Ipermondo
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Dieci chiavi per capire il presente

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Dieci chiavi per capire il presente

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Una vita accelerata, una merce in vetrina, in un'ipermetropoli dove sono le marche a plasmare l'identità e il consumo è diventato quasi paradossale. Come fare a trovare una rotta se il mondo nel quale viviamo promette a tutti felicità e benessere, ma in realtà dispensa soprattutto ansia e insoddisfazione? Se si presenta continuamente sotto l'aspetto di un mondo magico dove le persone possono esaudire qualsiasi desiderio, ma alla fine non produce che frustrazioni?

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858104583

1. Ipermodernità

Simone è una docente universitaria inglese che, come molti accademici di oggi, ha la necessità di viaggiare spesso per il suo lavoro[1]. Prende l’aereo per partecipare a convegni, ma ha sempre con sé il suo telefonino e il suo computer portatile e con questi telefona o manda e-mail a parenti, amici e colleghi. In questo modo riesce a sentirsi vicina, ad esempio, al marito e al figlio di 6 anni. Gli strumenti di comunicazione le sono indispensabili per mantenere vivi i contatti sociali e questo sta diventando la norma in una condizione di continui spostamenti come quella contemporanea. La nostra esistenza infatti, come quella di Simone, è sempre più basata sulla mobilità. È stato calcolato che negli Stati Uniti nell’anno 1800 le persone ogni giorno percorrevano mediamente 50 metri, mentre oggi si spostano di circa 50 chilometri[2]. In Italia invece una ricerca del Censis ha mostrato come i pendolari, cioè le persone che si muovono quotidianamente, siano più di 13 milioni e a partire dal 2001 siano aumentati di circa 3,5 milioni[3].
Insomma, ciò a cui oggi assistiamo è un intensificarsi di quelle caratteristiche che contraddistinguono da sempre la cultura occidentale moderna. Tale cultura, che ha preso avvio a partire dal Quattrocento, è caratterizzata infatti da due aspetti cruciali[4]: l’idealizzazione del nuovo, del progresso sociale e del futuro; la possibilità per l’individuo di svincolarsi dai legami sociali tradizionali e di sentirsi libero di esprimere la sua autonoma capacità di scelta. E ciò ha comportato la nascita di una condizione di vita necessariamente imperniata sullo spostamento e l’instabilità. Una condizione naturalmente resa possibile anche dalla progressiva adozione di tecnologie di trasporto e di comunicazione sempre più efficaci.
Dunque, anche se i sociologi, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, negli ultimi decenni hanno preferito definire le società contemporanee facendo ricorso all’aggettivo «postmoderno», abbiamo sempre più a che fare con società che sono chiaramente ancora moderne. Infatti, più che porre l’accento sul «post», cioè sull’arrivo di un processo di totale cambiamento rispetto all’epoca della modernità, è necessario ritenere che quest’ultima sia entrata in una nuova fase della sua evoluzione. La fase che stiamo attraversando cioè non porta a una situazione «post», a una realtà totalmente diversa da quella che era propria della modernità, ma in essa la stessa modernità viene portata all’eccesso, in quanto è soggetta a un processo di accelerazione e intensificazione dei principali fenomeni che l’hanno da sempre contrassegnata, e diventa pertanto «ipermodernità»[5]. D’altronde, negli ultimi anni un numero sempre maggiore di autori condivide questa interpretazione.

Lo sviluppo della modernità e del capitalismo

Per cominciare, è utile innanzitutto chiedersi come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto. Pertanto, considereremo brevemente le principali tappe che sono state attraversate dalle società occidentali nel corso degli ultimi secoli, allo scopo di individuare i cambiamenti avvenuti nell’ambito dei processi di produzione dell’economia. Questi infatti svolgono un ruolo determinante, sebbene non si tratti di un ruolo esaustivo perché complementare a quello ricoperto da altri fattori di cambiamento. Se possiamo dunque parlare della fase attuale come di una fase ipermoderna è perché essa rappresenta l’ultima tappa di un lungo processo evolutivo che ha riguardato la storia della modernità a partire dal Quattrocento e che è stato caratterizzato soprattutto dalla formazione e dallo sviluppo del modello capitalistico di produzione. Un modello che si è principalmente manifestato attraverso l’accumulazione del capitale, ma anche attraverso la progressiva diffusione di quest’ultimo nella realtà sociale. Il capitale infatti, come è stato efficacemente spiegato sia da Karl Marx che da Georg Simmel, possiede una natura quantitativa e impersonale che gli attribuisce la capacità di assumere qualsiasi forma e di propagarsi nel mondo qualitativo del valore d’uso e dei bisogni degli esseri umani. Ha la capacità di smaterializzarsi, farsi astratto e penetrare in profondità nella cultura individuale e sociale; con la conseguenza che anche quest’ultima assume, a sua volta, un carattere astratto.
A prima vista, sembrerebbe che siano state le tecnologie digitali e biologiche comparse negli ultimi decenni a rendere sempre più astratta la società, «spingendo verso il superamento del dualismo corpo/anima, materiale/spirituale»[6]. Tali tecnologie però non hanno fatto altro che accelerare un processo di «spiritualizzazione» della materia che è in corso da diversi secoli, cioè da quando è nato il modello capitalistico di produzione. Innanzitutto, perché il processo di astrazione riguarda il capitale stesso. Questo infatti si concretizza da sempre nella ricchezza economica, la quale però è cambiata, in quanto è diventata sempre più mobile e leggera, assumendo ad esempio le forme del credito, della finanza e della moneta elettronica che circola nelle reti informatiche. Simmel sosteneva che il denaro ha perso progressivamente ogni legame con i processi sociali che l’hanno generato. Ha perso dunque anche il suo valore materiale e specifico per trasformarsi in valore astratto e indistinto. Ciò gli ha consentito però di funzionare sempre meglio come unità di misura di tutte le cose, che livella le differenze qualitative e quantifica tutto per poterlo rendere facilmente scambiabile sul mercato.
In precedenza, Marx aveva già applicato al lavoro quest’idea dell’esistenza nel capitalismo di un processo di astrazione, ritenendo che il lavoro possieda una particolare capacità di farsi astratto per poter essere misurato e venduto sul mercato al capitalista. Nel percorso di progressiva astrazione del lavoro una tappa fondamentale è quella che si è presentata durante gli anni Settanta, quando nelle economie più avanzate è avvenuto il passaggio dal sistema produttivo «fordista», sviluppato soprattutto da parte di Henry Ford nei primi anni del Novecento e basato sulla catena di montaggio della grande fabbrica e sulla produzione in serie di beni omogenei, al modello «postfordista». In seguito a questa trasformazione, il lavoro si è fatto ancora più astratto, ma, proprio grazie a tale cambiamento, ha potuto svolgere meglio il suo ruolo centrale nel funzionamento del sistema capitalistico.
Nel corso dei secoli, anche la materia fisica ha vissuto un processo di astrazione in conseguenza dell’analogo processo subito dal capitale. I beni hanno progressivamente arricchito la loro capacità di produrre significati, sviluppando le componenti comunicative e immateriali a scapito di quelle puramente materiali. Decisiva a questo proposito è stata l’introduzione nell’Ottocento del concetto di design all’interno del processo industriale. Il design, infatti, è andato sempre più a significare la possibilità di abbellire gli oggetti con decorazioni e forme spesso operanti in maniera indipendente dalla funzione svolta dall’oggetto. Ma sono stati i progressi dell’elettronica a rendere particolarmente evidente il processo di smaterializzazione degli oggetti. Di dimensioni sempre più ridotte e realizzati con nuovi materiali leggeri, questi ultimi sono diventati dei protagonisti discreti dello scenario sociale. In essi, infatti, la componente hard si è progressivamente ridotta e alleggerita, mentre quella relativa al software si è sviluppata, moltiplicando enormemente le sue funzioni.
Nel contempo, anche la disponibilità di nuovi metodi di costruzione e di materiali come l’acciaio e il vetro ha consentito di dare vita a uno stile architettonico sempre più astratto, in grado di esprimere una tensione verso l’immaterialità e la trascendenza. Non è un caso che l’architetto Antonio Sant’Elia si esprimesse in questo modo all’inizio del Novecento nel manifesto dell’architettura futurista: «Abbiamo perduto il senso del monumentale, del passato, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce»[7]. E il grattacielo, ardita invenzione statunitense di fine Ottocento, ha saputo esprimere meglio di qualunque altra architettura creata dagli esseri umani i significati di crescita dell’economia e di energia che si sviluppa verso l’alto e dunque verso l’immaterialità del cielo. Di recente, il vetro viene spesso sostituito dai pixel che fanno parte delle immagini elettroniche pubblicitarie. Si tratta di immagini che «divorano» le strutture architettoniche degli edifici, i quali evidentemente non spariscono, ma riducono in maniera sensibile la loro natura fisica.
Insieme agli oggetti e alle architetture, anche i corpi individuali sono stati interessati da un processo di astrazione. Nel corso del Novecento, ad esempio, l’abito femminile è diventato sempre più ridotto e semplificato, sempre più dinamico e ascendente verso l’alto. Se nei primi anni del secolo le rappresentazioni del corpo femminile erano costituite da figure corpulente che tendevano a rimandare alla pesantezza della ricchezza terriera, nei decenni successivi il corpo è diventato decisamente più sottile e leggero. E progressivamente rimedi dimagranti e diete sono diventati la norma per entrambi i sessi, mentre la cellulite, codificata la prima volta come malattia dal medico Louis Alquier nel 1924, è stata sempre più percepita come un vero e proprio nemico da sconfiggere.
Insomma, appare evidente che nel corso della storia del capitalismo l’intera società ha subito un processo di progressiva astrazione. D’altronde, anche l’industria culturale si è sviluppata passando attraverso la creazione di strumenti in grado di facilitare questo processo. Ad esempio, con la diffusione di massa dei libri stampati e dei quotidiani, le persone hanno imparato a separare il produttore della conoscenza dalla conoscenza stessa, che è diventata un soggetto sempre più autonomo nella società. Oppure con la nascita della fotografia a metà dell’Ottocento, che ha indotto il medico statunitense Oliver Wendell Holmes[8] a pensare che tale mezzo potesse dar vita a una decisa separazione tra la materia fisica e la sua forma espressiva, in quanto in grado di rendere l’immagine autonoma dalla realtà oggettuale che rappresenta, stabile nel tempo e facilmente trasportabile. A ciò si può aggiungere che la fotografia ha introdotto un processo di produzione meccanica dell’immagine che ha progressivamente indebolito il ruolo autoriale esercitato dall’individuo.
In seguito, il processo di astrazione ha potuto svilupparsi attraverso mezzi come il cinema e la radio. Il primo ha intensificato la forza comunicativa delle immagini fotografiche e grazie a ciò è stato in grado di evocare un mondo di natura spirituale e onirica. La radio ha introdotto invece un flusso di voci dove la realtà si trasforma in un mondo popolato da fantasmi, sebbene capace di possedere una grande capacità espressiva. Il processo di astrazione è poi proseguito con l’arrivo della televisione, in quanto il punto di vista della telecamera ha sostituito quello dell’individuo. Con il mezzo televisivo infatti lo sguardo che inquadra la realtà non è più quello del singolo, ma quello della collettività che impiega tale mezzo. È uno sguardo creato dalle visioni di tanti individui che si fondono in un unico sguardo, che coincide appunto con quello della telecamera. E l’avvento di Internet ha fatto ulteriormente avanzare questo processo, con la creazione di un grande cervello collettivo e globale indipendente dall’operato dei singoli esseri umani.

Una vita accelerata

Lo scrittore di fantascienza Jules Verne ha descritto in un suo romanzo del 1863 la società in cui oggi viviamo come un immenso insieme di flussi circolatori. E si è chiesto che cosa avrebbe potuto dire un nostro antenato
nel vedere quei viali illuminati con un bagliore paragonabile a quello solare, quelle mille vetture circolare senza far rumore sul sordo asfalto delle strade, quei magazzini ricchi come palazzi, da cui la luce si propagava in bianche irradiazioni, quelle vie di comunicazione vaste come piazze, quelle piazze vaste come pianure, quegli immensi alberghi nei quali alloggiavano sontuosamente ventimila viaggiatori, quei viadotti così leggeri, quelle lunghe gallerie eleganti, quei ponti gettati da una via all’altra, e infine quei treni sfavillanti che sembravano solcare l’aria con fantastica rapidità[9].
Evidentemente Verne aveva ragione. La nostra società sta sempre più assomigliando alla sua descrizione. Numerosi antropologi, a cominciare da Claude Lévi-Strauss, hanno mostrato che le diverse forme culturali e societarie succedutesi nella storia hanno basato il loro funzionamento sulla capacità di mantenere attivi nel sociale i flussi di circolazione delle persone e soprattutto delle merci e delle relative forme di pagamento. Il sistema capitalistico ha trovato però in tali flussi la sua principale ragion d’essere, perché ha cercato da sempre di creare un unico grande mercato in grado di consentire la libera circolazione e di migliorare progressivamente la sua resa produttiva accelerando tale circolazione e quindi il lavoro richiesto agli esseri umani, che sono i protagonisti attivi dei flussi economici e circolatori della società. Ma nel corso degli ultimi decenni tali flussi si sono ulteriormente intensificati, anche grazie allo sviluppo di quel «carburante» che è costituito dai messaggi e dai significati che attivano il desiderio dei consumatori nei confronti delle merci e stimolano pertanto la circolazione di queste ultime. L’economia dei flussi immateriali tende dunque ad integrarsi con quella dei flussi materiali, mentre il sistema comunicativo del consumo affianca sempre più il tradizionale sistema materiale ed economico di distribuzione e circolazione delle merci.
Di conseguenza, nelle società ipermoderne la cultura sociale, anche grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie del trasporto e della comunicazione, accelera progressivamente la sua velocità. Gli esseri umani si trovano pertanto a dover vivere in una condizione paradossale nella quale non riescono più a comunicare e hanno la sensazione di essere in un istante onnipresente dove passato, presente e futuro tendono progressivamente a fondersi. E dove non è più possibile elaborare progetti a lungo termine ed è necessario convivere al meglio con ciò che ogni giorno si presenta. È necessario cioè accontentarsi, anche rinunciando alla ricerca della qualità ottimale e accettando quella proposta del «buono quanto basta» che il mondo dei consumi propone sempre più frequentemente[10].
Le modificazioni che riguardano la nostra capacità di orientarci rispetto al tempo e allo spazio sono cruciali per comprendere i processi di cambiamento che sono attualmente in corso nelle società occidentali avanzate. D’altronde, la modernità ha potuto svilupparsi proprio perché ha saputo attribuire uno statuto autonomo al tempo e allo spazio, teorizzati per la prima volta come categorie distinte tra loro e rispetto alle esperienze sperimentabili nell’ambito della vita quotidiana[11]. Ciò è stato possibile soprattutto grazie alla diffusione dei moderni sistemi di trasporto e comunicazione, che hanno consentito di superare la necessità di una interazione caratterizzata dalla presenza nello stesso tempo e nello stesso luogo degli interlocutori e di creare una separazione del tempo e dello spazio rispetto al luogo, categoria centrale nell’epoca premoderna, che indica uno spazio fisico in grado di sviluppare legami sociali e culturali particolarmente forti e duraturi tra gli individui. Si è potuto così standardizzare il tempo e lo spazio, sicché l’organizzazione sociale del tempo è stata fatta corrispondere all’uniformità della misurazione del tempo introdotta dall’arrivo dell’orologio meccanico, mentre lo spazio è stato reso sempre più autonomo.
Oggi al tempo dell’orologio dell’era delle macchine si è aggiunto quello che lo studioso di design John Thackara[12] ha chiamato «tempo reale», cioè un tempo reso possibile da Internet, un tempo istantaneo che impone agli individui di essere sempre attivi e connessi. Allo stesso modo in cui, d’altronde, il mondo del consumo impone in maniera crescente agli individui di essere sempre aperti e disponibili alle innovazioni che quotidianamente propone.
In precedenza, il tempo e lo spazio erano misurati a partire dall’esperienza individuale, e in particolare dall’esperienza personale del rapporto con la natura, ma con l’avvento della modernità la loro percezione è stata sempre più uniformemente condivisa in tutto il sistema sociale, «svuotando» sostanzialmente della loro essenza sia il tempo che lo spazio. Questi sono stati resi entità astratte che riescono a facilitare il funzionamento della società e dei mercati proprio perché non hanno la necessità di intrattenere dei legami con un preciso contesto so...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Ipermodernità
  3. 2. Biocapitalismo
  4. 3. Ipermetropoli
  5. 4. Società pubblicitaria
  6. 5. Iperconsumo
  7. 6. Vetrinizzazione sociale
  8. 7. Iperdivismo
  9. 8. Corpo-packaging
  10. 9. Vetrina digitale
  11. 10. Corpo «trasparente»