Clero cattolico e società europea nell'età moderna
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Clero cattolico e società europea nell'età moderna

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Clero cattolico e società europea nell'età moderna

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I caratteri del clero cattolico, i suoi legami con la società e la cultura europee, gli intrecci tra istituzioni ecclesiastiche e poteri politici, lungo un arco che va dal Concilio di Trento alla Rivoluzione francese.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858100523

I. Gerarchie e aristocrazie ecclesiastiche in una Europa divisa

1. L’Europa dei vescovi

Pur nei loro differenti profili religiosi, gli episcopati nei paesi dell’Europa cattolica ebbero molti elementi in comune che si andarono definendo nel corso dell’età moderna, a partire dal Concilio di Trento, attraverso una trattatistica parenetica sviluppatasi prima e durante il Concilio, la normativa post-tridentina, elaborata dalle congregazioni romane, e i rapporti di concordia discorde tra il potere politico e quello ecclesiastico. Anzitutto le nomine dei vescovi, se erano in molti casi di pertinenza del pontefice romano e in ogni caso da lui confermate, continuarono a essere legate molto spesso a scelte diverse: ancora da parte dei capitoli delle cattedrali, come avveniva nelle diocesi del Sacro Romano Impero e in molte diocesi dei domini ereditari asburgici, o più frequentemente da parte del potere politico, monarchico come in Spagna, Francia e in molti stati principeschi italiani, o repubblicani come Venezia, o sotto la forma della presentazione al pontefice di una terna di candidati o mediante accordi che facessero comunque convergere su un candidato il consenso del potere politico e di quello ecclesiastico.
La scelta non era facile, non solo per questi motivi politici e religiosi, ma anche perché si trattava di coprire sedi ricche e prestigiose, e quindi largamente contese, oppure sedi povere e disagiate e di conseguenza non sempre appetibili anche da parte di candidati modesti. Altro terreno che rendeva difficile la scelta era, all’atto della nomina del nuovo vescovo, la frequente imposizione di pensioni sulle rendite delle diocesi – in specie su quelle di notevole consistenza – a favore del sovrano o del pontefice, che ne disponevano liberamente, destinandole a personaggi in genere della curia romana, il papa; della corte o dell’establishment politico, laico ed ecclesiastico nazionale, il sovrano. Un fenomeno, questo, che raggiungerà aspetti molto vistosi soprattutto nel corso della prima metà del ’600. Che questo «sistema» favorisse la costituzione di un alto clero fedele più al potere politico che all’autorità romana è indubbio, sebbene si possa parlare più in generale di una duplice fedeltà dei vescovi al sovrano e al pontefice; in ogni caso esso facilitò un processo di aristocratizzazione degli episcopati che raggiunse la sua forma più alta, com’è noto, in Francia alla fine dell’antico regime.
Una volta nominati, i vescovi avrebbero dovuto rispettare l’obbligo di residenza nelle loro sedi, come era stato sancito dal Concilio di Trento, per impegnarsi in prima persona nel governo delle diocesi. Un dovere non di ius divinum, come a Trento aveva richiesto una forte minoranza dell’episcopato, ma di diritto ecclesiastico, e quindi soggetto a deroghe ed eccezioni da parte di Roma per molteplici ragioni: per i contrasti degli stessi vescovi con i poteri politici locali o centrali, per la residenza nella capitale dello Stato al fine di curare meglio gli interessi delle diocesi, per il «servizio» da prestare alla Santa Sede, come avverrà nel caso di molti vescovi italiani utilizzati come nunzi pontifici, per l’«insalubrità dell’aria» della sede episcopale, motivo su cui si insisté particolarmente durante il XVII secolo.
I poteri dei vescovi erano stati indubbiamente rafforzati ad opera del Concilio di Trento, ma nella loro concreta estrinsecazione essi incontravano molte difficoltà. Tesero infatti a mantenere la loro autonomia moltissime istituzioni o di origine laicale o di origine mista, laica ed ecclesiastica, come ospedali, Monti di Pietà, confraternite, che contrastarono sempre con energia le visite vescovili, accettandone gli aspetti puramente «spirituali», ma non quelli «temporali», cioè quelli che toccassero la gestione finanziaria e la pratica amministrativa delle istituzioni stesse. Difesero sempre, però, con altrettanta energia, le loro esenzioni dall’autorità vescovile – all’interno della stessa organizzazione ecclesiastica secolare – anche moltissime altre istituzioni, che continuarono a muoversi in un equilibrio instabile, in un continuo braccio di ferro tra le parti: i capitoli delle cattedrali e delle collegiate, impegnati nel tutelare i loro tradizionali privilegi nei confronti della rinnovata autorità episcopale; quelle parrocchie che non fossero di libera collazione, cioè dove la nomina del parroco non spettava al vescovo – caso non infrequente – ma a patroni laici, come comunità o gruppi familiari laicali o a patroni ecclesiastici, come gli ordini religiosi; il complesso dei benefici ecclesiastici senza cura d’anime, cioè tutte quelle fondazioni, cappellanie, legati per messe e anniversari, per le quali la nomina del rettore o del detentore del beneficio, anch’essa sottratta al vescovo, era di pertinenza esclusiva dei patroni del beneficio, in genere laici, e dipendeva, per la conferma, dal controllo della Dataria romana.
Ancora più forti erano i condizionamenti all’autorità e alla giurisdizione vescovile dall’esterno della organizzazione ecclesiastica secolare, da parte della organizzazione regolare, vale a dire da parte degli ordini religiosi e delle congregazioni antiche e nuove, queste ultime nate intorno agli anni tridentini, e da parte di quella particolare istituzione che fu, nell’Europa cattolica della prima età moderna, l’Inquisizione. Da un lato gli ordini religiosi, soprattutto quelli mendicanti, con la loro diretta dipendenza dai superiori generali e da Roma, con le loro autonomie e i loro privilegi, più volte largamente confermati dalla Santa Sede, costituirono forze non di rado conflittuali, come vedremo, nei confronti dell’autorità vescovile. Nel contesto delle più antiche istituzioni monastiche, peraltro, l’esistenza delle abbazie benedettine – e più specificamente il fenomeno delle abbazie concesse in commenda, perché svuotate totalmente o in gran parte della presenza dei monaci, e attribuite dalla curia romana o dai sovrani ad alte personalità curiali o a grandi dignitari laici che ne potevano godere le temporalità e le rendite – rappresentava altri ostacoli e limiti ai poteri vescovili, qualora da esse dipendessero parrocchie o benefici o particolari giurisdizioni ecclesiastiche. D’altro lato l’Inquisizione, sia in Spagna e in Portogallo – dove era nata come Inquisizione statale soprattutto a consolidamento di un’unità politico-religiosa raggiunta dalla Reconquista e per il controllo sui cristianos nuevos (ebrei e moriscos) – sia in Italia – dove, a eccezione delle inquisizioni statali di Sicilia e Sardegna, fu organizzata negli anni tridentini dal papato a difesa dell’ortodossia contro la diffusione della Riforma, in un raccordo stretto tra i tribunali periferici, affidati a domenicani e francescani, e il centro romano (Sant’Uffizio e Congregazione dell’Indice) – aveva sottratto ai vescovi molte dirette responsabilità quali giudici della fede, e poi molte possibilità di intervento diretto sugli scritti ritenuti pericolosi o su comportamenti religiosi e morali considerati devianti.
Nonostante queste condizioni e questi ostacoli, l’impegno pastorale dei vescovi, come indicato dal Concilio di Trento, dove più dove meno fu assai largo, ispirandosi a schemi e modelli diversi, come si è accennato: al modello spagnolo, il cui episcopato si era distinto alle assise tridentine per cultura e impegno religioso; al modello di san Carlo Borromeo, che fu tenuto molto presente per la sua organicità dai vescovi italiani e da quelli francesi; al modello francese, che continuò ad essere caratterizzato dalla tradizione gallicana, innestandovi però sul piano pastorale, oltre il modello borromaico, le forme più duttili e persuasive suggerite da san Francesco di Sales. Attraverso questi modi articolati, che spesso però si ridussero a una semplice routine e all’emanazione di una serie di disposizioni ripetitive giuridico-disciplinari, i vescovi riuscirono in genere ad ampliare la sfera dei loro interventi e a realizzare notevoli «correzioni» e trasformazioni nel tessuto istituzionale-ecclesiastico delle loro diocesi, che si accentueranno nel corso del ’700. Crebbe col tempo il loro controllo sui capitoli delle cattedrali, almeno per le officiature e i servizi liturgici; aumentarono le disposizioni sulle parrocchie e, per quanto possibile, sui benefici senza cura d’anime; soprattutto, pur nell’assenza o nel discontinuo funzionamento dei seminari, fu maggiormente curata la formazione del clero; più assidua divenne l’attenzione dei vescovi sui monasteri femminili e sulle autonomie degli ordini religiosi riguardo soprattutto alla predicazione e alla confessione. Si andò definendo insomma, tra ’600 e ’700, una nuova figura di vescovo, che dalla Francia all’Italia, ai paesi germanici, alle aree dell’Europa orientale, assumerà un ruolo più complesso per la molteplicità dei motivi religiosi, politici e culturali, maturati nella società europea dagli anni tridentini al secolo dei Lumi, nello snodo tra l’età moderna e l’età contemporanea.

2. Le Chiese del re: i vescovi spagnoli e portoghesi

Sebbene non più all’altezza, sotto il profilo religioso e politico, dell’episcopato cinquecentesco, che aveva partecipato oltretutto, spesso con posizioni fortemente riformatrici, al Concilio di Trento, i vescovi spagnoli del ’600 rappresentarono, ancora per tutta la prima metà del secolo, un modello per le gerarchie episcopali dell’intera Europa. Nelle 54 diocesi spagnole (35 in Castiglia e 19 in Aragona) che diverranno 60 nel ’700, i vescovi erano tutti di nomina regia, che il sovrano sceglieva attraverso terne presentate dal Consejo de Estado per la nomina alla importante sede primaziale di Toledo, e dalla Cámara de Castilla per le altre sedi. Dalle diocesi castigliane erano esclusi gli «stranieri», cioè i vescovi non castigliani; questi potevano occupare sedi aragonesi, con non infrequenti reazioni negative da parte del clero locale, in particolare nei primi decenni del ’600, all’epoca delle rivolte contro il potere centrale. I vescovi provenivano in maggioranza dall’alto clero secolare, dai canonici dei capitoli delle cattedrali, ed erano forniti di titoli di studio universitari, in genere di laurea in diritto canonico e civile. Non mancavano però vescovi provenienti dagli ordini regolari, in specie dalle file dei francescani e dei domenicani – come è dato di incontrare spesso anche al governo delle Chiese nei domini coloniali spagnoli del Nuovo Mondo – per lo più addottorati in teologia, che aumentarono sotto il lungo regno di Carlo II. In ogni caso erano richieste ai candidati all’episcopato le prove di limpieza de sangre, cioè la certezza che non fossero discendenti da famiglie di cristianos nuevos, e, pur essendovi nelle scelte del sovrano un’apertura nei confronti dei ceti sociali anche economicamente modesti, i candidati di origine nobiliare, dell’alta aristocrazia o della piccola nobiltà hidalga erano in numero, se non prevalente, senza dubbio considerevole.
Era ovvio che le sedi più ricche ed importanti, come Toledo, Siviglia, Sigüenza, Malaga, Oviedo, Astorga, toccassero a vescovi di alto lignaggio e spesso appartenenti a famiglie legate alla corte: Toledo le cui rendite oscillavano tra i 200 mila e i 300 mila ducati, Siviglia che superava i 100 mila ducati, Santiago, Saragozza e Valencia, con rendite intorno ai 50-30 mila ducati. «Povere» diocesi erano al confronto quelle di Córdoba o di Almería o quelle della Galizia e della Catalogna, dalle quali però la grazia del re consentiva non di rado ai relativi vescovi il passaggio a sedi migliori e più remunerative. Molte rendite episcopali più cospicue, tuttavia, all’atto della nomina di ogni nuovo vescovo, erano ridotte considerevolmente dall’imposizione di pensioni a favore del re, che ne disponeva liberamente, come si è detto, per remunerare ecclesiastici o laici «fedeli», secondo una percentuale di un terzo nel caso delle rendite delle diocesi più ricche e di un quarto nel caso di quelle di media consistenza, con non poche conseguenze negative sulla vita ecclesiastica e religiosa delle diocesi e sulle possibilità di impegno pastorale dei vescovi stessi. Né il sovrano tralasciava di intervenire anche minuziosamente nella vita delle diocesi, quando si trattava di materie cosiddette miste, dai confini incerti tra la giurisdizione laica e quella ecclesiastica, come è confermato dalla presenza di deputati laici nei sinodi diocesani e provinciali. Né l’Inquisizione mancò di interferire in quei settori che riteneva di sua competenza, a danno dell’autorità e della giurisdizione vescovile. Nonostante ciò, l’attività dei vescovi sul piano pastorale fu intensa e il dovere di residenza venne generalmente rispettato, tranne che nelle grandi diocesi di Toledo e di Siviglia, i cui titolari furono spesso destinati ad incarichi politici e diplomatici da parte della monarchia, e nelle piccole diocesi delle Canarie.
Un profilo generale dei vescovi spagnoli del ’600 e del ’700 non è caratterizzato da personalità di spicco, come furono quelle presenti in generale nell’episcopato cinquecentesco, ma da figure decorose, che per lo più ebbero un alto senso dei doveri legati alla loro carica, praticarono modi di vita austeri ed ascetici e si dedicarono dapprima, nel ’600, ad un largo impegno elemosiniero e caritativo nei confronti dei poveri, con la costruzione di ospedali e di ospizi di mendicità, per aprirsi poi, moderatamente, nel ’700 della Ilustración, anche a preoccupazioni civili, culturali e sociali, con la fondazione di biblioteche e di manifatture. Termini unificanti all’interno dell’episcopato spagnolo, tra gli Austrias e i Borbone, possono essere colti, da un lato in un forte senso del potere episcopale, che finirà con l’assumere i toni di un particolare episcopalismo nell’età delle riforme di Carlo III (1759-88), e nell’appoggio dato dai vescovi alle iniziative del governo, in particolare nella battaglia che porterà all’espulsione dalla Spagna e poi alla soppressione della Compagnia di Gesù (1767-73), e dall’altro in un fortissimo senso della tradizione, che alimenterà atteggiamenti sempre più intransigenti nei confronti della «modernità» e delle conseguenze, giudicate nefaste, delle idee illuministiche e di quelle diffuse dalla Rivoluzione francese e dalla invasione napoleonica.
Con caratteri molto affini a quelli dell’episcopato spagnolo si presenta l’episcopato portoghese, per il carattere regio delle nomine vescovili, per l’attività pastorale dei vescovi, per i loro rapporti con l’Inquisizione, sebbene l’episcopato portoghese abbia assunto, nel corso del ’700, aspetti di aristocratizzazione più marcati di quello spagnolo e più vicini a quello francese. La carica patriarcale per la sede di Lisbona, sollecitata e ottenuta da Giovanni V all’inizio del secolo, era monopolio della nobiltà, e nobili di corte e nobili minori (fidalgos) erano i vescovi delle altre non numerose diocesi lusitane, 13 in tutto, comprese Lisbona e le altre due metropolie di Braga e di Évora, ma escluse le diocesi suffraganee dei territori oltremare. L’episcopato, dunque, offriva in Portogallo, insieme agli ordini cavallereschi e alle alte cariche nei monasteri aristocratici, buone sistemazioni ai giovani nobili non disposti o inadatti al servizio nei domini Ultramar. Ne conseguiva che l’integrazione tra le strutture ecclesiastiche e quelle politiche dello Stato fosse almeno a livello vescovile molto più stretta che non in Spagna tanto da consentire, nel corso del ’700, lo sviluppo di un episcopalismo molto più aggressivo che non nel vicino regno iberico, testimoniato da una pubblicistica di risonanza europea, in cui risalta lo scritto di Antonio Pereira de Figueiredo, Tentativa theológica (1766), dalla lunga Rotura tra il Portogallo e Roma (1759-70) e dalla politica condotta dal ministro marchese di Pombal, con energiche spinte antiromane e anticuriali, contro gli ordini religiosi e soprattutto contro i gesuiti. Inevitabilmente queste condizioni ebbero riflessi consistenti sui caratteri del clero secolare e regolare portoghese, connotandoli di aspetti suoi propri, da un lato connessi a vicende e intrecci comuni al contesto europeo, dall’altro alla sua stessa perifericità.

3. Tradizione gallicana e riforma tridentina: i vescovi francesi

Un quadro più mosso si riscontra nel contesto dell’episcopato francese, che prese a definire, soprattutto dai primi decenni del ’600, un altro modello, concorrenziale – per così dire – con quello spagnolo. È solo con la fine delle guerre di religione in Francia, con l’ascesa al trono di Enrico IV, con l’accettazione nel 1615 da parte dell’Assemblea del clero di Francia, ma non da parte della monarchia, delle deliberazioni tridentine, che la Chiesa francese, e con essa l’episcopato, poté finalmente uscire da un cinquantennio di prove difficili e di crisi profonda. In un paese dove attiva era una forte minoranza calvinista, riconosciuta dall’editto di Nantes del 1598, si trattava di ricostruire di fatto la vita religiosa ed ecclesiastica cattolica attraverso la rete delle circa 130 diocesi esistenti (che diverranno 136-139 tra la fine del ’600 e i primi del ’700, in conseguenza delle conquiste territoriali di Luigi XIV), estese su vasti territori al Nord, di piccola o piccolissima estensione al Sud. Anche in Francia la nomina dei vescovi spettava al sovrano che, in virtù del concordato di Bologna stipulato da Francesco I e Leone X nel 1516, poteva scegliere candidati destinati al governo di un centinaio di vescovadi e di oltre 500 abbazie, coadiuvato in questo, nel ’600, da un Consiglio di coscienza, creato da Anna d’Austria e al quale partecipò anche san Vincenzo de Paul (1643-53), e dal «ministre de la feuille des bénéfices», nel ’700. Le scelte dei candidati all’episcopato furono, nel ’600, in genere felici e caddero tra le file del clero secolare: nessun vescovo francese provenne, come nella penisola iberica e in Italia, dagli ordini monastici e mendicanti, ma talora soltanto dalle file di congregazioni di chierici secolari come, nel ’700, gli oratoriani Soanen, vescovo di Senez, Massillon, vescovo di Clermont, e Surian, vescovo di Vence, o di chierici regolari, come il teatino Boyer, vescovo di Mirepoix. Furono preferite, nelle nomine, figure provenienti dai ranghi della nobiltà o dall’alta borghesia, ma sempre più, per ragioni economiche e sociali più che politiche e spirituali, le scelte del sovrano caddero su esponenti aristocratici, la cui presenza aumentò sino a coprire nel ’700 tutte le sedi diocesane francesi, con l’esclusione graduale degli esponenti della nobiltà più recente impegnata nel «servizio del re» e con la sostituzione ad essi di esponenti della più antica nobiltà di razza.
Diversamente che in altri paesi cattolici europei, dove l’episcopato rappresentava in ogni caso una élite ecclesiastica prestigiosa, integrata o collegata con i ceti nobiliari e aristocratici, in Francia il clero, e in esso l’episcopato, rappresentava oltretutto il primo ordine dello Stato, con un suo sistema rappresentativo collettivo, le Assemblee del clero, assente altrove, che convocato dapprima (dal 1561) per contribuire con una somma pattuita alle esigenze finanziarie della monarchia, in quanto il clero in Francia come negli altri paesi cattolici era esente dalla maggior parte delle imposte ordinarie e straordinarie, era divenuto un organismo stabile, chiamato a votare ogni cinque anni, nelle sue riunioni parigine, il cosiddetto dono gratuito, dal 1621 divenuto regolare. Spesso l’Assemblea del clero tese a superare i problemi finanziari ed amministrativi di sua competenza e a sostenere le tesi e gli orientamenti gallicani della monarchia, in quella singolare condizione della Chiesa francese in cui convissero sino alla Rivoluzione la normativa tri...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Gerarchie e aristocrazie ecclesiastiche in una Europa divisa
  3. II. Gli «operai della vigna»
  4. III. Le «milizie di Roma»
  5. Bibliografia