Un certo sguardo
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Un certo sguardo

Introduzione all'etnografia sociale

  1. 326 pagine
  2. Italian
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Un certo sguardo

Introduzione all'etnografia sociale

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Invece di ridursi a una metodologia chiusa e rigidamente definita, l'etnografia sociale si configura come uno stile di analisi: la descrizione di un particolare mondo sociale in base a una prospettiva non scontata. Questo volume costituisce un invito all'etnografia e offre al lettore una riflessione sulle tradizioni di ricerca e un'ampia rassegna di indagini sul campo in cui le diverse tecniche di analisi sono mostrate 'dal vivo'.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117927
Categoria
Sociology

Introduzione

di Alessandro Dal Lago e Rocco De Biasi

1. L’emergere dell’etnografia

Tra i diversi metodi o stili sociologici, l’etnografia è stata considerata a lungo come una sorta di hobby, capace forse di produrre dei saggi o libri divertenti, ma scarsamente compatibile con una concezione scientifica della ricerca sociale (Hammersley 1998). Diversi fattori hanno contribuito a produrre questo pregiudizio che, soprattutto nella provincia sociologica italiana, si è espresso in veri e propri anatemi: in primo luogo, la difficoltà di codificare esattamente gli oggetti, le tecniche, i percorsi e i risultati di una ricerca estremamente varia e affidata, anche nei casi illustri (Howard S. Becker, Erving Goffman, Harold Garfinkel), più al talento irripetibile dei singoli che non a una metodologia radicata e condivisa (Schwartz, Jacobs 1987); in secondo luogo, la presunta penetrazione di umori antropologici e filosofici in una disciplina come la sociologia, da sempre irritabile, cioè esageratamente attenta (forse per la sua intrinseca debolezza) a presidiare il proprio ambito. Fino ai primi anni Novanta, l’etnografia veniva perciò confusa con gli stili sociologici loose, letterari, metaforici, qualitativi – accettati a denti stretti nel sacro recinto della manualistica sociologica perché collegabili ad autori o tradizioni canoniche (Weber, Simmel, Schutz, la Scuola di Chicago), ma considerati sostanzialmente eterodossi. A dire il vero, il sospetto verso l’irruzione di uno stile al tempo stesso descrittivo e denso di umori letterari era ed è presente anche in altre discipline limitrofe alla sociologia. Come un famoso epistemologo e psicologo sociale disse una decina d’anni fa, a proposito dei metodi interpretativi, a uno dei curatori di questo libro: «Vede, caro amico, tra noi psicologi, un assistant professor di solito è un empirista e usa metodi quantitativi; un associato può adottare un metodo costruttivista; ma se si vuole interessare di testualismo è meglio che divenga ordinario».
Si tratta solo di una battuta, che tuttavia contiene un briciolo di saggezza (non solo accademica). Ogni scienza progredisce se elabora tecniche e metodologie che, in ultima analisi, discendono da una concezione positivistica della «correttezza» della ricerca. D’altra parte, solo la padronanza di tali tecniche consente eventualmente di criticarle o di innovarle. Ma un briciolo di saggezza può anche nascondere il resto della verità. Nessun sapere (soprattutto nel campo della ricerca sociale o culturale) progredirebbe senza il continuo sforzo di mutare i paradigmi e l’insoddisfazione verso le gabbie epistemologiche e metodologiche date. In fondo, il fascino delle scienze umane consiste proprio nella loro incessante trasformazione. La mera aderenza ai canoni della ricerca sociale – o a quelli che venivano considerati tali fino a poco tempo fa – ha prodotto ottimi lavori, ma più spesso una sterminata massa di letteratura grigia, banale, ripetitiva, su cui generazioni di giovani ricercatori hanno speso gli anni della propria formazione iniziale. In questo senso, la ricerca etnografica, anche quando era considerata marginale, ha rappresentato per molti sociologi un’alternativa allo spirito burocratico che essi vedevano governare la loro disciplina.
Il sospetto verso l’etnografia è venuto a cadere nel corso degli ultimi decenni grazie a diverse circostanze, e in particolare al diffondersi di ciò che Giddens, più di vent’anni fa, chiamava le «nuove regole del metodo sociologico» (Giddens 1976). Sia nella ricerca sociologica vera e propria, sia in settori limitrofi, come la psicologia sociale, gli studi organizzativi e la ricerca educativa, si è diffuso l’interesse per un complesso di metodologie capaci di far emergere le pratiche effettive degli attori sociali nei loro contesti sociali, professionali e quotidiani (Jessor, Colby, Schweder, a cura di, 1996). L’empirismo un po’ angusto dell’epistemologia tradizionale ha lasciato spazio a una concezione del mondo «là fuori» aperta all’influsso di filosofi ed epistemologi come Wittgenstein, Schutz, Bateson, Foucault. Si può dire soprattutto che il secondo Wittgenstein, con la sua attenzione problematica per le pratiche ordinarie e quotidiane della comunicazione, ha preso il posto dei custodi del realismo (Dal Lago 1989). Un altro fattore decisivo è stato, in anni più recenti, il diffondersi dei metodi interpretativi nella ricerca antropologica, a partire da Geertz (1987 e 1988) e dalla sua scuola (Clifford, Marcus, a cura di, 1997). Tutti questi mutamenti convergono nel privilegio che la descrizione etnografica ottiene sull’analisi semantico-strutturale. Osservare e descrivere il mondo non sono più operazioni propedeutiche o marginali della ricerca sociale ma il cuore di una relazione problematica, aperta e critica con gli «oggetti»: una relazione che incorpora una continua discussione della posizione dell’osservatore, del carattere aleatorio e parziale delle sue osservazioni e soprattutto della crucialità delle pratiche di de-scrizione, cioè di scrittura. Ancora qualche anno fa, dire che la sociologia, soprattutto quella etnografica, è (anche) un «genere di scrittura» (Dal Lago 1995) sembrava una pericolosa eresia, mentre oggi si tratta di una posizione del tutto legittima, anche se ammessa con riluttanza da molti sociologi che Weber avrebbe definito «specialisti senza cuore». Ormai in Italia la ricerca etnografica è «urbanizzata», nel senso che dispone di un certo numero di monografie (Dal Lago 1990; Torti 1997; Colombo 1998; Palidda 2000; Sassatelli 2000; Dal Lago, Quadrelli, in corso di stampa), nonché dei primi manuali (Gobo 2001) e tentativi di sistemazione critica (Marzano 1999 e 2001).
In questo processo si cela qualche rischio, soprattutto di normalizzazione. Come gli sviluppi più recenti della critica antropologica hanno messo in luce, le trasformazioni di un sapere, soprattutto nel campo della società e della cultura, non possono essere processi esclusivamente endogeni. Se oggi l’antropologia è aperta più di ogni altro sapere umanistico all’innovazione, è perché ha preso definitivamente atto del venir meno della sua ragione sociale fondativa – il colonialismo – e ha incorporato, insieme a un’autocritica incessante, i nuovi orizzonti culturali di un mondo postcoloniale e soggetto alle continue crisi della globalizzazione (Rahola, in questo volume). Analogamente, l’etnografia sociale può fiorire, oggi che gode di qualche legittimità, se è capace di riconoscere e di accettare la pluralità delle sue fonti e delle sue prospettive, che corrispondono alla pluralità dei mondi che compongono, in termini sia oggettivi sia soggettivi, ciò che chiamiamo «società postmoderna» o, come oggi si usa dire, «globale». Una società, soprattutto, a cui il vecchio lessico sociologico – imperniato su «valori», «norme», «ruoli», «classi», «strutture» e così via – va sempre più stretto. Studiare questa società comporta, oggi più di ieri, il ricorso a linguaggi e stili creativi e non una rassicurante applicazione della giurisprudenza sociologica. In questo senso, la manualistica etnografica (che è particolarmente abbondante nella letteratura di lingua inglese e inizia a circolare anche tra noi) comporta il rischio di tradurre, con un’inevitabile banalizzazione, intuizioni descrittive spesso brillanti in prescrizioni metodologiche.
Ma che cosa significa allora etnografia sociale? Avendo in mente soprattutto i casi più noti, riusciti o comunque innovatori di lavoro etnografico, una definizione generale che proponiamo è: descrizione di un particolare mondo sociale in base a una prospettiva non scontata. Fare etnografia non significa semplicemente descrivere «realtà» sociali (relazioni, mondi, professioni, istituzioni), ma farlo in base a presupposti che ne illustrino aspetti poco evidenti o comunque non ovvi. Potremmo estendere all’etnografia in generale una massima che ha trovato nell’etnometodologia le sue applicazioni più feconde: trattare ciò che è ovvio come se fosse strano e ciò che appare strano come ovvio. Questo precetto ha importanti ricadute metodologiche. Un etnografo si sforza programmaticamente di non accettare le definizioni di senso comune dei fenomeni sociali. Che la prostituzione, l’assunzione di stupefacenti o il furto di automobili siano socialmente stigmatizzati, ad esempio, è questione che l’etnografia considera come un fenomeno sociale problematico e non come un proprio orientamento di ricerca. D’altro canto, anche le strutture e le procedure più abituali della vita quotidiana sono scontate per gli attori sociali ma non per chi adotta uno sguardo etnografico. In altri termini, l’etnografia ignora deliberatamente le gerarchie morali e cognitive. Ciò le consente di problematizzare proprio la distribuzione della legittimità tra i mondi sociali, portando alla luce le strutture morali e/o politiche da cui discende tale distribuzione (Douglas, a cura di, 1970). Spesso, questo obiettivo viene raggiunto con il massiccio uso di ironia metodologica, con quella pratica che in inglese si chiamerebbe debunking, dal verbo to debunk, che significa «sgonfiare qualcosa», nel senso di trattare le cose serie come se non lo fossero e viceversa. Una pratica che assume, in etnografia, il significato di «rovesciamento delle prospettive». Un esempio suggestivo in questo campo è il concetto di carriera nella sociologia americana. Usato in origine per descrivere traiettorie professionali legittime, venne ampliato da E.C. Hughes (1971) fino a includere gli adattamenti soggettivi dei lavoratori e, infine, esteso a qualsiasi tipo di percorso sociale, in particolare deviante (Lemert 1981). In altri termini, la pratica del debunking permette di trattare il lavoro come un’attività in cui devianza e conformismo sono facce della stessa medaglia. Fu grazie a questo uso creativo di un concetto originariamente circoscritto alla sociologia delle professioni che Lemert (1971) individuò in quello che oggi chiameremmo mobbing una delle radici dell’esclusione sociale.
Dato il presupposto del debunking, le ricerche etnografiche sono spesso caratterizzate da una certa predilezione per ciò che è marginale, imprevedibile, curioso. Gli etnografi hanno studiato le sale da ballo, i lavoratori senza fissa dimora e migranti, le tecniche cognitive e morali dei poliziotti, la trasformazione dei corpi dei malati terminali in cadaveri sociali, la collusione dei pubblici accusatori e dei difensori d’ufficio, la cultura dei bar e così via. Si noti tuttavia che l’etnografia non si contrappone agli altri stili sociologici per la sua brillantezza o stravaganza, ma semmai per la sua aderenza a ciò che studia, per il fatto che si tratta di una metodologia capace di collocare chi la usa, almeno inizialmente, nel mondo sociale analizzato e descritto. A noi sembra che, dopo l’ironia, la caratteristica principale dell’etnografia sia il fatto di sgorgare dall’esperienza del mondo sociale. In linea di principio, non si dovrebbe essere etnografi da tavolino, anche se l’esperienza può essere ottenuta mediante l’uso di testimonianze e documenti indiretti. Ciò che ha sempre affascinato nelle diverse etnografie è che in qualche modo rappresentavano delle forme di immersione nel mondo sociale: gli autori della Scuola di Chicago giravano per ghetti, bordelli e accampamenti di vagabondi; Goffman lavorò in un ospedale psichiatrico e in una casa da gioco; H.S. Becker ha scritto i libri migliori a partire dalla sua esperienza di pianista jazz (Becker 1984 e 1987); più recentemente e più modestamente, anche gli autori italiani che negli ultimi anni si sono impegnati nella ricerca etnografica hanno frequentato stadi di calcio, commissariati di polizia, udienze nei tribunali penali, adunanze di movimenti regionalisti e così via. Sottolineare il carattere esperienziale del lavoro etnografico non significa naturalmente contrapporlo alla ricerca sociale «fredda», quella che si basa sull’analisi secondaria di dati (comunque raccolti), ma riconoscere che la prossimità apre delle diverse prospettive di verità.
Supponiamo, per esempio, di interessarci alle dinamiche sociali degli scontri di piazza. Se un sociologo orientato tradizionalmente (anche se interessato ai dati qualitativi e non solo a quelli quantitativi) lavorerà su statistiche di fermati e arrestati, sulle tecniche della poliz...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Nota dei curatori
  3. Parte prima. Saperi
  4. Etnografia sociale e storia
  5. Pratiche etnografiche e sapere antropologico
  6. Parte seconda. Mondi
  7. L’etnografia del laboratorio scientifico
  8. L’etnografia del pubblico dei media
  9. Il tifo calcistico
  10. Vita quotidiana di Cosa Nostra: «normalità» della devianza?
  11. Parte terza. Professioni
  12. Etnografia di una professione criminale
  13. Il sapere dei magistrati: un approccio etnografico allo studio delle pratiche giudiziarie
  14. Come si studia il lavoro della polizia
  15. La vita professionale degli insegnanti nelle loro parole
  16. Gli autori