Partiti e culture politiche nell'Italia unita
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Partiti e culture politiche nell'Italia unita

  1. 400 pagine
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Partiti e culture politiche nell'Italia unita

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Filo conduttore di questo libro è la difficile storia della politica italiana, dagli esordi dello Stato unitario fino alla crisi della repubblica dei partiti: l'originaria debolezza delle istituzioni, cui si cerca di porre rimedio con un sistema politico tutto ruotante attorno al centro; la difficile convivenza di culture e sub-culture politiche diverse, ciascuna con le sue pratiche e con i suoi miti fondanti, a volte in conflitto tra loro e con le istituzioni stesse; il ruolo dei partiti, protagonisti spesso contestati della stagione repubblicana; il rapporto sempre problematico fra Stato e società civile, fra governanti e governati.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117170
Argomento
History

I socialisti e il mito dell’Urss

1. La storia del movimento socialista italiano ed europeo nell’età della Seconda Internazionale (o quanto meno quella della sua componente marxista) è tutta percorsa da una contraddizione evidente, anche se non avvertita come tale dalla maggioranza dei militanti. Da un lato il socialismo si vede – e si autorappresenta – come l’interprete di una necessità storica, di una tendenza inarrestabile del processo di sviluppo economico e sociale (una tendenza destinata comunque ad affermarsi a prescindere dalla volontà dei singoli). Dall’altro, almeno nelle sue componenti maggioritarie, non riesce a immaginare e a descrivere la sua futura affermazione in termini diversi nella sostanza da quelli che gli derivano da una tradizione rivoluzionaria e insurrezionista nata con la rivoluzione francese e consolidatasi lungo tutto il corso del XIX secolo, fino all’epopea della Comune: dunque il popolo in piazza, lo scontro con l’apparato repressivo dello Stato, la presa di possesso dei luoghi simbolici del potere borghese, con l’inevitabile appendice della «temporanea» dittatura di marca giacobina, rielaborata attraverso la formula marxiano-blanquista della dittatura del proletariato.
Certo non manca, nel socialismo di ispirazione marxista, un filone di continua polemica contro il volontarismo barricadiero e contro lo stesso modello di potere giacobino. Ma questa polemica solo in qualche caso (si pensi a Turati) si traduce in una completa ed esplicita ripulsa. Tant’è che il tentativo più serio e teoricamente motivato di espellere ogni catastrofismo rivoluzionario dagli orizzonti socialisti – quello operato da Bernstein alla fine dell’Ottocento – viene respinto ufficialmente da un movimento operaio europeo che pure appare, nel suo complesso, già abbastanza lontano da qualsiasi concreta ipotesi insurrezionale. Il fatto è che, al di là di ogni questione teorica, è la formazione dei primi dirigenti socialisti – e degli stessi militanti di base – a rendere inevitabile il collegamento con le esperienze rivoluzionarie del passato, a suggerire un rapporto di continuità – e in qualche misura di analogia – con la tradizione del 1789 e del 1793, del 1848 e del 1871, a far sì che la futura rivoluzione proletaria si presenti come la prosecuzione e il completamento del ciclo delle grandi rivoluzioni iniziato alla fine del Settecento. A testimoniare questo rapporto di continuità basta del resto uno sguardo all’iconografia del movimento operaio, così piena di riferimenti, anche testuali, ai simboli più tipici della tradizione rivoluzionaria sette-ottocentesca (le picche e i berretti frigi, gli stessi simboli massonici), così strettamente legata all’imagerie di matrice repubblicano-giacobina99.
Questo discorso vale soprattutto per i socialismi «latini». Ma si applica benissimo anche al complesso del movimento operaio europeo, con la cospicua eccezione del laburismo britannico. In realtà, la contraddizione di fondo fra la concezione del socialismo come portato inevitabile dell’evoluzione storica e l’idea della rivoluzione come scontro fisico, come guerra guerreggiata era già presente in Marx. Ed era stato Friedrich Engels, nella celebre prefazione, scritta nel 1891, alla Guerra civile in Francia di Marx a inventare – e a lasciare in eredità al movimento operaio tedesco ed europeo – la formula capace di conciliare il socialismo scientifico col mito della barricata: lo scontro ci sarà, ma sarà provocato dalla borghesia, nell’estremo, e vano, tentativo di salvare le proprie posizioni. Su questa formula, il grosso del movimento operaio si assesta abbastanza tranquillamente senza troppo interrogarsi sulla contraddizione, che comunque sussiste, fra il carattere storicamente necessitato della grande trasformazione sociale che porterà all’avvento della società senza classi e l’aleatorietà sempre insita in una battaglia. E questo significa che il mito della rivoluzione, tradizionalmente intesa, resta ben vivo nella coscienza collettiva del movimento operaio; che, ancora alla vigilia della prima guerra mondiale, i militanti socialisti (e molti fra gli stessi dirigenti) vedono nel loro orizzonte prossimo la presa di una Bastiglia o l’occupazione di un Hôtel de Ville; che dunque ogni episodio insurrezionale contro i poteri tradizionali – e contro qualsiasi governo borghese – potrà contare in partenza su una larga base di simpatia e su una sorta di pregiudizio favorevole, a prescindere dai suoi contenuti reali; che, infine, questo pregiudizio favorevole si eserciterà sempre e comunque, quasi per automatismo, nei confronti delle componenti radicali e «giacobine», depositarie per definizione del vero ideale rivoluzionario.
È in questo quadro generale – oltre che nel contesto specifico dell’Italia del 1917 – che vanno considerate le prime reazioni del movimento socialista italiano nei confronti della rivoluzione russa.
2. Di mito dell’Urss si potrebbe parlare, a stretto rigor di termini, solo per il periodo successivo al 1923 (anno della costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche). Ma il mito della rivoluzione russa – che, pur non identificandosi col mito dell’Urss, ne è comunque parte fondante e componente essenziale100 – prende corpo immediatamente e spontaneamente nel movimento socialista italiano, fin dall’arrivo delle prime e confuse notizie sulla rivoluzione di febbraio. E subito rivela – prima ancora che la rivoluzione definisca i suoi peraltro mutevoli connotati – quei tratti di elementarità e di radicalità (e quella sostanza appunto mitica) che lo caratterizzeranno anche in seguito.
Del resto, l’evento «rivoluzione russa» sembra fatto apposta per suscitare consensi unanimi e speranze diffuse nella base socialista: sia perché si collega idealmente all’unico evento rivoluzionario di rilievo verificatosi in Europa fra la Comune e la Grande Guerra (quello del 1905, che aveva suscitato in Italia una notevole mobilitazione101); sia perché permette di coniugare il tema classico dell’abbattimento della tirannide (e la monarchia zarista era per l’opinione pubblica di sinistra il prototipo del regime tirannico) a quello più attuale della lotta per la pace.
Nelle prime prese di posizione ufficiali del partito e della Cgl, nei discorsi e negli articoli dei dirigenti, negli innumerevoli ordini del giorno e indirizzi di solidarietà approvati a livello di sezioni, circoli e amministrazioni locali, il collegamento fra istanza rivoluzionaria e istanza pacifista è immediato, quasi automatico. E altrettanto forte è la convinzione che il sommovimento politico iniziato in Russia dovrà trovare il suo logico sbocco in una non meno radicale trasformazione dei rapporti sociali: «La rivoluzione è in cammino – si legge in un numero unico stampato nell’aprile ’17 a cura di un circolo operaio torinese e affisso sui muri a mo’ di manifesto –, lungi dall’essere finita, è appena cominciata, [...] va divenendo sociale»102. Non dissimile nella sostanza è la morale che si può trarre dai commenti che appaiono sull’«Avanti!» a partire da marzo, con cadenza quasi quotidiana, per la penna dell’esule russo Vasilij Suchomlin, che si firma con lo pseudonimo di Junior: la lotta è solo all’inizio e il pericolo maggiore è rappresentato dai tentativi della borghesia di deviare il naturale corso della rivoluzione in senso moderato e imperialista103.
In realtà, anche in questa prima fase, non mancano, in campo socialista, le differenze di tono e i distinguo di sostanza104. E non è difficile notare una sottile discrepanza fra l’atteggiamento prudente, ai limiti della diffidenza, dei leader massimalisti (in particolare di Serrati105, attento a non confondersi con gli interventisti di sinistra e pronto a denunciare i pericoli di «tradimento» della rivoluzione) e l’entusiasmo ingenuo e indiscriminato dei quadri intermedi e della base, quale traspare da ordini del giorno e volantini, e anche dagli slogan e dalle parole d’ordine che sempre più di frequente compaiono negli episodi di protesta popolare106. Ma la scelta di fondo del movimento socialista nel suo complesso – o quanto meno delle sue componenti maggioritarie – è ugualmente netta ed esplicita, tanto da condizionare fortemente anche le successive prese di posizione del partito di fronte ai nuovi sviluppi del processo rivoluzionario. Legando le sorti della rivoluzione a quelle della lotta per il mutamento sociale e per la pace (un legame, quest’ultimo, che nella realtà è tutt’altro che scontato), i socialisti italiani hanno già operato quell’identificazione fra la rivoluzione e la sua componente più radicale che peraltro era in qualche misura implicita nella loro cultura e nella loro memoria storica. E, se fino al giugno del ’17 (e oltre) l’ala radicale del fronte rivoluzionario può anche allargarsi, nel giudizio dei leader del Psi, fino a comprendere menscevichi e social-rivoluzionari (o almeno una parte di essi)107, a partire dall’estate essa viene sempre più strettamente, e quasi fatalmente, identificandosi coi bolscevichi e con la figura, subito mitica, del loro leader.
La crescente popolarità di Lenin presso la base socialista è ben testimoniata dall’episodio, notissimo, della visita dei delegati del soviet di Pietrogrado. Giunti in Italia in agosto, nel corso di un più vasto tour europeo, per perorare la causa della nuova Russia (e della sua guerra «democratica»), gli «argonauti della pace» sono accolti ovunque con grande entusiasmo; ma, in tutte le tappe del loro viaggio – che tocca molte fra le maggiori città del Centro-Nord – sentono risuonare, fra un’acclamazione e l’altra, il grido di «Viva Lenin!», abbastanza imbarazzante per le loro orecchie di rappresentanti del governo provvisorio. Anche a non voler dare completo credito alle testimonianze dei leader massimalisti italiani sulla totale spontaneità di tali manifestazioni108, non si può non riconoscere nell’episodio il segno di una già diffusa tendenza a identificare nel leader dei «massimalisti» russi il capo e il simbolo più rappresentativo della rivoluzione in marcia.
Da dove veniva questa popolarità? Non certo da una diretta conoscenza del pensiero teorico di Lenin, né da quel poco di notorietà assicurata al capo dei bolscevichi dai suoi trascorsi «zimmerwaldiani» (che Lenin condivideva peraltro con altri leader russi ora schierati su posizioni molto lontane dalle sue); e nemmeno dalle indicazioni della stampa e della dirigenza socialista (all’interno della quale l’opzione filoleninista era, all’inizio di agosto, tutt’altro che ben delineata109). Sembra più probabile che, in base alle poche e confuse notizie che arrivavano dalla Russia (e che la censura lasciava filtrare sulla stampa), la base e i quadri del Psi ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima. L’Italia liberale
  3. Trasformismo e antipolitica nell’Italia liberale
  4. I liberali nell’età giolittiana
  5. Giolitti e Sonnino
  6. Le elezioni politiche del 1913 a Roma: scossa di assestamento o crisi di sistema?
  7. Parte seconda. Socialismo, socialisti
  8. I socialisti e l’Estrema sinistra nella svolta del secolo
  9. Michels e il socialismo italiano
  10. I socialisti e il mito dell’Urss
  11. Nenni e l’anomalia socialista
  12. Il Psi e la solidarietà nazionale
  13. Craxi e il ritorno al governo
  14. Parte terza. La Grande Guerra e i suoi miti
  15. Le generazioni della guerra
  16. La Grande Guerra e i miti del Risorgimento
  17. La Grande Guerra come fattore di divisione
  18. Il movimento dei combattenti
  19. Parte quarta. La crisi della democrazia liberale
  20. La democrazia liberale e i suoi nemici
  21. La crisi dello Stato liberale in Italia: una lettura politica
  22. Il terremoto del 1919: la riforma elettorale e la crisi del primo dopoguerra
  23. Il suicidio della classe dirigente liberale. La legge Acerbo, 1923-1924
  24. «Fascismo è liberalismo»: i liberali italiani dopo la marcia su Roma
  25. Parte quinta. La repubblica dei partiti
  26. Il sistema dei partiti
  27. Partiti e rappresentanza
  28. Il centro-sinistra e la crisi degli anni Settanta
  29. Le nuove contrapposizioni, ovvero il bipolarismo polarizzato
  30. Parte sesta. Sull’Italia unita
  31. Stato e classe dirigente
  32. Governanti e governati
  33. Le crisi
  34. Fonti