Dopo la democrazia
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Dopo la democrazia

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Dopo la democrazia

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Dove è finita la democrazia? Paralizzata in Europa, scavalcata dalla globalizzazione, sopraffatta dal marketing politico, impantanata tra anarchia di piazza e apatia elettorale. Come si può costruire una 'nuova democrazia', dopo la morte di quella che conoscevamo?Appassionato e rigoroso, puntuale e premonitore, Ralf Dahrendorf continua a riflettere sulle sfide della e alla democrazia contemporanea. Piero Ignazi, "Il Sole 24 Ore"Senza profezie azzardate o banali osservazioni, questo libro-intervista abbraccia quasi tutti i temi del dibattito politico corrente, dalla globalizzazione al nuovo localismo, dall'Europa alla bioetica. Ed è uno sforzo per capire e per formulare proposte di riforma tenendo fede a un fondamentale assunto etico-politico: «dopo la democrazia, noi dobbiamo e possiamo costruire una nuova democrazia». Maurizio Griffo, "L'Indice"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117910
Argomento
Economia

1. Democrazia

D.      Dopo due secoli di onorato servizio, la democrazia sembra versare in una crisi profonda e dagli esiti imprevedibili: al punto che non sappiamo nemmeno se sopravviverà alle trasformazioni in corso, se continuerà a esistere nella forma in cui la conosciamo. Oggi quasi tutte le nazioni della Terra definiscono «democrazia» il loro sistema di governo. Come ha scritto John Dunn, «per la prima volta nella storia dell’umanità c’è un’unica forma di Stato dominante, la moderna repubblica democratica, costituzionale e rappresentativa». Lei stesso ha detto che, «quando i regimi comunisti dell’Europa dell’Est crollarono uno dopo l’altro a cominciare dal 1989, sembrò che la democrazia avesse vinto per sempre la battaglia». Ma poi ha aggiunto: «Oggi, invece, poco meno di un decennio dopo, molti non ne sono più tanto certi». Il potere reale di autogoverno è evidentemente sempre meno, non sempre più, nelle mani del popolo, del «demos». Il processo di decisione è sempre più remoto e talvolta misterioso. I fenomeni di globalizzazione e di internazionalizzazione sottraggono sempre nuovi spazi alla possibilità di scelte genuinamente democratiche. Io vorrei interrogarla su questa apparente contraddizione, e sui modi per affrontarla.
Innanzitutto: lei concorda con questa mia pessimistica premessa?
R.      Sono d’accordo sul fatto che stiamo assistendo a una profonda crisi della democrazia. Non appartengo alla schiera di coloro che vedono crisi esplodere a ogni angolo del cammino della modernità. Né condivido la ingenuità di chi annuncia una fine – della storia come della democrazia – a ogni nuovo inizio. Scelgo dunque le parole con attenzione. Ma è chiaro che il tipo di democrazia che molti di noi avevano in mente nel 1989 si è imbattuto in difficoltà serie e profonde. Perfino le elezioni non sembrano più in grado di dare risposte soddisfacenti e durature.
Dunque, sebbene io continui a credere nei principi della democrazia classica e a professarmi un suo grande difensore, sono anche convinto che noi dobbiamo cominciare a ripensare gli assetti costituzionali attraverso i quali la democrazia funziona, alla luce dei cambiamenti fondamentali che sono avvenuti e continuano a verificarsi. Direi che siamo già entrati in una fase che potremmo definire «il dopo-democrazia», ma che questo non ci esime, anzi ci obbliga, a lavorare alla costruzione di una «nuova democrazia».
D.      Per essere chiari: può definire innanzitutto che cosa intende per democrazia? È il suffragio universale, il parlamentarismo, il principio di maggioranza, il rispetto dei diritti politici e civili, l’esistenza di una Costituzione? Che cosa è la democrazia?
R.      La parola «democrazia» è stata sicuramente svilita nel linguaggio corrente della politica. Quando in Gran Bretagna ventitré lord ereditari appartenenti al gruppo liberal-democratico scelgono fra di loro le tre persone destinate a restare nella «nuova» Camera dei lord, i vincitori sono descritti come «democraticamente eletti». Come vede, può essere davvero uno spiacevole errore confondere le elezioni – tutte e ognuna – con la democrazia politica. D’altra parte, quando la democrazia arriva in parti del mondo prima rette da regimi autoritari, il termine viene usato per comprendere l’intera gamma dei valori moderni: libertà, certamente; eguaglianza, che Tocqueville per primo chiamò democrazia, e, più di recente, anche fraternità. Il termine «democrazia» diventa così un sinonimo di buona società, e anche questo è uno spiacevole errore. Voglio dunque evitare queste confusioni e, con l’aiuto di Karl Popper e John Stuart Mill, tenterò di usare una terminologia chiaramente definita.
La democrazia è un insieme di istituzioni finalizzate a dare legittimità all’esercizio del potere politico fornendo una coerente risposta a tre domande-chiave.
La prima è: 1. come possiamo produrre cambiamenti nelle nostre società senza violenza? La più semplice definizione di democrazia è stata data da Karl Popper: un sistema che rende possibile liberarsi del governo senza spargimenti di sangue. Questa espressione può essere un po’ troppo restrittiva, e forse è più laconica che semplice: le sue implicazioni, infatti, sono in realtà abbastanza complesse.
Aggiungerò dunque altre due domande cui la democrazia dà risposte: 2. come possiamo, attraverso un sistema di «check and balance», controllare quelli che sono al potere in modo da essere certi che non ne abusino? Io non concordo con la famosa battuta di Winston Churchill secondo cui la democrazia è la peggior forma di governo escluse tutte le altre. Probabilmente, quel grande uomo era seccato dai condizionamenti posti al suo potere da Parlamento, elezioni, partiti e da tutto il resto. Lo sono altrettanto molti grandi e meno grandi uomini, ma è proprio questa la ragione per cui la democrazia è una forma così civilizzata di governo. Ci protegge dalla tirannia, anche dalla tirannia dei grandi uomini.
Infine, l’ultima domanda cui la democrazia dà risposta è: 3. come può il popolo – tutti i cittadini – avere voce nell’esercizio del potere? La democrazia è la voce del popolo che crea istituzioni, le quali controllano il governo e rendono possibile cambiarlo senza violenza. In questo senso il demos, il popolo, è il sovrano che dà legittimità alle istituzioni della democrazia.
D.      Quindi la democrazia è essenzialmente controllo del potere?
R.      Nei termini in cui ho posto la questione, ho certamente enfatizzato l’aspetto dei limiti da porre all’esercizio del potere. Ma non vorrei essere frainteso. So bene che l’uso del potere è uno strumento necessario per produrre opportunità di una vita migliore. In un certo senso, dunque, si potrebbero anche capovolgere le tre domande prima elencate privilegiando una più attiva e positiva concezione della democrazia, senza mutare il risultato finale. Esse potrebbero dunque anche essere poste così:
1. come i voleri e le aspirazioni dei popoli possono essere tradotti in azioni e dunque realizzati?
2. come si può costruire questo processo in modo da consentire una efficace rappresentazione di quei voleri e aspirazioni (i partiti), una corretta discussione dei problemi (Parlamenti), che porti a chiare conclusioni (legislazione)?
3. come coloro che esercitano il potere (i governi) possono essere messi in grado di prendere l’iniziativa che produce l’azione?
I nostri sono tempi in cui il diffuso disagio per una certa stagnazione della democrazia può indurci a preferire questo secondo modo di porre le stesse tre domande. Mancur Olson lo fece nel suo Ascesa e declino delle Nazioni. Ma resto convinto che la crisi attuale della democrazia è piuttosto una crisi di controllo e di legittimità di fronte ai nuovi sviluppi economici e politici. Ecco perché io metto invece l’accento sul primo gruppo di domande. Perché siamo di fronte a un’evidente difficoltà in ognuno di quei tre passaggi fondamentali. Le elezioni, per esempio, lo strumento per cambiare coloro che sono al potere, non sembrano avere più l’effetto desiderato: talvolta producono cambiamenti, ma due mesi dopo la gente è di nuovo insoddisfatta, ed è pronta a scagliarsi contro il governo appena eletto al primo manifestarsi di una crisi temporanea e settoriale, ad esempio l’aumento del prezzo della benzina. È come se gli elettori avessero esteso alla politica alcune abitudini da consumatori, e considerassero la democrazia come uno strumento «usa-e-getta», al pari di una lattina di Coca-Cola. I Parlamenti, dal canto loro, hanno perso una grande fetta di potere, non tanto in termini di produzione legislativa, ma in termini di controllo dei governi.
Ma il cuore della crisi della democrazia sta a mio parere nel fatto che le tre risposte prima elencate funzionavano in un contesto particolare, e cioè nella forma tradizionale degli Stati-Nazione. Mentre è molto difficile capire come possano funzionare in altri e diversi contesti. Direi dunque che la relazione tra la crisi della democrazia e la crisi degli Stati-Nazione è centrale. E dunque sostengo che non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla necessità di cambiamenti, anche se crediamo – come io credo con forza – in quelle istituzioni democratiche che, all’interno degli Stati-Nazione, sono state finora capaci di dare risposte alle nostre tre domande. Dunque, qualsiasi cosa io possa proporre in questa conversazione sulle modifiche e i cambiamenti da apportare, devo premettere che lo farò con un pizzico di tristezza e di nostalgia per un mondo che non esiste più.
D.      Tra i valori fondanti della democrazia lei non ha citato lo stato di diritto, la «rule of law». Perché?
R.      Per me l’ordine liberale è composto da due elementi distinti: uno è la democrazia, l’altro è lo stato di diritto, la sottomissione cioè di tutti i cittadini senza distinzioni alla legge. Sono entrambi importanti, ma non sono la stessa cosa. Ci sono stati paesi in cui esistevano rilevanti elementi dello stato di diritto ma che non erano certo democratici: penso alla Prussia. E ci sono stati paesi sicuramente democratici con un molto tenue stato di diritto: penso agli Stati Uniti nella prima fase della storia americana. La Russia, per esempio, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si è concentrata sulla costruzione della democrazia e ha gravemente negletto l’edificazione di uno stato di diritto, pagando un prezzo enorme. Seppure in modi singolari, ci sono oggi paesi come l’Iran che stanno muovendosi in direzione della democrazia ma senza alcuna traccia dello stato di diritto.
Dunque democrazia e rule of law non sono la stessa cosa. Lo stato di diritto dà alcune risposte alle nostre tre domande: per esempio il processo di revisione giudiziale consente forme di check and balance necessarie a esercitare un controllo sul potere. Talvolta la legge prevede meccanismi per assicurare il cambiamento senza violenza, come accade nella Costituzione americana che limita la presidenza a due mandati consecutivi. Ma la rule of law non ci dice molto su come garantire al demos la partecipazione al processo democratico. Sono quindi arrivato alla conclusione alquanto melanconica che noi possiamo sperare di affrontare e risolvere alcuni problemi posti dalla modernità più attraverso un’estensione internazionale dello stato di diritto che attraverso la costruzione di nuove e più ampie istituzioni democratiche. Lo dico con riluttanza, perché penso che la democrazia sia stata e sia tuttora, a livello degli Stati-Nazione, una formidabile soluzione al problema della forma di governo. Ma non credo che essa sia applicabile al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica. Chi continua a proporre sempre nuove elezioni e nuovi mandati elettorali come soluzione al problema della democrazia in ambito internazionale, pensando a governi europei o addirittura mondiali, sta secondo me abbaiando alla luna. L’estensione di elementi dello stato di diritto nella vita dell’Unione europea, per esempio, sarebbe per me molto più realistica e realizzabile dell’elezione diretta del presidente della Commissione.
D.      Prima di addentrarci nell’analisi dei problemi e delle possibili soluzioni, vorrei chiederle se non crede che la crisi della democrazia sia anche una conseguenza di un certo rinsecchimento del pensiero politico liberale. Tutto sommato, la democrazia è nata come un’idea liberale in società governate da «élites». Nel ventesimo secolo ha dovuto fronteggiare l’irruzione delle masse nel processo politico. Molti sostengono che il liberalismo non ha retto a questa sfida, finendo per concentrarsi solo sull’economia, dando risposte al cittadino-consumatore o al cittadino-litigante in una Corte, ma dimenticando la cittadinanza tout court, trascurando cioè di occuparsi della difesa e dello sviluppo dei diritti politici del cittadino.
R.      Il liberalismo è stato usato per molti e differenti scopi. Per me la sua essenza resta una costituzione di libertà, ciò che appunto definisco l’«ordine liberale». Può essere che il pensiero liberale sia in crisi almeno quanto la democrazia. Ma vede, da sempre un aspetto del liberalismo ha enfatizzato l’importanza che gli Stati abbiano un potere limitato sul libero sviluppo delle forze economiche e sociali. Sia la società civile che l’economia di mercato riconoscono certe regole ma ci sono aree di libera attività individuale, senza costrizioni; in questo senso, anzi, l’ultimo decennio ha portato con sé sviluppi alquanto positivi. Non mi annovero dunque tra coloro che credono che alcuni eccessi del capitalismo di mercato siano un buon argomento contro i principi del liberalismo. Al massimo sono un buon argomento per riconsiderare le regole.
Ordine liberale, da un lato, e forte società civile con forte economia di mercato, dall’altro, restano per me gli obiettivi del liberalismo. Non vedo in questo nessuna particolare crisi. Ci può essere, anzi chiaramente c’è, una crisi dei partiti che si chiamano liberali, e in questo senso una crisi del liberalismo politico. Ma ciò non mi preoccupa molto, perché penso che dobbiamo essere molto più interessati alle sorti della libertà che a quelle dei partiti liberali.

2. Globalizzazione

D. Tentiamo ora di analizzare più nel profondo le cause di quella che abbiamo chiamato la crisi della democrazia.
La prima – lei vi ha già accennato – è la difficoltà di farla funzionare in un mondo sempre più globalizzato, nel quale cioè molte decisioni vengono prese a un livello che trascende i meccanismi di decisione democratici tradizionali. Eric Hobsbawm ha scritto di recente che, per esistere, la democrazia ha bisogno di «una unità politica all’interno della quale essa possa essere esercitata, di norma il tipo di Stato generalmente noto come Stato-Nazione». Lei concorda con questa analisi?
R. La condivido. Rileggiamo i grandi autori del passato. Quando la Costituzione americana venne tracciata, fu James Madison a dedicare un’ampia riflessione al tema della unità politica cui la democrazia era applicabile. Egli pensava che unità troppo piccole portavano a una politica di frazioni ed emotiva. Lo spazio appropriato per la democrazia dovrebbe consentire ai rappresentanti del popolo di conoscere bene gli interessi del proprio elettorato e, allo stesso tempo, di essere in grado di confrontarli con gli altri in un luogo centrale, dove riunirsi regolarmente. Era troppo vasto lo spazio rappresentato dagli Stati Uniti, composti allora da tredici Stati? La sua risposta fu no: non solo perché previde che le comunicazioni sarebbero rapidamente diventate più facili e veloci, ma anche perché ritenne che quello spazio fosse reso appropriato dall’esistenza di legami affettivi che tenevano insieme i popoli delle ex colonie.
Sulla stessa questione, alcuni decenni più tardi, John Stuart Mill approfondì la riflessione aggiungendo all’elemento della dimensione spaziale quello della coesione culturale, che egli chiamò «nazionalità». Non intendeva «nazione» nel ristretto senso etnico, ma si riferiva piuttosto a una sorta di intesa non scritta, su determinati valori e all’interno di uno spazio altrettanto determinato, che tiene insieme un popolo.
Termine complicato e ambiguo, quello di Stato-Nazione, certo; soprattutto oggi. Ma io penso che questi grandi autori avessero ottime ragioni: l’ordine liberale funziona meglio quando lo spazio cui si applica non è né troppo piccolo né troppo grande e quando in esso esiste una comunanza culturale. «Una porzione di umanità – Mill scriveva – può essere definita una ‘nazionalità’ quando è unita da un comune sentire che non esiste nel rapporto tra di essa e un’altra comunità, che fa cooperare chi ne fa parte più volontariamente di quanto farebbe con altri, e fa desiderare di essere sotto lo stesso governo.» Quanto stretta questa comunità debba essere è certamente opinabile. Mill per esempio pensava che una lingua comune fosse importante. Forse gli svizzeri potrebbero obiettare con qualche ragione a questa tesi. L’America stessa è oggi un paese più vasto di due secoli fa, in cui una lingua diversa dall’inglese, lo spagnolo, gioca una parte molto importante nella vita pubblica. Ma è certo che una dimensione intermedia e determinati elementi di cultura comune – ciò che Mill chiamava «united public opinion» – sembrano fornire il migliore ambiente per la democrazia, almeno per la democrazia come noi l’abbiamo definita.
D. Invece noi stiamo assistendo a un indebolimento degli Stati-Nazione, a uno spostamento di poteri verso organizzazioni e corporazioni multinazionali. Un numero sempre maggiore di decisioni rilevanti vengono assunte in forum non democratici come le Nazioni Unite, la Commissione europea, la Banca mondiale, il G7, la Nato, sia per quanto riguarda l’economia sia per quan...

Indice dei contenuti

  1. 1. Democrazia
  2. 2. Globalizzazione
  3. 3. Glocalizzazione
  4. 4. Europa
  5. 5. America
  6. 6. Demos
  7. 7. Intermediari
  8. 8. Anti-politica
  9. 9. Etica
  10. 10. La nuova democrazia