio padre, brigante anch’egli celebre; fui nutrito di sangue umano, allevato in mezzo alle schiere della sua banda, erede ed emulo del valore paterno».
Queste le vanterie di un bandito caduto in disgrazia, che espone il suo curriculum vitae ai membri della nuova banda cui spera di aggiungersi (Apuleio, Metamorfosi, 7, 5). Nel raccontare questa biografia immaginaria, il romanziere pone in risalto quelli che sente come i tratti essenziali della figura del brigante: una tradizione ereditaria di fuorilegge, un’«alterità» barbarica, l’affermazione della propria personale indipendenza. Questa specie di brigante radicata nella società romana, il bandito «isolato», è il tipo di fuorilegge in cui rientra la maggior parte dei banditi nella moderna opinione comune. La tipica immagine del brigante presente nelle nostre menti è quella del capo solitario alla testa di una piccola banda di gregari: Robin Hood, Louis Mandrin, Jesse James o Salvatore Giuliano.
Possiamo confrontare questa figura di individuo solitario alla ricerca di un lavoro di tipo violento con il seguente resoconto di Plutarco sui problemi molto più grossi che affliggevano l’impero romano negli anni 80-50 a.C.:
La roccaforte dei pirati fu da principio la Cilicia. La loro potenza nacque lì, quasi a caso e inavvertitamente, ma prese coscienza ed ardire nel corso della guerra mitridatica [88-85 a.C.], quando si misero al servizio del re. Durante le guerre civili, mentre i Romani si azzuffavano tra di loro alle porte di Roma, il mare, rimasto abbandonato e senza sorveglianza, a poco a poco li attrasse, li fece uscire dai loro covi; ed essi non solo attaccarono i naviganti, ma si diedero a devastare isole e città costiere. Ormai anche personaggi potenti per ricchezza, appartenenti ad illustri famiglie o stimati più accorti di molti altri, si assodarono all’impresa e s’imbarcarono in affari di pirateria, pensando che quel mestiere avrebbe procurato loro, in qualche modo, fama e onori.
I pirati disponevano di scali un po’ dappertutto e di fari fortificati. Ad essi s’appoggiavano flottiglie non solo attrezzate per il loro particolare mestiere, dotate di equipaggi robusti, piloti abili, navi veloci e leggere, e rese temibili dalla loro forza [...]. La cattura di comandanti militari, le città prese e taglieggiate, costituivano un’onta per l’egemonia romana. [...] La potenza dei pirati si estese più o meno uniformemente su tutto il mare Mediterraneo così che divenne impossibile a qualsiasi mercante navigare e percorrerlo (Plutarco, Vita di Pompeo, 24, 1-3, 4; 25, 1, trad. di C. Carena).
Qui il brigantaggio è diventato qualcosa di assai diverso. Si è evoluto in una minaccia allo stato su larga scala, una forma più permanente e collettiva di violenza, provocata dalla anomala coesistenza di più poteri statali nel Mediterraneo, fenomeno che permise e favorì la sua fioritura.
Infine, possiamo accostare la pirateria descritta da Plutarco a questo racconto dello storico Ammiano Marcellino sui banditi isaurici nell’età tardoimperiale:
Infatti anche gli Isauri, i quali di solito alternano spesso periodi di pace con improvvise scorrerie in cui sconvolgono ogni cosa, spinti dall’audacia che, favorita dall’impunità, si sviluppava in forme più gravi, passarono da azioni di brigantaggio nascoste e rare a massicce imprese di guerra. Lungamente avevano infiammato i loro animi ostili con moti incessanti, ma erano stati profondamente colpiti dal trattamento indegno riservato, come essi andavano dicendo pubblicamente, ad alcuni loro connazionali, i quali, fatti prigionieri, contrariamente ad ogni consuetudine, erano stati esposti alle fiere durante uno spettacolo in un anfiteatro di Iconio, città della Pisidia. [...] In massa si volsero come un turbine dalle montagne scoscese ed altissime verso i luoghi vicini al mare dai quali, nascosti in zone inaccessibili e remote ed in convalli, all’avvicinarsi della notte – la luna ancora crescente non era in tutto il suo fulgore – osservavano i naviganti. [...] Quindi, poiché ben presto con il passar del tempo il mare non offriva alcuna preda, abbandonata la costa, si trasferirono nella parte della Licaonia confinante con l’Isauria ed ivi, bloccate le strade con numerosi posti di guardia, si saziavano delle ricchezze dei viaggiatori. [...] Sebbene i soldati si sforzassero di respingere, con le forze di cui disponevano, i barbari che sempre più dilagavano, alle volte in schiere compatte, altre in gruppi isolati, tuttavia erano vinti dalla forza della moltitudine. Questa infatti, nata e cresciuta tra le profonde e sinuose gole dei monti, vi si aggirava come se fossero pianure che non presentano difficoltà per i movimenti, attaccando da lontano con i giavellotti quanti si facevano innanzi e spaventandoli con urla orrende (Ammiano Marcellino, 14, 2, 1-6, trad. di A. Selem).
Quando Ammiano prosegue riportando il verificarsi di massicce ondate di banditismo nell’Isauria (siamo negli anni 350-70), risulta evidente che ciò che sta descrivendo è un vero e proprio fenomeno storico di lunga durata, una sorta di autonomia regionale da lui etichettata come «banditismo» o latrocinium. In questo caso l’autonomia regionale era caratterizzata dal brigantaggio di massa nelle zone montuose dell’Isauria e della Cilicia, nell’Anatolia sudorientale. Era una zona dove la violenza aveva carattere endemico, e rappresentò una piaga che afflisse sempre l’Impero romano, come poi quello bizantino. Ammiano, quindi, ci fornisce un buon esempio di un brigantaggio che si colloca all’estremo opposto rispetto ai banditi isolati e solitari dell’immaginario popolare: ci informa dell’esistenza di intere regioni e popoli che, dal punto di vista dello stato romano, erano considerati «di briganti». I signori degli altipiani e i dinasti dell’Isauria erano davvero dei banditi, ma di proporzioni tali da rendere il bandito «isolato» come Emo di Trada, che rappresenta il nostro stereotipo del brigante, insignificante. Ma, data la gamma di possibilità indicateci dai tre casi di brigantaggio descritti da Apuleio, Plutarco ed Ammiano, si pone a questo punto un problema di definizioni. Che cosa, o chi è esattamente un bandito?
In primo luogo, il banditismo è una forma di potere personale. Qualche rara volta è accaduto che dei banditi abbiano trasformato il loro potere in forme di potere più istituzionalizzate, come quella di uno stato. Ma finché i banditi rimangono tali, essi rappresentano un’affermazione del singolo, una sorta di «protesta individuale», come l’ha definita uno storico moderno. Questo potere individuale, basato sul carisma, sull’impressione destata dall’aspetto, sulla forza bruta e su legami di tipo personale (familiari, di amicizia o clientelari) è probabilmente una delle originarie forme di potere conosciute dall’uomo. Come tale, è sia logicamente che storicamente anteriore allo stato. Se si esaminassero le società senza stato, come, ad esempio, quelle descritte nell’epica omerica, si troverebbe che questa forma di potere costituisce, in quel tipo di società, la norma, ed è accettata da tutti i membri come il solo modo di rapportarsi gli uni agli altri. Anzi, mancava del tutto la possibilità che essa potesse essere definita in qualche altro modo da qualche altra forma di potere concorrente. Per essere etichettato come «inaccettabile» il banditismo doveva essere soppiantato da forme di potere istituzionalizzate, come quella dello stato, che si opponevano a esso, volevano subordinarlo, addomesticarlo, e, in ultima analisi, eliminarlo. Nella nuova situazione creatasi con lo stato, le forme di potere personale in competizione tra loro furono delegittimate, e ad alcune di esse fu applicata la qualifica di minacce di ritorno all’anarchia prestatale. Da questo punto di vista, quindi, la sensazione era che, nella gamma dei possibili tipi di potere posti in graduatoria secondo la loro importanza ed il loro contenuto di eticità, il banditismo si collocasse nel punto più basso. Sant’Agostino espresse così il concetto: «Una volta allontanata la giustizia, che cosa sono i regni se non grandi bande di briganti? E che cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?» (La città di Dio, 4, 4). Ma quel «regno», lo stato, deve innanzitutto esistere, prima che un genere corrotto di potere chiamato banditismo, e un ruolo sociale delinquenziale, quello del bandito, possano essere riconosciuti come tali. Se osservata da un’altra prospettiva, comunque, la figura del bandito può fornire allo storico moderno un buon indice della maggiore o minore presa dello stato sul complesso della società. Studiando i banditi nel mondo romano, non solo si capisce di più di queste «riserve arcaiche» di potere personale nel mondo romano, ma si comprende anche meglio la natura dello stesso stato romano.
Nella terminologia formale latina, i banditi erano generalmente definiti latrones (singolare, latro), e il banditismo come latrocinium. In quella metà del mondo romano dove le élite sociali e politiche usavano il greco come koine, i termini greci corrispondenti, per designare i banditi e il brigantaggio erano lestai (singolare, lestes) e lesteia. Come abbiamo appena detto, il punto di riferimento più antico per questi termini era una forma di potere prestatale, l’anarchia storicamente antecedente alla nascita dello stato. Ciò è espresso in forma simbolica nei racconti mitici sulla fondazione delle grandi comunità politiche ateniese e romana. Nel primo caso, il leggendario fondatore dell’Attica, Teseo, sconfigge dei lestai prima di dirigere la grande unificazione mitica (synoikismos) dell’Attica, la fondazione dello stato ateniese (Plutarco, Vita di Teseo, 6, 4; 10, 2). Nel caso di Roma, sono Romolo e Remo che abbandonano il loro ruolo di pastori-banditi nel processo di fondazione della nuova città (Livio, 1, 4, 9; 1, 5, 3; Eutropio, 1, 1-3).
Il problema, per i pensatori romani, era allora quello di capire attraverso quale processo, o per il possesso di quali requisiti, le società civilizzate si distinguevano da quelle primitive. Quando Cicerone considerava la giustizia il valore etico fondamentale che permetteva alle società umane di funzionare, ammetteva che perfino le bande dei delinquenti obbedivano alle sue «leggi generali». In più, egli tracciava una distinzione chiaramente quantitativa fra banditismo e statualità: «Tale essendo dunque l’effetto della giustizia, da consolidare ed aumentare anche la potenza dei briganti, quanto grande penseremo che sia la sua forza in un ordine legale, giuridico e politico?» (Dei doveri, 2, 11, 40). Ma non era soltanto una «giustizia più grande» a distinguere lo stato dal brigante. La distanza che li separava era, agli occhi di Cicerone, qualitativamente assoluta, come quando poneva a Clodio, suo nemico personale e politico, la domanda retorica: «Che cos’è, infatti, una cittadinanza? Ogni raccolta di uomini, anche feroci e selvaggi? Ogni moltitudine, anche di fuggitivi e ladroni riuniti in un solo luogo? Non c’è dubbio, dirai di no» (I paradossi degli stoici, 27). E ancora, per quanto la giustizia esigerebbe un trattamento imparziale, c’era un’assoluta diversità tra questo semplice comportamento e la costituzione di uno stato. Il caos del potere personale che non faceva affidamento che su un’etica di fair play per realizzare la coesione sociale è caratteristico, per Cicerone, dell’assenza di qualsiasi tipo di stato: vale a dire, le norme concordate all’interno di un gruppo di uomini «non recano il nome di leggi più che se dei briganti ne avessero stabilite nelle loro bande» (Delle leggi, 2, 5, 13). In effetti, mettendo a nudo l’artificialità della cultura e delle norme morali si arriverebbe a riconoscere che c’erano ancora alcuni popoli «barbarici» per i quali il banditismo era un’occupazione onorevole.
Ma secondo la morale dominante chi si dava al banditismo lo faceva contro le proprie intime convinzioni etiche: se avesse avuto la possibilità di scegliere, il bandito avrebbe preferito acquisire dei beni «con mezzi onorevoli» piuttosto che rubando. Secondo le generali affermazioni di una moralità statale, anche chi aveva fatto il brigante per tutta la vita non viveva più in uno spazio etico separato da quello degli altri uomini, i sudditi degli stati. Più precisamente veniva espressa, da parte di senatori moralisti come Seneca, ad esempio, l’idea secondo cui il senso morale di ciò che era «sbagliato» (e si specifica che il banditismo rientra in questa categoria) «fa risplendere la sua luce nell’animo di tutti ed anche coloro che non la praticano la vedono» (Seneca, Dei benefici, 4, 17, 4). Una madre sdegnata e infuriata nel romanzo di Apuleio fa le stesse affermazioni quando esclama, rimproverando suo figlio: «Eh, sì, sono proprio quelli che hanno commesso le colpe più gravi che sperano impunità nonostante che hanno la coscienza sporca» (Metamorfosi, 7, 27).
Ci si può rendere conto della fusione tra un’asserzione morale a carattere generale e le affermazioni di legittimità politica, se si prende in esame la definizione che la legge romana propone dei banditi e del banditismo. Il Digesto, nella parte riservata alle definizioni dei termini (De verborum significatione, «latrones», 50, 16, 118), dichiara: «I nemici (hostes) sono coloro che ci hanno dichiarato guerra, o a cui noi abbiamo dichiarato guerra; tutti gli altri sono banditi (latrones) o predoni (praedones)».
Il problema è, per gli storici moderni, che le nostre categorie di «bandito» e «banditismo» non sono sovrapponibili a questa sommaria definizione romana. Secondo la visione propria dei Romani, molto più brutale e rigida della nostra, o si era uno stato legittimo e riconosciuto, in grado di combattere una guerra regolare (bellum) con lo stato romano, o si era un bandito. In questo modo, il mondo veniva ad essere diviso in categorie più rigorose delle nostre: mancavano nel loro spettro le sottili sfumature della violenza non statale. Le faide di villaggio, le scorrerie tribali, i diversi tipi di rivolte urbane (causate dalla fame o da motivi religiosi), e così via, non sono incluse come tali nella definizione. Benché noi possiamo escludere queste altre forme di violenza da quello che consideriamo il banditismo propriamente detto, occorre ricordare che i Romani non facevano queste sottili distinzioni. Siamo noi a farle.
Potremmo cominciare esaminando il banditismo come forma «isolata» e minore di violenza, così come esemplificato nella storia di Emo, il brigante trace disoccupato del romanzo di Apuleio, citata all’inizio. Questo banditismo è una forma di violenza personale, perseguita il più delle volte da piccoli gruppi (anche se non sempre è così) e caratteristica di società contadine (ma, anche qui, ci sono delle eccezioni). È un tipo parassitario di sussistenza in cui l’acquisizione di beni e servizi dipende in via diretta dall’uso della violenza fisica e delle minacce. Questo aspetto del banditismo come particolare «economia di violenza» era largamente riconosciuto anche nell’antichità. Sia Platone che Aristotele riconoscevano nel banditismo, o lesteia, una delle forme comuni di comportamento economico, un particolare modo di acquisire beni che si affiancava all’agricoltura, alla pesca, alla pastorizia e alla caccia come uno dei fondamentali «modi di vita» (bioi) economici dell’uomo (Aristotele, Politica, 1256 a-b). Platone ha un atteggiamento più moralistico (dal punto di vista dello stato, come ci si poteva attendere), e quindi classifica il banditismo come sottotipo del modo di vita fondato sulla caccia, moralmente censuratile e assai diverso dall’attività venatoria così come la esercitavano gli aristocratici, a cavallo e con quadrupedi quale preda (Platone, Leggi, 7, 824 d). Per molto tempo, comunque, l’esatta natura del legame tra il nuovo stato emergente, da una parte, e il vecchio mondo arcaico, dall’altra, rimase tutt’altro che chiara. L’uno poteva esistere nell’altro. Per esempio, secondo le «leggi» attribuite a Solone (594 a.C. circa), pare fosse del tutto legale ad Atene formare «società di pirati» con l’obiettivo di attaccare altre città. Dunque lo stato nascente era ben disposto ad ospitare al suo interno aree di potere privato, nella misura in cui la violenza da esse esercitata fosse diretta contro altre comunità. Non esisteva ancora il weberiano «monopolio della forza», così importante per una moderna definizione del banditismo. Così, lo storico Tucidide (1, 5), uomo della polis, e quindi fermamente contrario al banditismo, ammetteva che c’erano ai suoi tempi comunità greche per le quali la pirateria era un’occupazione del tutto rispettabile, che, lungi dall’essere vergognosa, era anzi apportatrice di un’onorata reputazione.
Al contrario di queste idee più «moderate», proprie dell’antica polis greca, le principali correnti ideologiche dell’Impero romano nella sua fase di massimo splendore, più «dure», non contemplavano assolutamente la possibilità della coesistenza tra potere dei banditi e potere dello stato, malgrado il fatto che Cicerone, ad esempio, ammettesse che i banditi rispettavano alcune delle norme fondamentali del comportamento sociale: avevano i propri principi di giustizia, e tra di loro cariche e proprietà venivano distribuite in modo parallelo al sistema applicato nella società civile legittima:
essendone tale l’efficacia [della giustizia], che nemmeno coloro, che si pascono di bricconate e di delitti, potrebbero vivere senza una qualche particella di giustizia. Chi infatti ruba o rapina qualcosa a qualcuno di coloro nella cui banda fa anch’egli il ladro, è estromesso dalla banda stessa; e colui che è detto il capo dei pirati, è o soppresso o abbandonato dai suoi compagni se non divide equamente la preda. Che anzi si dice che vi siano perfino delle leggi dei briganti (leges latronum), che essi obbediscono ed osservano. Così per la sua equità nella divisione del bottino il brigante (latro) illirico Barduli [...] si ebbe grande potere (Cicerone, Dei doveri, 2, 11, 40, trad. di N. Zorzetti).
Quantunque Cicerone si servisse del brigante Barduli a fini filosofici, egli non fu mai disposto neanche a prendere in considerazione una compresenza di «giustizia brigantesca» e legge dello stato. Per il senatore romano, si trattava di due cose nettamente distinte.
La definizione di bandito propria dello stato romano ebbe un significato di disapprovazione e di condanna talmente forti, che il termine «bandito» (latro) poté essere generosamente impiegato per connotare gli oppositori poli...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. L’uomo romano
  2. Claude Nicolet. Il cittadino, il politico
  3. John Scheid. Il sacerdote
  4. Aldo Schiavone. Il giurista
  5. Jean-Michel Carrié. Il soldato
  6. Yvon Thébert. Lo schiavo
  7. Jean Andreau. Il liberto
  8. Jerzy Kolendo. Il contadino
  9. Jean-Paul Morel. L’artigiano
  10. Andrea Giardina. Il mercante
  11. Charles R. Whittaker. Il povero
  12. Brent D. Shaw. Il bandito
  13. Paul Veyne. «Humanitas»: romani e no