Dal Pci al socialismo europeo
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Dal Pci al socialismo europeo

Un'autobiografia politica

  1. 362 pagine
  2. Italian
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Dal Pci al socialismo europeo

Un'autobiografia politica

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«Quando, nel giugno 2005, ho licenziato questo libro, non immaginavo di potervi aggiungere un nuovo capitolo per raccontare ancora un'esperienza, di eccezionale significato e rilievo, a integrazione di quelle che avevo vissuto: l'esperienza della più alta funzione al vertice delle istituzioni repubblicane.»Così prosegue il percorso di un protagonista, in forma di autobiografia. Giorgio Napolitano racconta senza reticenze i passaggi più importanti della vita della sinistra italiana nell'Italia repubblicana, fino alla soglia degli anni '90. Su tutto si stagliano la vicenda intellettuale e politica del nostro Presidente, il suo sincero riformismo, le sue prove di uomo delle istituzioni.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101704
Argomento
Economia

1979-1984. Gli ultimi anni di Berlinguer: «diversità» e isolamento del Pci

Il discorso di Genova: annuncio di una ritirata

Già nel lungo e macchinoso discorso di Berlinguer alla Festa nazionale dell’Unità, il 17 settembre 1978 a Genova, fu possibile cogliere il segno della tendenza al ripiegamento su posizioni più chiuse, attraverso la riaffermazione della tradizionale identità del Pci. Si trattò di un discorso essenzialmente difensivo, dominato dalla preoccupazione che la politica di solidarietà democratica e le sue difficoltà suscitassero smarrimento nel partito, ne oscurassero la fisionomia e la funzione, lo esponessero ad attacchi sempre più insidiosi. Stava ormai prevalendo nel gruppo dirigente del Pci la convinzione che bisognasse porre fine all’esperienza avviata dopo il 20 giugno 1976, uscire dalla maggioranza, tornare all’opposizione.
Berlinguer era diventato un oratore capace di intrattenere anche per ore un pubblico enorme – come quello che affluiva da tutta l’Italia per la conclusione della Festa nazionale dell’Unità – sviluppando una rassegna sistematica di problemi e di posizioni, di certo pesante e difficile a seguirsi. Eric Hobsbawm, presente a Genova tra gli ospiti, trovò stupefacente quel rapporto pedagogico di massa che Berlinguer riusciva a stabilire.
Il nocciolo del discorso, alla vigilia di un autunno difficile, fu storico-ideologico. Non mancò, in termini più concretamente politici, la valorizzazione del contributo determinante del Pci per sventare «una catastrofe economica e finanziaria» e per tener testa al terrorismo, anche attraverso un atteggiamento di fermezza dinanzi all’attacco e al ricatto del rapimento di Aldo Moro; non mancò, nello stesso tempo, l’avvertimento alla Dc che i comunisti sarebbero rimasti nella maggioranza solo «se e in quanto» fosse andata avanti l’attuazione di un programma di rinnovamento della società e dello Stato. Ma lo spazio maggiore fu dato da Berlinguer a una sorta di ricapitolazione dell’intera storia del Pci entro un più vasto quadro mondiale ed europeo. E se egli tornò a sottolineare i tratti originali del percorso e del programma del partito italiano rispetto alla via seguita nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Est, non meno netto, insistente, ripetuto fu il suo richiamo polemico alla pur complessa vicenda storica della socialdemocrazia. L’argomento ideologico, su una linea di anacronistica ortodossia comunista, fu quello che la socialdemocrazia aveva perseguito e conseguito i suoi obbiettivi sulla base del sistema capitalistico, all’interno della logica del capitalismo.
Le conquiste dei partiti e dei governi socialdemocratici venivano così minimizzate. Veniva rivalutata l’esperienza della Rivoluzione d’ottobre e dell’Unione Sovietica, rispetto alla quale si assicurava di non voler mai compiere «un’abiura». Quell’esperienza e l’altra, ossia l’esperienza della socialdemocrazia, non potevano essere messe sullo stesso piano. Il Pci era comunque impegnato su una via diversa sia da quella sovietica sia da quella socialdemocratica. Si delineò dunque, nel discorso di Genova, un ripiegamento sostanziale in rapporto alle più decise prese di posizione precedenti nei confronti dell’Urss e alle stesse formulazioni dell’eurocomunismo, che, come lo stesso Berlinguer ricordò, non aveva inteso contrapporsi all’eurosocialismo.
Quel travaglio, fatto anche di contraddizioni e tortuosità, si venne acuendo a mano a mano che con la crisi di governo seguita al ritiro del Pci dalla maggioranza si avvicinavano le elezioni. Lo sfavorevole risultato elettorale avrebbe fatto il resto, confermando e aggravando le preoccupazioni sulla tenuta e sul futuro del Pci.
Credo di poter dire che Berlinguer sentì drammaticamente la necessità di una ritirata dal terreno di una vasta alleanza politica e di una ardua prova di governo, su cui aveva coraggiosamente condotto il partito. Si considerò probabilmente, nel suo intimo, responsabile del rischio cui aveva esposto il Pci e avvertì l’imperativo assoluto di portarne in salvo, il più possibile, le forze. Lo fece, tuttavia – e lo dico con il massimo rispetto per il suo sofferto sforzo – guardando piuttosto indietro, al patrimonio di risultati e di risorse accumulato nei decenni, anziché avanti, a sponde più sicure, a posizioni più sostenibili e feconde da raggiungere con matura convinzione.
La perdita di 4 punti in percentuale, nella consultazione del giugno 1979, provocò discussioni e inquietudini nel partito. Anche se qualche anno dopo lo stesso Berlinguer avrebbe detto «rischiammo una sconfitta che poteva metterci in ginocchio», lasciando intendere che non fu tale la flessione allora subìta, nell’immediato le reazioni andarono al di là del dato effettivo e presero più che mai per bersaglio l’esperienza della solidarietà democratica. Fu così che io stesso – avendo guidato le scelte più controverse, quelle relative ai problemi economici e sociali – fui sollevato dall’incarico che avevo tenuto nel contestato triennio, anche se la decisione non venne motivata che con generiche ragioni di «avvicendamento». Restai membro della segreteria, Berlinguer mi chiese di assumere la responsabilità della sezione organizzazione, io protestai la mia estraneità a quella tematica e il mio scarso interesse per quella funzione (peraltro molto ambita, sotto il profilo della «gestione del potere» nel partito), infine non potei che accettare. Prima di dire quale contributo cercai di dare da quella nuova postazione, desidero osservare che se la flessione elettorale del ’79 segnalò – pur non portando il Pci al disotto di un sempre cospicuo 30 per cento – il possibile inizio di un vero e proprio declino, fu un grosso abbaglio attribuirne le cause al solo esito della politica di solidarietà democratica. Ben altre erano le ragioni di fondo del temuto declino.

Una correzione di rotta da cui non nasceva una prospettiva politica

Si continuò comunque per qualche tempo a perseguire l’obbiettivo di un governo di larga coalizione con la partecipazione del Pci. «Abbiamo sbagliato» – disse poi Berlinguer – «a puntare sulla possibilità che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi». Ma fino al novembre 1980, la prospettiva non venne abbandonata. Si annunciò bruscamente una nuova strada solo all’indomani della «vicenda tragica del terremoto» in Campania e Lucania. E si motivò la correzione di rotta – nella risoluzione della Direzione del partito del 27 novembre – con le «risposte deludenti e negative del governo di fronte alla catena di scandali, di deviazioni negli apparati dello Stato e di intrighi di potere» che il terremoto aveva messo a nudo. Motivazione in effetti poco convincente o palesemente sproporzionata, riferita com’era al modo in cui era stata affrontata l’emergenza dei primi giorni. Si pensò che la reazione emotiva nel paese fosse talmente forte – anche per gli accenti durissimi con cui se ne fece interprete il Presidente della Repubblica – da poter fare precipitare la situazione politica, perfino con un ricorso alle elezioni anticipate, e che il Pci dovesse perciò senza indugio schierarsi drasticamente dalla parte opposta della Dc e dei partiti di governo.
La formula dell’«alternativa democratica» si caratterizzò così per la richiesta di «un cambiamento radicale nella guida politica del paese». E facendo leva sulla denuncia di «un sistema di potere, di una concezione e di un metodo di governo che hanno generato e generano di continuo inefficienze e confusione nel funzionamento dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi», si fece di colpo balzare in primo piano «la questione morale» come «la questione nazionale più importante». La discussione su quel progetto di risoluzione vide la prima consistente manifestazione di dissenso, nella Direzione del Pci, tra coloro che avevano fino ad allora condiviso le posizioni di Berlinguer. Non fummo in pochi a restare sconcertati per l’estemporaneità dell’annuncio della nuova linea, che ci sembrò piuttosto propagandistica e generica. E se qualcuno (penso a Paolo Bufalini) dissentiva in particolare dalla rottura con ogni ipotesi di collaborazione con la Dc, ci colpì soprattutto l’abbandono più in generale del terreno dell’alleanza con altre forze politiche a favore della rivendicazione, in chiave esclusivistica, di una funzione di guida per il Pci. Nel progetto di risoluzione si parlava del Pci come «perno» del nuovo governo che «la crisi politica» e «l’esigenza di salvezza della Repubblica» ormai richiedevano. Facemmo mutare quel termine così eccessivo e improprio, e il testo definitivo indicò nel Pci «la forza promotrice e di maggiore garanzia» di un tale governo: ma restò l’implicito giudizio liquidatorio su tutti gli altri partiti. Sarebbe in sostanza spettato al Pci chiamare a raccolta «le energie migliori della democrazia italiana, uomini capaci e onesti dei vari partiti e anche al di fuori di essi».
Naturalmente, non si poteva su quella base costruire alcuna prospettiva politica. Si poteva soltanto tentare un recupero di immagine attraverso una drastica separazione di responsabilità dal sistema dei partiti e dall’azione di governo: l’assillo di cancellare le tracce della compromettente partecipazione alla maggioranza di solidarietà democratica si risolveva nel respingere ogni possibile nuova contaminazione e nell’esaltare l’orgoglio comunista. Le proteste antigovernative del dopo-terremoto non condussero alle elezioni anticipate, temute o attese dal Pci. Il governo Forlani continuò per la sua strada fino al maggio del 1981, mentre si addensavano le ombre e le difficoltà per la scoperta della loggia massonica «deviata» P2 e dell’elenco dei suoi iscritti. Il governo Forlani era succeduto al secondo ministero Cossiga, che aveva tra l’altro subìto un duro attacco da Berlinguer per la copertura concessa al figlio del ministro Carlo Donat Cattin, indagato dalla magistratura per terrorismo; ma anche il governo Forlani finì per soccombere dopo meno di un anno di vita. Nel successivo mese di giugno, la crisi venne risolta con la designazione del repubblicano Giovanni Spadolini a presidente del Consiglio e col suo successo nello svolgimento dell’incarico ricevuto da Sandro Pertini.
Questi, eletto capo dello Stato nel 1978, aveva rapidamente acquistato grande popolarità e autorità, e ritenne di potere e dovere interrompere la consuetudine dei presidenti del Consiglio democristiani.
Per la prima volta dal 1946 la guida del governo passava dalla Dc a un altro partito, laico e di centro, aperto a esigenze di rinnovamento morale e istituzionale. Il Pci avrebbe potuto vedere in ciò, e nel «decalogo» enunciato da Spadolini, nell’impegno ad affrontare lo scandalo della P2, un riflesso della sua denuncia, un riconoscimento delle sue ragioni. Ma Berlinguer fu parco negli apprezzamenti, si dichiarò deluso per i criteri seguiti nella formazione del governo, non si discostò dalla linea di contrapposizione globale adottata dalla Direzione del partito nel novembre dell’anno precedente. Quella linea venne, anzi, da lui ulteriormente radicalizzata nell’intervista a Eugenio Scalfari, apparsa sulla «Repubblica» il 28 luglio 1981.

L’intervista a Scalfari del 28 luglio 1981

In quell’intervista Berlinguer non salvò niente e nessuno. Oggetto del suo violento j’accuse furono i partiti, senza alcuna eccezione o distinzione: i partiti che «hanno degenerato», che hanno «occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni», che hanno «lottizzato», «spartito», distribuito vantaggi e commesso favoritismi «in funzione dell’interesse di partito, di corrente o di clan», e lo hanno fatto a tal punto che «gran parte degli italiani è sotto ricatto». Ma poteva forse sostenersi che questo perverso sistema di potere fosse stato costruito solo dopo il 1979, visto che nel ’76-’78 la «questione morale» non era stata posta al centro dell’intesa con la Dc e gli altri partiti della solidarietà democratica, né era stata invocata come motivo per il ritiro dalla maggioranza? «Ce ne siamo andati sbattendo la porta quando abbiamo capito» – argomentò debolmente Berlinguer rispondendo a Scalfari – «che rimanere [...] poteva significare tener bordone alle malefatte altrui».
Di certo, non si poteva sottovalutare la gravità di fenomeni di corruzione e di comportamenti istituzionalmente aberranti che erano sotto gli occhi di tutti; Berlinguer esprimeva a questo proposito una sensibilità e lanciava un allarme, di cui negli anni successivi si sarebbe confermata la fondatezza. Quel che risultava contestabile e rischioso era l’isolare ed estremizzare la «questione morale», il farne motivo di una denuncia dell’intero universo dei partiti di governo e l’asse di un’autoesaltazione del Pci.
Nel rispondere alle domande di Scalfari, Berlinguer affermò che «la causa prima e decisiva dello sfascio morale del paese» stava nella «discriminazione contro il Pci», per effetto della quale il sistema politico era stato «bloccato». Ma si poteva mai sbloccarlo attraverso la rivendicazione di una funzione di guida da parte di quel partito e la delegittimazione di tutte le altre forze politiche?
Quando l’intervista fu pubblicata, ero in Sicilia per lavoro e vacanza, e telefonai a Gerardo Chiaromonte per dirgli la mia reazione e verificare quale fosse stata la sua. Eravamo entrambi sbigottiti; perché in quella clamorosa esternazione di Berlinguer coglievamo un’esasperazione pericolosa come non mai, una sorta di rinuncia a fare politica visto che non riconoscevamo più alcun interlocutore valido e negavamo che gli altri partiti, ridotti a «macchine di potere e di clientela», esprimessero posizioni e programmi con cui potessimo e dovessimo confrontarci. Con Gerardo concordammo sulla necessità di arginare una deriva che minacciava di oscurare acquisizioni fondamentali maturate nel corso della lunga storia del Pci e poste a base del «partito nuovo» nel 1944-1945. Fu in questo spirito che qualche settimana dopo decisi di utilizzare l’occasione dell’anniversario della morte di Togliatti per proporre all’«Unità» un mio articolo, formalmente dedicato alla ricorrenza e sostanzialmente polemico con le recenti affermazioni di Berlinguer.

Il mio intervento sull’«Unità» del 21 agosto

Il richiamo a Togliatti mirava a far riflettere il partito sull’antico errore di «mettere e spingere sullo stesso piano forze che occorre tenere distinte», a riproporre «la ricerca dell’intesa con quei partiti che rappresentano forze sociali interessate al cambiamento», a denunciare il rischio che si tornasse a quella «critica radicale a tutti gli altri partiti italiani», nel segno della quale era nato il Partito comunista in Italia e che lo stesso Togliatti aveva faticosamente superato attraverso l’esperienza della lotta unitaria contro il fascismo. Nel mio articolo era ben presente un preoccupato riferimento all’«aspra competizione» in atto nella sinistra italiana, cui la maggioranza del Psi partecipava con mezzi e con fini non condivisibili: ma si concludeva con la valorizzazione dell’invito rivolto da Togliatti al partito – dinanzi all’avvento del centro-sinistra nei primi anni ’60 – «a saper scendere e muoversi sul terreno riformistico» anziché pretendere di combattere il riformismo con «pure contrapposizioni verbali» o «vuote invettive».
L’eco pubblica di quel mio articolo sull’«Unità», per la trasparente polemica politica che lo caratterizzava, fu notevole, e nella prima riunione della Direzione del Pci dopo la pausa estiva, il 10 settembre del 1981 mi furono rivolte critiche pesanti. Nella relazione introduttiva mi si accusò di aver favorito, con l’espressione di dissensi «cifrati», la campagna avversaria su una contrapposizione nel gruppo dirigente del partito e l’attacco al suo segretario, di avere impoverito e forzato il pensiero di Togliatti, di avere indicato il terreno riformistico quando di riformistico non c’era più nulla nel Psi. Seguì una raffica di interventi sulla stessa linea. Si ritornò più volte sull’argomento dell’assenza di una proposta e cultura riformistica con cui confrontarci, sulla mutazione del Psi e sulla necessità che la politica unitaria non prescindesse dalla denuncia (di quel che il Psi era diventato), sulla centralità della «questione morale», sulla inopportunità del mio articolo, sull’improprietà dell’occasione utilizzata (l’anniversario della morte di Togliatti).
Nella lunga discussione si manifestarono tuttavia sensibili diversità di accenti. Bufalini volle subito esprimersi sul mio articolo – definendolo discutibile ma rigoroso, difendendo anche «il diritto di rievocare» (la lezione di Togliatti) – e si pronunciò sulla stessa intervista di Berlinguer che dal 28 luglio non aveva potuto formare oggetto di commenti nella Direzione del partito. Espresse le sue riserve su una linea di rottura con l’intera Dc e di lotta totale al Psi. Segnalò il rischio dell’isolamento del Pci e di una violenta spinta settaria nel suo seno; mise in guardia contro l’uso del termine «diversità». E nel successivo svolgimento del dibattito ci furono adesioni piene all’intervista di Berlinguer, ma da parte di altri si espressero riserve, sul pericolo dell’isolamento, della «sterilità politica» (come disse Chiaromonte), del ripiegamento settario e propagandistico (secondo Luigi Petroselli, sindaco di Roma); in diversi non aderirono alle critiche «di metodo» al mio articolo.
In conclusione, Berlinguer ribadì le sue posizioni, e mise in primo piano il disegno degli avversari del Pci (di cui era parte l’ipotesi di una «grande riforma» istituzionale) per colpirlo e bloccarlo. Egli polemizzò con l’idea di una «maggiore accondiscendenza» nostra verso la Dc e il Psi, ammise appena che nella sua intervista potessero esserci state formulazioni opinabili, riconobbe che non col mio articolo ma ben prima si era aperta una discussione critica nel partito, ma mi contestò di aver voluto «correggere» quello che av...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Premessa all’edizione 2005
  3. 1942-1953. L’incontro con la politica, le prime esperienze nel Pci
  4. 1953-1962. In Parlamento e nel meridione in un’Italia che cambia
  5. 1963-1968. Involuzione del centro-sinistra, contrasti nel Pci, dissenso dall’Urss sulla Cecoslovacchia
  6. 1968-1975. Dopo il Sessantotto: la politica culturale del Pci
  7. 1976-1979. La prova della «Solidarietà democratica»
  8. 1979-1984. Gli ultimi anni di Berlinguer: «diversità» e isolamento del Pci
  9. 1984-1989. Il lento cammino del Pci in anni di stagnazione istituzionale
  10. 1989-1992. La contrastata nascita del Pds
  11. 1992-1998. Da Montecitorio al Viminale
  12. 1999-2004. L’approdo europeo