1746. La rivolta antiaustriaca e Balilla
di Giovanni Assereto
La rivolta antiaustriaca scoppiata a Genova nel dicembre del 1746 è stata sempre considerata, a ragione, un esempio di grande eroismo collettivo, del quale tanto la città ligure quanto l’Italia intera possono andare fiere. Ma lo storico, di fronte agli eventi eroici, deve sempre assumere un atteggiamento di estrema cautela, o addirittura di diffidenza: non necessariamente per dissacrarli o per negarne l’autenticità, ma perché occorre distinguere chi ne è stato davvero protagonista e chi ne ha goduto i frutti, magari attribuendosene il merito; e perché ogni atto di eroismo è destinato a subire – nella memoria e nelle rievocazioni – stravolgimenti o vere e proprie mistificazioni. Cercheremo dunque di analizzare in modo disincantato quella vicenda, prendendo brevemente in esame sia la rivolta stessa, sia il contesto in cui essa è esplosa, sia infine i modi in cui è stata ricordata e celebrata.
Il contesto è la guerra di successione austriaca, iniziata nel 1740 in seguito al mancato riconoscimento, da parte di alcune potenze europee, della successione in linea femminile all’imperatore Carlo VI d’Asburgo a favore di sua figlia Maria Teresa: guerra che vede contrapposti da un lato l’Austria, l’Inghilterra, l’Olanda, il regno di Sardegna, dall’altro la Francia, la Spagna, il regno di Napoli, la Baviera, la Sassonia, la Prussia. È un conflitto che, a ben vedere, interessa assai poco la piccola repubblica di Genova, la quale tuttavia il 1° maggio 1745, firmando il trattato di Aranjuez, entra in un’alleanza difensiva e offensiva con le corti borboniche di Francia e Spagna, e con tale decisione viene a interrompere una neutralità che durava da oltre due secoli.
Che cosa ha spinto la repubblica ad abbandonare la sua tradizionale condotta? Anzitutto il timore di perdere il marchesato del Finale, enclave strategica che Genova – dopo avervi lungamente aspirato – ha acquistato dall’impero nel 1713 e che il trattato austro-anglo-sardo di Worms del 13 settembre 1743 ha promesso a Carlo Emanuele III di Savoia. Ma anche l’assoluto bisogno di procurarsi la protezione di una grande potenza – la Francia in questo caso – sia per averne un aiuto contro la ribellione della Corsica, che dura ormai da sedici anni, sia per parare le mire espansionistiche dello stesso Savoia che, spalleggiato dall’Inghilterra, aspira in realtà a impadronirsi di tutta la riviera ligure di Ponente.
La neutralità, che è stata a lungo una scelta utile e felice, rischia insomma di diventare controproducente, di esporre Genova alle altrui prepotenze: come si sentenzia nei Consigli della repubblica, c’è da «temere più la pace che la guerra». Invece l’alleanza con Versailles e Madrid – con i «gallispani», come allora si dice – garantisce l’integrità territoriale, compresa la Corsica, e forse può procurare anche qualche ingrandimento: ad esempio Oneglia, terra sabauda incastonata nella Liguria, o Loano, feudo dei Doria su cui però da alcuni anni il Savoia esercita la sua sovranità. Naturalmente questa alleanza ha un prezzo: Genova deve impegnarsi a fornire un contingente di 10.000 soldati e un treno di artiglieria da impiegare in Lombardia. È un impegno che verrà mantenuto solo in parte, perché tra giugno e luglio del 1745 vengono mobilitati non più di 8.000 uomini, 2.000 dei quali disertano subito, 1.500 poco dopo. Un diplomatico ha definito queste truppe «scarpe leggere», riferendo che in marcia scappano a compagnie e prevedendo che al fronte fuggiranno a battaglioni. Non c’è da stupirsene, visto che sono state reclutate in gran parte fra i disertori dei vari eserciti che allora combattono in Italia, e che quindi l’arte della diserzione la conoscono bene. Assoldare questi mediocri reparti ha comunque un costo, per coprire il quale la repubblica è costretta ad aumentare le gabelle, gravando su quei ceti popolari a cui della guerra non importa nulla e che da essa ricaveranno solo depredazioni, devastazioni e nuove tasse.
La decisione di abbandonare la neutralità è stata sofferta, perché si tratta di un passo problematico e rischioso, indipendentemente dallo schieramento prescelto. Entrare in guerra con l’Austria significa scontrarsi con la potenza cui spetta sia la sovranità sui molti feudi imperiali che circondano la repubblica, e dei quali per lo più sono titolari i maggiori patrizi genovesi, sia il possesso dello Stato di Milano, cioè del principale partner commerciale del porto di Genova. D’altra parte mettersi contro la Francia è impensabile: equivarrebbe a perdere un protettore indispensabile e a inimicarsi anche la Spagna, dove i genovesi conservano numerosi interessi economici e dove molti patrizi della Superba detengono cariche e titoli. Più in generale, per un ceto di governo che fonda le proprie ricchezze soprattutto sui prestiti internazionali, può essere suicida fare la guerra a paesi (siano essi l’impero o la Francia) in cui ha collocato ingenti capitali. Così, entro i Consigli genovesi, il dibattito relativo all’opportunità di entrare nel conflitto e alla scelta delle alleanze ruota intorno non solo alla ragion di Stato, ma anche agli investimenti finanziari delle principali famiglie, di modo che in seno al patriziato non si può in alcun modo raggiungere un’unanimità di intenti.
Il trattato di Aranjuez viene perciò sottoscritto con molte riserve mentali e con qualche volpe sotto l’ascella. L’ideale, per il governo genovese, sarebbe non scontentare nessuno, cioè entrare in guerra più a parole che nei fatti: dichiararla, la guerra, ma non combatterla, promettere l’intervento ma non intervenire. Non a caso si firma il trattato, ma poi si cerca di tenerlo nascosto,...