Il cerchio e l'ellisse
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Il cerchio e l'ellisse

I fondamenti dello Stato costituzionale

  1. 120 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cerchio e l'ellisse

I fondamenti dello Stato costituzionale

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L'ordine costituzionale non può avere padroni. È pertanto in pericolo ogni volta che qualcuno pretenda di appropriarsene.Uno dei più autorevoli storici del costituzionalismo indica con chiarezza le basi costituzionali su cui si fonda la nostra democrazia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142271
Argomento
Diritto

I.
Lo Stato moderno
e lo Stato costituzionale

La riflessione che segue apparirà subito al lettore volutamente compressa in schemi definitori assai generali e semplificanti. Ma più ancora, ad essere semplificato non è il nostro stesso discorso – operazione che era comunque da compiere in funzione didattica – ma il problema storico che intendiamo indagare nella sua oggettività, e che così potremmo esprimere: studiare quanto profondamente, e in quale misura, lo Stato costituzionale del Novecento sia appartenuto, e magari ancora appartenga, alla pluriforme realtà dello Stato moderno in Europa1. In questo capitolo riprendiamo precedenti studi2, ma anche lo straordinario saggio di Alberto Predieri La curva e il diritto. La linearità del potere, l’eversione barocca3.
Secondo Predieri, nella linearità insita negli edifici in cui si racchiudevano le funzioni cittadine, a partire dal XIV secolo, o in certi quartieri di alcune città europee, ripartiti al loro interno da serie ripetute e sempre uguali di vie, si esprime un “moderno” che ha particolare bisogno di certezze, e dunque finisce per utilizzare il linguaggio semplificante e semplificato del potere, corredato dalla sua capacità di controllo, dal suo grado d’istituzionalità, molte volte acquisito proprio attraverso la pura reiterazione delle simmetrie, degli spazi uguali, costruiti attraverso una ripetitività quasi ossessiva. Di contro, la curva del barocco rappresenta la fantasia, non impone rigidità assolute, cresce in dimensioni, sia sul lato estetico della decorazione che su quello urbanistico, nello stesso tempo lasciando però aperte le linee di sviluppo, senza eccessivi timori per un futuro sempre più dominato dal dato della complessità.
Su questa via, ci avviciniamo a problemi prossimi all’universo culturale del diritto; infatti, “rigidità”, “istituzionalità” e anche “complessità” sono concetti e parole che hanno a che fare con lo specifico del diritto. Precisiamo subito che cerchiamo di cogliere in questo capitolo il diritto in forma di Costituzione, considerata non come il vertice della tradizionale scala gerarchica delle fonti di diritto, e magari proprio per questo motivo troppo a lungo distante dalla effettività del momento pratico e applicativo del diritto medesimo, ma come – in direzione inversa, si sarebbe tentati di dire – nocciolo originario posto alla base di tutto l’ordinamento, da cui deriva un diritto che tende a svilupparsi su un piano orizzontale, essendo la Costituzione prima di tutto regola di consociazione, che conduce alla condivisione dei valori espressi in Costituzione in forma di principi fondamentali.
Ed è questo il dato che più è peculiare delle Costituzioni democratiche del Novecento4: i principi fondamentali come norme di base contenute in una Costituzione che noi vorremmo chiamare originaria, più che “materiale”, essendo quest’ultimo termine-concetto esposto a significare l’eventualità – che giudichiamo essere assolutamente negativa – di una concreta situazione storica in cui abbiamo una Costituzione “materiale” opposta ad una “formale”; con la conseguenza, entro una tale logica di carattere seccamente oppositivo, di un progressivo inevitabile affievolimento della forza normativa della seconda.
Ma questo non rappresenterebbe altro che la sconfitta della prospettiva costituzionalistica, riducendo la Costituzione medesima a espressione della volontà del dittatore di turno che, nella storia costituzionale, è proprio colui che di fatto impone d’autorità una certa lettura dei principi costituzionali, facendo propri quelli “materiali”, e opponendoli a quelli “formali”, a quel punto, ed entro quella logica, del tutto svalutati, con la finalità ultima di dare mano libera al dittatore medesimo.
Al contrario, nelle Costituzioni democratiche del Novecento l’aspetto “materiale” non viene in alcun modo opposto a quello “formale”, essendo anzi di questo secondo la radice profonda, rappresentabile dunque come un insieme storicamente dato di principi che precedono la vigenza delle norme costituzionali formalmente intese, e che sono portati da soggetti politici e sociali che insieme vogliono la Costituzione. È questo il Wille zur Verfassung, ovvero la volontà di fare la Costituzione convergendo in un centro in cui si formano i principi fondamentali, che saranno tanto più tali quanto più sarà ampia e profonda quella condivisione. Non vi è quindi alcuna opposizione tra Costituzione “formale” e “materiale”, ed alcuna svalutazione della prima da parte della seconda; anzi, quest’ultima sarà poi, dopo l’entrata in vigore della Costituzione in senso formale, e attraverso l’opera dei giudici, decisiva per le sorti positive della Costituzione formalmente emanata, che sarà più o meno rafforzata proprio in quanto più o meno connessa con i principi fondamentali già emersi nella fase originaria.
E dunque la Costituzione con tali principi non è il centro da cui tutto s’irradia, ma il centro verso cui si converge progressivamente, essendo nel Novecento quei principi frutto della storia, più remota o più recente, e non di una “decisione”, intesa come puntuale atto espressione di sovranità. In generale, dunque, la Costituzione mostra a tutti noi che il diritto, per esistere, non necessariamente presuppone una soggettività dotata di sovranità che lo emana, facendolo cadere dall’alto; anzi, il Novecento con le Costituzioni democratiche tende per lo più a demolire questa immagine, per sostituirvi quella della comunanza dei principi fondamentali, che come tale si esprime procedendo in senso orizzontale, più sul piano del procedimento, della graduale crescita di condivisione di quei principi, che su quello della decisione, ed evitando quindi la mitizzazione di quest’ultima.
Perfino nel caso del potere costituente, che in modo particolarmente forte rappresentava in grande il lato soggettivo e potestativo della Costituzione medesima e lo stesso principio democratico, si assiste nel corso del Novecento ad una sua progressiva demitizzazione, essendone ora autori in modo esplicito e ben visibile i partiti e le organizzazioni degli interessi. È come se il potere costituente, spogliato di tutti gli orpelli della retorica rivoluzionaria e della volontà generale, si mostrasse ora nudo, ovvero in modo ormai del tutto trasparente nella sua natura di concreta decisione, che è tale solo in senso strumentale, ovvero funzionale alla mediazione d’interessi altrettanto puntuali e concreti5.
È vero che i partiti – e in particolar modo nel nostro paese – tentarono in un primo momento di porsi, nei primi anni dopo l’emanazione della Costituzione, in una posizione centrale nel processo di attuazione della Costituzione medesima; ma tutto ciò rimase nel quadro della rivalutazione del Parlamento e della democrazia rappresentativa. Si pensava infatti, anche da parte di quel settore della scienza costituzionalistica che più si schierò alla Costituente in favore del principio democratico, che le istituzioni come il Parlamento sarebbero uscite corroborate da questo innesto in esse della forza dei partiti, che così rappresentavano – come continuamente affermava ad esempio un giurista di rilievo come Mortati – uno Stato di “tipo” nuovo, in cui il popolo finalmente contava di più, e la scelta storicamente ineccepibile per la democrazia rappresentativa era corretta in senso sostanziale dagli istituti della democrazia diretta6.
Le cose non andarono così, come ben sappiamo. E già alla metà degli anni Settanta, nel notissimo commento al primo articolo della Costituzione, proprio Costantino Mortati condannava ormai in modo aperto la mancanza della prospettiva dello Stato di “tipo” nuovo, e dunque l’affievolirsi della spinta che proveniva dagli anni della Costituente, e dall’idea stessa della Costituzione come indirizzo fondamentale7.
In effetti, alcuni dei nostri Costituenti per vie diverse per non dire al limite quasi del tutto opposte – da Mortati a La Pira, fino a Togliatti – approcciarono l’avvento della Costituzione democratica come la premessa per un ricongiungimento dei due lati della democrazia, rappresentativa e diretta, che la stessa Rivoluzione aveva violentemente separato. E per questi la delusione fu particolarmente cocente, nel momento in cui divenne visibile l’inattitudine dei partiti politici a sorreggere una trasformazione costituzionale che avesse al primo posto la risposta in senso democratico alla crisi della rappresentanza politica.
Quello che è accaduto dopo è altra storia, nel senso che è storia del presente, della forma di Stato nuova, e in parte addirittura inedita, che ormai chiamiamo “Stato costituzionale”. Ovviamente molto ancora è da definire sul significato storico della transizione dallo Stato di diritto della tradizione allo Stato costituzionale del presente8. Questa transizione non avviene infatti come semplice e quasi automatica conseguenza della messa in vigore della Costituzione. Tant’è che se dovessimo datare l’inizio di questa transizione non lo collocheremmo nei primi mesi di vigenza della nuova Costituzione, bensì nel 1956, con la prima sentenza della Corte costituzionale, e nelle sentenze che seguono immediatamente dopo, in cui appare chiaro che il sindacato della Corte medesima si svolge su un crinale che al di là lascia subito intuire l’ampio spazio riservato alla discrezionalità politica del legislatore9.
D’altra parte, il fatto che la Corte veda dal suo crinale il grande spazio occupato dalla potestà legislativa non significa affatto che essa possa scendere da quel crinale e mettere i piedi in quello spazio, di fatto tentando di occuparlo. Certo, il ruolo della Corte non può ridursi alla emanazione di direttive per il legislatore futuro, ma nello stesso tempo non può neppure estendersi fino a coprire lo spazio riservato al legislatore. Infatti, sul piano storico non v’è dubbio che la transizione verso lo Stato costituzionale non implica affatto una perdita totale della connessione con la tradizione europea del principio di sovranità, che nella sua fase ultima era divenuto sovranità popolare espressa dal Parlamento, anche attraverso i partiti politici10.
Questa posizione che la Corte ha assunto è frutto di un pensiero, e di una cultura costituzionale, all’insegna dell’equilibrio e della moderazione; ed è questa cultura ad essere dominante anche tra i nostri Costituenti, che non volevano la Repubblica giacobina, e di fatto aprirono le porte all’altra parallela tradizione repubblicana, più di stampo anglo-americano. Questa seconda tradizione muoveva dalla forma monarchica costituzionale ereditandone il gioco dei pesi e contrappesi, per arrivare successivamente alla Repubblica federale americana, ma all’atto della Costituente era ancora assai distante dalla cultura costituzionale media dei nostri Costituenti, ancora imperniata sul principio di sovranità, che rimaneva “una e indivisibile”. Alla fine credo si possa parlare di una mediazione tra le due tradizioni, tant’è che proprio i nostri Costituenti, pur rimanendo profondamente figli della Rivoluzione, e dopo aver attribuito la sovranità al popolo, avvertirono l’esigenza di sottolineare che il suo esercizio avrebbe dovuto svolgersi nelle forme e nei limiti fissati dalla Costituzione (art. 1, comma secondo, Cost.). Insomma, la fondazione esplicita del potere pubblico nella volontà popolare non sanava quel potere esentandolo da ogni forma di controllo.
Tanto meno tutto questo passaggio storico poteva risolversi in un “assalto” ai poteri del legislatore da parte dei giudici. Infatti, il ridimensionamento della figura del legislatore, sia esso inteso come dominio della volontà generale nel tempo storico della Rivoluzione, o piuttosto come primato del “popolo”, nella versione totalitaria degli anni Trenta, inteso come totalità storica ed etica contrapposta al singolo, non dipende certo dai giudici e dalla loro presunta volontà di occupare il terreno della politica, bensì dalla crisi che sempre più attanaglierà in modo trasversale le istituzioni della politica, cui non si riconosce più una funzione di guida di una determinata collettività storica. La crisi è soprattutto nei confronti della democrazia rappresentativa, che giunta al suo culmine inizia – a partire dagli anni Trenta del secolo scorso – una vertiginosa caduta, proprio nella sua capacità di dar voce e sostanza agli interessi e ai bisogni espressi dai cittadini e dalle loro organizzazioni.

Le “figure” della trasformazione costituzionale

Si può ora raffigurare la transizione dallo Stato di diritto della tradizione allo Stato costituzionale del presente11 con gli strumenti che di solito si usano nelle scienze naturali o in economia. In primo luogo la geometria.
Abbiamo a prima vista, con chiarezza, nella fig. 1 espressa la situazione dello Stato di diritto tradizionale, caratterizzata dal dominio della legge ordinaria, e soprattutto della “forza di legge”, che tende a ridurre il giudice a mero esecutore, che applica la legge medesima al caso concreto passando il meno possibile dalla fase dell’interpretazione. Attraverso la fig. 1, si ha dunque la po...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione. La mano di Giotto
  2. I. Lo Stato moderno e lo Stato costituzionale
  3. II. Le Costituzioni democratiche del Novecento
  4. III. La vera storia della prima sentenza della Corte