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Storia e geografia di un'idea

  1. 288 pagine
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Storia e geografia di un'idea

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Dai codici francese, tedesco e svizzero a quello italiano del 1942, dai codici latino-americani al caso di Cuba, dove sopravvive l'ultimo codice socialista, dalle codificazioni nella realtà cinese fino al dibattito sull'opportunità di un codice europeo: sono alcuni dei temi di un itinerario di studio che del codice civile finisce per confermare l'attualità come strumento dell'esperienza del diritto.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858104163
Argomento
Law
Categoria
Legal History

Il codice civile italiano: inventario di un mezzo secolo (1992)

1. Il codice civile italiano nelle pagine (D’Amelio e Vassalli) della «Nuova Antologia» del 1942

Che dalle pagine della «Nuova Antologia» si sia parlato del codice italiano nel cinquantesimo anniversario (il codice entrò in vigore il 21 aprile 1942, giorno ‘natale’ di Roma, una data scelta per sottolineare la solennità dell’evento secondo lo stile e la retorica del tempo, quasi a volere istituire un nesso di storica continuità dalle dodici tavole al fascismo) non è un fatto casuale. Alla «Nuova Antologia» proprio in quel lontano 1942 un giurista che per singolare ventura nella sua vita esercitò le funzioni di avvocato, professore, giudice, legislatore, Filippo Vassalli, affidava un discorso (Il nuovo codice civile, vol. 77, fasc. 1685, pp. 159 sgg.) che più tardi, nel mutato clima della ritrovata democrazia politica, avrebbe riproposto in una rivista specialistica, accresciuto da considerazioni più strettamente tecniche (Motivi e caratteri della codificazione civile, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1947, p. 76, riapparso poi in «Studi giuridici», III, 2, 1960, p. 605).
Prima di quello scritto, pervaso del sereno equilibrio e della saggezza disincantata che sempre segnarono l’opera e la vita di Vassalli, la «Nuova Antologia» aveva ospitato, nella fase della lunga vigilia (a volte tormentata e febbrile, più spesso tranquilla e stagnante) dedicata alla preparazione del codice, un saggio parimenti significativo, e non solamente per la provenienza da una sede altissima. Ne era autore Mariano D’Amelio, che si trovava al vertice della Suprema Corte di Cassazione e dirigeva la commissione chiamata a redigere il codice civile (La vocazione del secolo XX alla codificazione, vol. 390, fasc. 1560, 16 marzo 1937, pp. 163 sgg.). La rilettura di Vassalli e D’Amelio, e soprattutto del secondo, che aveva usato per le sue riflessioni un titolo di manifesta derivazione savignyana, è utile a chi ancora voglia porsi alla ricerca di un’appagante risposta all’interrogativo affacciato alla caduta del fascismo e reso più urgente dal ritorno alle libertà politiche e dall’avvento della Costituzione repubblicana.
Gli anni dal 1943 al 1950 registrarono, come ci avverte una rapida incursione nella storiografia del diritto contemporaneo, un dibattito che in principio ebbe toni accesi e vivaci ma rapidamente si attenuò e si spense, conoscendo soltanto episodiche ed occasionali riprese. Che abbia prevalso la tesi della conservazione del codice, sostenuta da letture dell’opera attente agli aspetti tecnici e scevre da pregiudizio politico, appare a distanza di tempo il risultato di una scelta (politica e tecnica, per ripetere i due termini) operata secondo ragione; e per comprenderla e per giustificarla sono particolarmente preziose, oltre che il giudizio di personaggi al di sopra di ogni sospetto (e la memoria con immediatezza corre a Calamandrei) e l’apprezzamento dei ‘tecnici’ (e stavolta si impongono i nomi di Santoro-Passarelli e di Giuseppe Ferri), le indicazioni raccolte dalla pagina di D’Amelio e Vassalli. I due giuristi nel lavoro dei codici rimasero implicati sino all’ultimo, investiti di una fiducia e, certamente, di aspettative del regime; ma l’affidamento e le attese del ceto politico non riuscirono a vincere la dignità, la coerenza, il rigore dell’impegno con cui i giuristi cercarono di assolvere il compito a cui erano stati chiamati.
In primo luogo si era compiuta, dai nostri giuristi di vecchia scuola, la difesa del codice come della ‘forma’ più adeguata, sul piano storico e positivo, per un regolamento sistematico dei rapporti privati. Sul punto, osservava D’Amelio, vi erano opposizioni di duplice segno: la più moderata, ‘di destra’, invitava a ritardare il ritmo dell’opera «per lasciare il tempo alla dottrina fascista di evolversi e di affermarsi»; dall’estrema sinistra (i termini destra, sinistra, moderati, avanzati vengono adoperati da D’Amelio) si sosteneva che «i codici non solo non debbono rinnovarsi, ma debbono sparire, per dar luogo ad una breve e chiara ed elastica serie di norme, tipo Carta del lavoro, dalla quale giudici ed amministratori trarrebbero ispirazione e guida nel loro ufficio». La prospettiva di una così radicale posizione, agli occhi dell’onesto giurista di allora, non era il diritto libero o la restaurazione del diritto comune; era un diritto politicamente ‘controllato’, destituito di ogni certezza presso i destinatari delle norme.
La replica alle due tendenze era consegnata ad una pagina di ammirevole fermezza. Quanto al suggerimento di ritardare o di rinviare, era sufficiente riflettere sulla inidoneità di «idee finora non manifestate» a condizionare il regime di istituti quali i diritti reali, le obbligazioni in generale, la grande maggioranza dei contratti, le garanzie, le successioni (e l’elenco, a guardar bene, riempiva largamente, se proprio non esauriva, il quadro dell’intero diritto privato). Ancor più netta la risposta all’idea di ripudiare i codici, una teoria che «giunge come l’onda stanca di un movimento marino lontano», e di un moto estraneo e inconciliabile col nostro modo di pensare e di fare le leggi, pur se essa faceva mostra di nomi prestigiosi (come quello di Carl Schmitt, che dei codici aveva annunciato e salutato con compiacimento e sicurezza il crepuscolo) e richiamava con ammirazione e spirito imitativo l’esperienza in atto in Germania.
Ma era proprio l’avventura intellettuale in corso nel paese all’Italia legato dalla soffocante alleanza politico-militare a provocare la reazione intransigente del giurista italiano, una reazione dichiarata senza possibilità di compromessi o di parziali adesioni. Decisiva appariva la persistenza, contro il Führerprinzip tedesco, dell’idea dello Stato e della sua sovranità come principio dominante e quindi, in assoluta coerenza, l’inaccettabilità di leggi ‘sommario’ o ‘con prefazione’ o di ‘programma’, quali erano le leggi «in uso in Germania, e che fanno strano contrasto coi venerandi codici, espressioni unitarie e profonde della grande scienza tedesca».
La prosa di D’Amelio, altissimo giudice e non occasionale legislatore, assume, soprattutto se pensiamo al clima di quegli anni, un preciso significato, pur se il prezzo che il giurista deve pagare per esprimere con voce robusta il suo dissenso è la ribadita statualità del diritto. Il lettore di oggi, educato al pluralismo, può attenuare o respingere questa parte del discorso, ma ancora deve condividere il momento critico della riflessione. «Non vi possono, scriveva D’Amelio, esser leggi o prefazioni di leggi, e norme di applicazione di leggi che non emanino dallo Stato [...] Cade, pertanto quella allucinante organizzazione superstatale, per la quale si è ritenuto che il diritto, e quindi i codici debbono essere espressione, non dello Stato ma della Comunità, che ama manifestare la sua volontà legislativa, in forma più sobria e meno precisa, salvo al giudice, membro della stessa Comunità, di compiere l’opera del legislatore, concretandola nel momento stesso che l’applica alla fattispecie». Il linguaggio, come si vede, diveniva aspro e tagliente: il proposito di sostituire alla certezza del diritto (di fonte statuale) le discrezionali valutazioni della «comunità del popolo» (che era la nozione elaborata dal delirio dei giuristi tedeschi) appariva «allucinante», mentre la pretesa meno eversiva di sostituire ai codici documenti come la Carta del lavoro veniva liquidata, con mitigata violenza verbale ma con pari disprezzo, come «frutto di candida ingenuità ed inesperienza».
La universale ‘vocazione’ del secolo al codificare risultava del resto confermata, e con questo panorama si chiudeva il saggio affidato alle pagine della «Nuova Antologia», dal fervore con cui aree geografiche le più diverse, paesi aperti o refrattari alla ‘forma’ codice avevano provveduto a dotarsene, talvolta attraverso la recezione di testi già sperimentati. La rassegna si allargava alla Repubblica sovietica, «la più feconda di codici», ai Revised Statutes nordamericani, al codice di diritto canonico in cui era confluita la dispersa varietà di fonti disseminate per quindici secoli di storia della Chiesa d’Occidente.
Il giurista, che del codice civile si impegnava ad illustrare motivi e caratteri – mentre il testo legislativo entrava in vigore e, con le stesse pagine rivedute ed arricchite, dopo un intervallo breve di anni ma denso di eventi eccezionali –, assumeva un atteggiamento non in tutto conforme, a cominciare dal punto della ‘vocazione’ del secolo al codificare su cui D’Amelio aveva insistito. Il riferimento è a Vassalli, del quale si è già ricordata l’assidua partecipazione al lavoro dei codici: nel rievocare gli inizi degli studi per la riforma, nella commissione insediata nel 1918, Vassalli poteva dire, con sentimento di orgoglio e di responsabilità, di aver contribuito «ininterrottamente al lavoro fin da quel remoto inizio» e di aver svolto «una parte singolarmente determinante nella fase decisiva e conclusiva».
Senza svalutarla, il Vassalli dell’ultimo dopoguerra è portato a ridimensionare la ‘forma’ codice, con un’attitudine certamente influenzata dalla riscoperta del diritto inglese a cui si era da poco accostato come un visitatore mosso da curiosità e subito riempito di ammirazione: «chi scrive vorrebbe limitato l’ufficio del codice a strumento di cognizione e di organizzazione della materia e riafferma la sua decisiva preferenza per il diritto sciolto dai limiti dei codici».
La dolente diagnosi dell’ultimo dopoguerra – quando in Germania i giuristi più sensibili mettevano a nudo la perversione degli ordinamenti e ripercorrevano le vie faticose di un diritto di ragione – induceva a riconoscere i limiti delle codificazioni civili, strettamente connesse con la formazione dello Stato centralizzato e con il principio della statualità del diritto, per il contrasto lacerante con l’esperienza terribile da cui l’umanità era appena uscita. I codici nazionali avevano gravato con pesanti restrizioni, e non solamente nell’attività economica, la libertà individuale; avevano infranto l’ideale comunione di costumi e di regole espressa dal diritto comune e ne avevano pregiudicato l’universale fondamento collocato nella ragione; con la frequenza delle continue innovazioni avevano compromesso la stabilità delle relazioni sociali e reso agevole il controllo, oltre che la produzione, del diritto da parte delle classi dominanti. Dal canto suo, l’esperienza concreta aveva conosciuto ed esaltato, in misura sempre più larga, il fenomeno della extrastatualità del diritto civile, un diritto privato che tra gli uomini aveva continuato ad avere valore e ad ottenere rispetto pur nell’assenza e nella contraddizione dei pubblici poteri, come era accaduto nell’Italia divisa dall’armistizio e dalla guerra interna.
L’esame di coscienza del giurista attorno alla codificazione civile era dunque portato, più che a negare ogni seria influenza dell’ideologia sul codice, a rivendicare all’opera un carattere tecnico che già di per sé, prescindendo dalla dirittura morale e dalla competenza professionale dei giuristi italiani, aveva costituito una barriera invalicabile. «I difetti dell’opera», osservava Vassalli (ed è significativo che anche questa considerazione, come l’altra sul diritto ‘sciolto’ dai limiti del codice, sia incidentalmente fatta nell’edizione del 1947, in una noterella a piè di pagina), «sono incomparabilmente inferiori a quelli che è dato riscontrare in ogni altro settore dell’attività dei pubblici poteri»; l’indole ‘ermetica’ della legislazione civile impedisce, «tolto forse pel divorzio, i figli naturali e la funzione sociale della proprietà, che vi dilaghino l’incompetenza e l’irresponsabilità di coloro i quali dissertano e dispongono, per esempio, nei campi dell’economia, della finanza e di tanti rami dell’amministrazione».
La sincerità con cui venivano riconosciuti i difetti – quanto al rigore delle formule, alla costanza della terminologia, alla uniformità di espressione dei concetti ricorrenti – e veniva sottolineata l’esigenza indifferibile di sostituire il codice dell’unità italiana «entrato in agonia» sin dal 1918 e già superato «per suggestione d’altri modelli e il diffondersi di indirizzi di studio», si accompagna alla coscienza della intrinseca limitatezza d’ogni codice, di un’angustia che nemmeno l’estrema cura formale riesce a riscattare. La definizione di codice è nella pagina di Vassalli di una semplicità persino eccessiva e forse sconcertante, così come può apparire elusiva la distinzione dei compiti tra il politico e il giureconsulto, chiamati a dare all’iniziativa e all’elaborazione rispettivamente la materia e la forma. Ma l’astratta separazione è subito corretta dall’immagine di un legislatore che «non può non essere un giureconsulto egli stesso», e del comando nuovo che deve inserirsi «nella tessitura complicata del diritto preesistente» e chiede perciò che si risolvano «problemi di formulazione e di coordinamento, regolamento d’interferenze, considerazione di effetti riflessi anche assai remoti».
Il codice è perciò – e nel riconoscerlo si compie dal giurista una professione di profonda umiltà – qualcosa di non nuovo né rivoluzionario; esso non fornisce nemmeno lo specchio esatto dell’ordinamento della società politica in cui vige, più spesso rappresentando «un mondo ch’è stato o un mondo com’è prospettato o desiderato». E tuttavia, senza coltivare l’illusione che ogni riforma debba necessariamente approdare al codice come ad un sancta sanctorum del corpo del diritto, se ne deve riconoscere il carattere di «ordinamento razionale delle regole di diritto relative a una determinata materia, meglio a tutto un ordine di materie», e perciò nella legge civile deve essere posto in luce «un atteggiamento mentale meno prossimo al comando che al ragionamento» e, «più che l’immediatezza, la cura di ricondurre i precetti ai principi, un’analisi minuta, fatta di distinzioni e di riserve», uno sforzo di analisi in cui si accumula e si compendia «tutto un lavoro di meditazione, di discernimento, di costruzione».
La lettura di Vassalli e della più remota pagina di Mariano D’Amelio rimane itinerario persuasivo da suggerire a chi voglia riprendere in mano il codice – con l’interesse, se non proprio nell’esercizio del mestiere di storico o di politologo o di sociologo, poiché per il giurista si tratta di un quotidiano strumento di lavoro – a tanta distanza dall’entrata in vigore. Ancor più semplice e convincente può riuscire una rilettura del codice civile; ma essa può raccomandarsi, se si intende commemorare o celebrare il codice, solo a chi abbia sufficiente dimestichezza col diritto e col suo linguaggio (una lingua che nel caso del codice è resa accessibile, più di quanto non accada normalmente per le nostre leggi, in virtù della revisione formale che, per i primi libri, fu affidata ad illustri filologi dell’epoca).

2. I rischi delle celebrazioni e il pericolo dell’apologia dei codici

Conviene evitare parole come celebrare o commemorare: con la prima si enfatizzano i valori che il codice racchiude mentre la seconda suscita l’idea che si vogliano riesumare cose antiche e persino desuete.
Il pericolo più grave si annida, tuttavia, nelle celebrazioni; e va detto subito che apprezzare i codici, e il codice civile italiano in particolare, non significa negligenza delle ragioni da cui derivano l’insoddisfazione e la sofferenza, né vuol tradursi nella retorica esaltazione del ‘codificare’ come scelta ideale e procedimento tecnico della moderna cultura. Ancor meno si intende esaltare tutti e ciascuno dei testi in cui rimane fermata e racchiusa l’esperienza concreta che va sotto il nome di codice.
Nelle celebrazioni dei codici civili, per essere sinceri, sono frequenti le posizioni apologetiche che vi ravvisano un simbolo intoccabile della dignità nazionale. Per averne un’idea basta menzionare una iniziativa presa per il centenario del codice spagnolo (che risale al 1889); si comprenderanno i rischi a cui va incontro il giurista quando cerca di porre il ‘suo’ codice al centro della cultura e della storia del ‘suo’ paese e procede ad accostamenti con persone, avvenimenti, settori della vita sociale in maniera fantasiosa ed arbitraria, inducendo al sorriso chi riesca a superare l’irritazione.
In un volume intitolato al centenario del código civil, alla serie di argomenti che il lettore ragionevolmente si attendeva – come quelli relativi al rapporto tra Costituzione, codice civile e diritti forales, e alla cosiddetta «costituzionalizzazione» del codice – si affiancano temi che con l’opera legislativa hanno in comune solamente il legame con la Spagna di fine Ottocento. Così ai compilatori è sembrato utile tracciare un immaginario incontro tra Miguel de Unamuno e le materie del codice, ed è parso opportuno fornire, nel quadro della «Spagna del codice civile», abbondanti ragguagli sulla scienza medica, su arene e toreri dell’epoca, sulle emissioni filateliche e più in generale sulle comunicazioni postali e telegrafiche della penisola alla fine del secolo. La varietà degli interessamenti e l’invito a interloquire rivolto ad esperti di disparate competenze trovano la giustificazione più attendibile nel numero elevato e nell’eterogenea natura degli sponsor.
Il codice spagnolo del 1889 appartiene alla ‘famiglia’ dei diritti romano-germanici, e più precisamente al novero dei codici civili derivati dal Code Napoléon; il rapporto di discendenza è così stretto da essere indicato come una «filiazione». L’importanza del Code Napoléon, storicamente posto come stipite nella ‘genealogia’ dei codici latini, è proporzionale alla quantità dei paesi raggiunti in via diretta o mediata, e il codice spagnolo assume nell’elenco una posizione di spicco perché fu il veicolo attraverso il quale si estese l’area della sua influenza in larga parte dell’America Latina. In verità il continente latino-americano fu anche terreno di originali sperimentazioni, ma sempre rimane un legame solido e tenace col codice francese, generalmente ricevuto attraverso il código civil del Regno di Spagna (quando il codice spagnolo non veniva adottato nella sua interezza).
Attorno al Code Napoléon la venerazione e la fedeltà si esprimono in Francia con toni più eleganti, anche se la misura è sempre elevata; il discorso, se non si ferma all’apprezzamento ‘tecnico’ dell’opera, insiste sul valore del codice nella storia delle istituzioni e sulla diffusione del modello al di là delle frontiere. L’aver superato i confini dell’epoca e del paese per cui era stato pensato e scritto rimane agli occhi dei giuristi francesi (e non solamente dei giuristi) il merito non effimero del loro co...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. La «forma» codice: storia e geografia di un’idea
  3. Codice civile, due voci per un’enciclopedia
  4. Il codice civile del 1942 visto dalla scienza giuridica
  5. Per una rilettura del codice civile
  6. Il codice civile italiano: inventario di un mezzo secolo (1992)
  7. Ancora sul cinquantesimo «compleanno» del codice civile
  8. Un’aggiornata «rilettura» del nostro codice civile
  9. Il libro delle obbligazioni tra «modernizzazione» e riforma
  10. I commentari al codice civile
  11. L’«individualismo» nel «Code Napoléon»
  12. I cent’anni del codice civile tedesco
  13. Lo «Schuldrecht» del codice civile tedesco: l’esperienza di un secolo
  14. La codificazione tedesca della «caduta» del fondamento negoziale («Störung der Geschäftsgrundlage»)
  15. Il giudice come legislatore nel codice civile svizzero
  16. Il «codice della famiglia» della Repubblica democratica tedesca
  17. La circolazione dei modelli giuridici europei nel mondo latino-americano
  18. La «parte generale» del codice civile nell’«Esboço» di Teixeira de Freitas
  19. La «parte generale» del nuovo codice civile del Brasile
  20. Dalmacio Vélez Sarsfield codificatore
  21. Il «código civil» di Cuba, ultimo codice socialista
  22. La nuova legge cinese sui diritti reali
  23. Appunti sulla legge della Repubblica popolare cinese sui contratti
  24. Note a margine di un «Restatement» del diritto europeo dei contratti
  25. Le prospettive di un diritto europeo ed uniforme dei contratti
  26. Codice civile europeo: un copione recitato fuori tempo?
  27. Nota di lettura
  28. Nota del curatore