La bussola dell'antropologo
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La bussola dell'antropologo

Orientarsi in un mare di culture

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La bussola dell'antropologo

Orientarsi in un mare di culture

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Informazioni sul libro

Conoscere le culture che ci circondano e sono parte delle nostre vite e dei nostri stessi corpi. Culture che si intrecciano nel mondo globalizzato e iperconnesso di oggi. Questo consente l'antropologia: difenderci dai razzismi e dai tribalismi che attraversano le società contemporanee e, soprattutto, cogliere le proposte innovative che ci offrono altri punti di vista per camminare, creativamente, verso il futuro.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858120804
Categoria
Antropologia

1. Corpi, oggetti e culture aggrovigliate

È attraverso il corpo che costruiamo la nostra soggettività: allo stesso tempo, il corpo è il luogo in cui si manifestano le reti sociali e interculturali di cui siamo parte. La fabbricazione del corpo, infatti, avviene anche guardando al modo in cui altri, in altri contesti, danno forma ai loro corpi. Magrezza e abbondanza, acconciature, segni indelebili sotto pelle narrano storie e vicende personali, svelando nel contempo connessioni e grovigli di culture.
Così per gli oggetti che ci circondano: attraverso di essi personalizziamo le nostre case e le nostre vite ed esibiamo le nostre relazioni con gli altri. Gli oggetti sono un po’ come estensioni del nostro corpo e forse per questo, nell’epoca della «realtà aumentata» on line di internet, assistiamo a un «ritorno degli oggetti» e al desiderio di recuperare il patrimonio materiale del nostro recente passato.
Centinaia di musei etnografici sono sorti nel nostro paese, silenziosi presìdi e sentinelle di altre forme di socialità e di lavoro, di modalità di rappresentazione e narrazione del mondo, un vero e proprio campionario di possibilità a volte irrimediabilmente perdute, altre volte preziose fonti di ispirazione per ripensare il futuro.

Globesità

Globesity, «globesità». È con questo termine che lo studioso americano Sander Gilman definisce l’ossessione per i corpi abbondanti che pervade l’Occidente contemporaneo3. Una «epidemia di obesità» si starebbe pericolosamente diffondendo nel pianeta, portando con sé gravi rischi di malattie come il diabete, l’ipertensione, problemi cardiaci e vascolari. Espressioni belliche quali «guerra» e «lotta» all’obesità, un nemico o «virus» da sconfiggere, sono piuttosto diffuse sui media. Nel 2008 il Centre for Disease Control americano ha dato all’obesità lo statuto di malattia, permettendo quindi la prescrizione di farmaci. In un mondo in cui, paradossalmente, una parte consistente dell’umanità soffre cronicamente la fame, la «globesità» è enfatizzata come un problema maggiore.
Un articolo pubblicato sulla rivista «Science», firmato da Ahima Rexford e Lazar Mitchell, mette ora in discussione non tanto il quadro allarmistico complessivo, quanto il modo in cui calcolare le condizioni di «sovrappeso» e di «obesità»4. L’articolo propone di rottamare niente meno che l’indice di massa corporea (noto a livello scientifico come Bmi, Body Mass Index). Inventato nell’Ottocento dal matematico e criminologo belga Adolphe Quetelet, il Bmi categorizza le persone in «sottopeso», «normopeso», «sovrappeso» (una condizione già di rischio) e «obese», mediante un semplice rapporto tra il peso (in chilogrammi) e l’altezza (in metri quadrati).
Nel tempo, tuttavia, la linea di confine tra «normali» e «sovrappeso» è stata spostata più volte verso il basso: nel 1998 il confine venne ridotto da 27,5 a 25, con il risultato che ben 29 milioni di statunitensi entrarono a far parte dell’area di rischio dei «sovrappeso». «Science» propone ora di adottare un indice molto più complesso che tiene conto del rapporto tra massa grassa e massa muscolare, delle differenze di genere e di corporatura tra persone appartenenti a diverse popolazioni.
Le perplessità e i dubbi di «Science» non suonano nuovi nel campo delle scienze sociali. A partire almeno dagli anni Novanta, sociologi e antropologi, alla luce di ricerche comparative e nel quadro di riflessioni sul carattere «imperialista» di alcuni aspetti della biomedicina contemporanea, hanno espresso riserve sul Bmi, sull’idea che sia in corso una «epidemia di obesità» e sulla definizione dell’obesità come malattia.
A essere messe seriamente in discussione sono le pretese di definire in modo semplice, lineare e universale le caratteristiche di un corpo in salute, senza tenere conto delle variabili sociali, culturali e politiche. Ridurre il problema dell’obesità a un appetito vorace, a questioni genetiche o a scelte individuali è apparso come una diagnosi non solo errata e riduttiva, ma soprattutto generatrice di politiche sanitarie inefficaci quanto costose. Il Bmi, tarato su un corpo «ideale» costruito a partire da modelli occidentali, soffrirebbe insomma di una malattia concettuale che gli scienziati sociali definiscono «etnocentrismo». E che consiste nel misurare gli altri (letteralmente, in questo caso!) con il metro della propria cultura, delle proprie concezioni (e mitologie) del corpo.
Nel suo recente volume Il peso del corpo. Un’analisi antropologica dell’obesità a Tonga, Gaia Cottino studia la globesità posizionandosi nelle isole del Pacifico5. La scelta dell’Oceania è motivata dal fatto che questo «mare di isole» racchiude molti degli Stati che occupano i primi posti delle classifiche mondiali dell’obesità. Il rapporto dell’Oms del 2000 collocava infatti ben otto nazioni oceaniane nei primi dieci posti – Nauru con il 94% della popolazione obesa, seguito da Samoa, Samoa Americane, Cook, Tonga, Polinesia francese, Stati Federati della Micronesia, Niue. Perché questo «primato»?
Osservando la «globesità» a partire da uno specifico contesto, collocandosi cioè in una delle tante periferie del sistema globale, si possono sfatare molti dei miti che animano i discorsi sull’obesità. In primo luogo, molte lingue e culture fanno distinzione tra «grasso» e «grosso». In rapporto agli europei, i polinesiani hanno in effetti una corporatura molto più robusta – si stima che all’epoca della scoperta occidentale dell’arcipelago da parte di James Cook, nella seconda metà del Settecento, gli uomini tongani avessero un’altezza media di circa 1,70 m, ben oltre gli europei di quel periodo. La grande diffusione del rugby a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha ulteriormente «ingrossato» i maschi polinesiani, per i quali tra l’altro l’essere grossi è un ideale corporeo che riflette le capacità dell’individuo di avere molte relazioni sociali e uno status elevato. A sua volta, avere molte relazioni sociali comporta il mangiare spesso (e molto!) insieme. La genetica, la storia, l’organizzazione sociale, i valori legati al cibo e alla corporeità, sono tutti fattori che insieme concorrono a modellare il corpo dei tongani. Il Bmi da solo dice ben poco sull’obesità e può trarre in inganno – suonava ironico che gli All Blacks, i rugbisti maori, finissero nella categoria dei ciccioni a rischio!
Rimane il fatto che, negli ultimi decenni, l’aspettativa di vita in molte di queste isole è scesa, a causa di malattie come il diabete e i problemi cardiovascolari. I risultati della ricerca di Gaia Cottino spostano l’attenzione dall’obesità alla malnutrizione. Il problema di fondo non è il controllo dell’appetito, né l’impatto della modernità (con cui i tongani si confrontano da più di due secoli). La storia di questo popolo di navigatori ci dice che la preferenza per pasti abbondanti, per cibi grassi e unti, per corpi grandi – ricordiamoci che le donne tahitiane incantarono i marinai inglesi per la loro prosperità – è un tratto persistente delle loro culture. Ciò che è cambiato, generando rischio e malattia, non è tanto la quantità di cibi, quanto l’infima qualità di quel junk food (cibo spazzatura) che proprio a partire dagli anni Ottanta ha cominciato a invadere le isole. Bevande iper-caloriche, costolette di agnello considerate come scarti dal mercato occidentale, carne in scatola e snack di varia natura sono entrati nella dieta quotidiana dei tongani e di molte altre popolazioni del Sud del mondo, deteriorando le condizioni di salute. La miglior cura dell’obesità, insomma, consisterebbe in una revisione delle politiche alimentari globali, piuttosto che nell’imposizione di diete e nella prescrizione di farmaci.

I tatuaggi: culture a fior di pelle

È sufficiente una passeggiata sul litorale, in un’assolata giornata estiva, per farsi un’idea dell’incredibile diffusione del fenomeno. Tatuaggi ovunque e di ogni forma: bicipiti, spalle, fondoschiena, polpacci marchiati con animali esotici, figure geometriche, ideogrammi, fiori e farfalle. Non più, non solo adolescenti e giovani appartenenti a una controcultura: il tatuaggio è ormai una moda contagiosa anche per i loro genitori. Musicisti, atleti e attori hanno tracciato il sentiero: se un tempo il tatuaggio era un segno di primitività o di devianza, oggi è al contrario un marchio di progresso. L’Occidente ha fame di tatuaggi e cerca altrove, in altre culture, simboli autentici e «tribali», come si usa dire.
«Se cerchi un tatuatore, vai da Willy». Così mi dissero, qualche anno fa, alcuni amici di Futuna. In tanti anni di ricerche etnografiche in Oceania non mi ero granché interessato al tatuaggio, benché lo stesso termine sia originario proprio della Polinesia. Fu James Cook a raccogliere la parola tatau a Tahiti nel 1769, durante il suo primo viaggio di esplorazione del Pacifico, e a divulgarla in inglese (tattoo, tattooing) insieme a una descrizione densa della pratica. Willy è un giovane sulla trentina, di mestiere fa il meccanico di automobili e, nei week-end, integra il salario con i tatuaggi. Willy però, a differenza di quanto ci piacerebbe immaginare, non è l’ultimo discendente di una lunga dinastia di artigiani-tatuatori: «La passione mi è venuta in Francia, quando facevo il militare – racconta –. Ho imparato a tatuare in Nuova Caledonia, in una bottega di indonesiani». Quando gli chiedo se nel suo repertorio ci siano segni locali, mi risponde che qui, sull’isola, «non vanno». La gente vuole i tatuaggi dei calciatori, oppure segni cristiani (la Croce, il Sacro Cuore). Alla fine mi inviterà a visionare il suo campionario su un pc, connettendosi a un sito californiano.
Strana, avvincente e pressoché sconosciuta storia, quella dei tatuaggi6. Molti occidentali sognano oggi esotici ed autentici marchi polinesiani da esibire a fior di pelle, mentre i polinesiani si imprimono, oltre alle tradizionali figure geometriche, marchi occidentali. Il tatuaggio non era una pratica del tutto ignota all’Occidente, prima di Cook: greci, romani, celti e altre popolazioni europee praticavano forme di tatuaggio, seppure non esteticamente elaborate come quelle oceaniane o giapponesi. Già Őtzi, la mummia del Similaun, aveva parecchi segni impressi sotto pelle, forse a scopo terapeutico.
La scoperta dei tatuaggi polinesiani da parte di Cook ebbe tuttavia un ruolo dirompente nel trasformare in Europa una pratica marginale in un fenomeno ben più importante, tanto da meritare un nuovo nome: tattoo. Con Cook si apriva una nuova pagina, non solo perché i tatuaggi polinesiani venivano descritti e rappresentati con cura (si pensi ai visi maori raffigurati da Sydney Parkinson), ma anche perché molti marinai e ufficiali divennero così intimi coi nativi da farsi tatuare dagli stessi tahitiani, accettando di buon cuore questa forma di «violenza controllata»7. Ci troviamo sì davanti a curiosità per l’esotico e il fascino à la Rousseau del primitivo «incontaminato», ma anche a un desiderio di incorporare l’altro, rendendolo parte indelebile del s...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Corpi, oggetti e culture aggrovigliate
  3. 2. Si fa presto a dire famiglia
  4. 3. Oltre l’«homo oeconomicus»
  5. 4. Imparare a fare
  6. 5. Umanità senza confini