Introduzione alla storia delle religioni
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Introduzione alla storia delle religioni

  1. 240 pagine
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Introduzione alla storia delle religioni

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Una guida al vasto panorama delle tradizioni religiose, del passato e del presente, affinché, nell'avvicinarsi all'una o all'altra di esse, in base ai propri interessi, sia possibile muoversi con criterio nello studio delle loro rispettive storie e identità.
Intento del volume non è quello di entrare nel merito delle singole religioni ma piuttosto proporre una riflessione sulle questioni di fondo che accomuna le diverse tradizioni. Le tematiche di fondo che vengono affrontate vanno dalla nozione di 'religione' a una breve storia degli studi sui fenomeni religiosi, da una riflessione sulle tre categorie fondanti del storico-religioso – il mito, il rito, il sacrificio – alla differenza fra religioni etniche e religioni fondate.
L'autrice si sofferma in particolar modo sul mondo mediterraneo antico e tardo-antico, che per un verso è più familiare al lettore e quindi a lui più immediatamente accessibile, e per l'altro si configura come un importante terreno di manifestazione di esperienze decisive per la definizione dell'identità culturale, oltre che religiosa, dell'attuale scenario europeo e mondiale.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115503

III. Breve storia degli studi

Un’introduzione al tema

Per un’adeguata comprensione dei molteplici problemi della disciplina e per la chiara percezione della profonda interferenza che in essa interviene fra l’oggetto da indagare (le religioni) e il metodo applicato nell’indagine medesima, può essere utile un riferimento, sia pur rapido, alla storia della disciplina stessa, alle questioni affrontate nei dibattiti aperti su certe problematiche e alle metodologie usate per risolverle. Non si vuole certo proporre un’impossibile rassegna di tutte le voci intervenute nel dibattito e neppure delle principali, per le quali rimane ancora assai utile il testo di Sharpe (1975, 19862), cui ora si aggiungono numerosi contributi tra cui si segnalano quelli, più accessibili al lettore italiano, ricchi di documentazione bibliografica, di Kippenberg (1997, trad. it. 2002) e di Filoramo (2004). Si tratta ancora una volta di sondaggi operati soprattutto nelle prime formulazioni di generali teorie interpretative in cui, in maniera più evidente ed esplicita, si possono cogliere vantaggi e svantaggi di un approccio formale di tipo totalizzante alla questione della natura e delle origini del fenomeno religioso. Inoltre, si constata come proprio presso gli autori presi ad esempio di tale approccio, anche se sostenitori di posizioni in larga misura superate, sono state assunte alcune categorie classificatorie che ancora oggi si propongono, nello stesso linguaggio scientifico e nella più ampia divulgazione di esso, come delle costanti pressoché ovvie per la definizione dei fenomeni religiosi. Si pensi alle categorie di animismo, politeismo, monoteismo, totemismo, mito, rito, sacrificio, magia, iniziazioni, Essere supremo, sacro ecc. che a titolo diverso sono state proposte e valorizzate da questi autori e, sia pure spesso oggetto di discussione critica, continuano a occupare il campo del discorso storico-religioso.
La storia delle religioni come disciplina scientifica è piuttosto recente: si può dire che essa sia nata sotto il profilo metodologico soltanto nel XIX secolo, pur avendo dei presupposti e delle anticipazioni importanti sia nei secoli XVII-XVIII sia già nell’antichità (Borgeaud, Paris 2004). Percorrere la storia della disciplina permette di constatare quali siano i risultati acquisiti, sui quali è possibile fondare ulteriori ricerche, e quali gli errori, in cui sono incorsi alcuni studiosi, che è necessario evitare. Tali errori sono il risultato della difficoltà di elaborare e verificare gli strumenti più utili per poter accedere allo studio dello stesso oggetto della disciplina, nella grande varietà delle sue manifestazioni, per interpretarle e catalogarle. È infatti superfluo notare come la funzione primaria di una disciplina scientifica non sia soltanto la raccolta di dati, ma soprattutto la loro interpretazione. Né d’altra parte questa ricerca può dirsi conclusa. Al contrario, l’attuale panorama dell’indagine storico-religiosa mostra una grande varietà di indirizzi metodologici, ciascuno dei quali è degno di attenzione, anche se talora non risulta in tutto o in parte condivisibile. Non è possibile né necessario in questa sede offrire una rassegna ampia, per non dire completa, delle diverse prese di posizione, spesso fondate su teorie generali intorno alla natura, origine e funzione della religione. Esse pertanto a vario titolo, pur con strumentazione metodologica molto più raffinata di quanto non sia avvenuto in passato, ricadono nella «trappola» delle interpretazioni generali e generalizzanti, nella pretesa di «spiegare» dall’una o dall’altra prospettiva (sociologica, antropologica, psicologica, addirittura biologica) tutti i fenomeni riconducibili alla categoria del «religioso», con scarsa attenzione alla diversità dei contesti storico-culturali.
La funzione del nostro discorso vuole essere piuttosto quella di fornire, a quanti – soprattutto studenti dei corsi universitari – si accostano per la prima volta al campo vasto delle religioni, una sufficiente esemplificazione del metodo storico-comparativo come quello che, a preferenza di altri, permette di analizzare i fenomeni religiosi nelle loro molteplici manifestazioni nel tempo e nello spazio, nel rispetto delle diversità ma anche nello sforzo di percepire fra di essi quelle qualificate analogie che permettano di situarli in un’unica grande categoria, quella appunto che la tradizione occidentale, di ascendenza greco-romana e segnata profondamente dall’esperienza cristiana, definisce con il termine «religione». Il tutto senza alcuna pretesa «etnocentrica» e nella piena avvertenza del carattere culturalmente condizionato del termine e della nozione in questione, il cui uso peraltro continua ad essere legittimo quando non pretenda di rimandare ad un modello «normativo». Pertanto si tratterà di illustrare molto rapidamente alcune delle teorie interpretative formulate tra la metà dell’Ottocento, quando la disciplina comincia a configurare le sue prime espressioni scientifiche, e gli inizi del Novecento, epoca in cui si susseguono alcune grandi teorie interpretative della storia religiosa dell’intera umanità. E ciò allo scopo di mostrare il rischio insito in ogni tentativo di elaborare formule onnicomprensive e in pari tempo di constatare come anche indagini ormai in larga misura superate, sotto il profilo metodologico e nelle finalità perseguite, abbiano fornito spunti interessanti allo sviluppo della ricerca e dati documentari ancora utili. Risulta confermato quel carattere «cumulativo» della disciplina che è stato acutamente sottolineato da Sharpe nella sua storia della Comparative Religion e che continuamente si ripropone, dimostrandosi come nessuna teoria interpretativa sia mai completamente nuova né mai del tutto priva di stimoli verso future acquisizioni.

1. Un esempio di teoria interpretativa generale dei fenomeni religiosi: l’animismo di E.B. Tylor e l’evoluzionismo positivista

Nello sforzo di interpretazione delle varie manifestazioni religiose dell’umanità si sono succeduti vari tentativi, alcuni dei quali – pur essendo importanti e meritori – si sono rivelati insoddisfacenti quanto a metodologia e a risultati. Intorno alla metà dell’Ottocento la ricerca è stata solitamente orientata a ricercare nelle religioni un minimo comune denominatore, una specie di nocciolo, insieme originario e comune, che sarebbe alla base di tutti i mondi religiosi, e attorno al quale si sarebbe verificato un processo di crescita, con diversi gradi di evoluzione, lungo tutto il corso della storia umana.
Di fatto, nei fenomeni religiosi come in tutti i fenomeni storici avvengono trasformazioni e sviluppi a partire da un inizio, spesso assai difficile da individuare con gli strumenti dell’indagine positiva. Tuttavia questa evoluzione, di cui la documentazione positiva permette di seguire lo sviluppo, è diversa secondo i casi e quindi fortemente differenziata nei particolari contesti storici. Né tale processo evolutivo prende le mosse da una situazione di base identica per tutti questi contesti. Molto spesso, per amore di sistematicità e sulla base di presupposti teorici precostituiti rispetto alla ricerca positiva, lo sviluppo dei fenomeni religiosi fu considerato come un processo evolutivo svolgentesi lungo una linea continua e unitaria per tutti i popoli. Si stabilirono così delle fasi successive a partire da quelle che si ritenevano le concezioni più rudimentali e pertanto «originarie», per giungere alle concezioni religiose più sviluppate. Si ritenne, in altri termini, che tutta l’umanità avesse sperimentato nel tempo (o – nel caso delle popolazioni illetterate che ancora si trovavano in uno stadio culturale più o meno arcaico – avrebbe dovuto sperimentare) un sviluppo unico e lineare nel senso evolutivo, dal basso verso l’alto, dal rozzo e barbaro al raffinato e culto.
Questa teoria, che si definisce appunto «evoluzionistica», fu elaborata in maniera sistematica, sia pure con grandi variazioni secondo le diverse formazioni ideologiche degli studiosi, a partire dalla metà del XIX secolo. Essa risentiva evidentemente dei presupposti filosofico-scientifici dell’epoca, dominata dal positivismo filosofico. È noto come in questo periodo sia stata formulata la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie in campo biologico, sulla base del principio della selezione naturale, e sia stata scoperta l’evoluzione delle tecniche manuali che è stata a fondamento della formazione delle civiltà umane. È il periodo in cui si stabilì scientificamente una cronologia nella storia dello sviluppo dell’umanità sotto il profilo antropologico-fisico e tecnologico, con l’individuazione delle varie tecniche preistoriche di lavorazione della pietra e quindi dei metalli. In pari tempo si determinarono certi aspetti dello sviluppo culturale dell’umanità in relazione alle attività economiche, a partire da una situazione di semplice sfruttamento delle risorse naturali, attraverso la caccia degli animali, la pesca e la raccolta di frutti, bulbi e tuberi. Soltanto più tardi alcuni gruppi umani cominciarono ad addomesticare gli animali, a praticare l’allevamento e quindi lo sfruttamento della terra mediante agricoltura, nelle sue varie forme (dalla zappa all’aratro).
Se indubbiamente si tratta di importanti acquisizioni ai fini della conoscenza dello sviluppo evolutivo delle tecniche materiali e delle attività economiche, oltre che delle organizzazioni sociali, delle varie culture umane, da parte di antropologi e di storici delle religioni si commise l’errore di applicare le medesime categorie evolutive, dal semplice al complesso, dal rudimentale al perfezionato ecc., anche allo sviluppo di fatti religiosi. Si ammise pertanto un inizio delle credenze religiose comune per tutti i popoli e per tutte le culture, inizio di cui sarebbero testimoni contemporanei i popoli cosiddetti primitivi, ossia quelle popolazioni di cultura più o meno arcaica che le scoperte geografiche e soprattutto l’opera di colonizzazione mettevano a contatto diretto con la società europea. Quest’ultima – soprattutto nell’Inghilterra elisabettiana – poneva il proprio modello culturale al vertice delle acquisizioni della civiltà umana valutando in rapporto ad esso tutte le altre forme culturali documentate, nel passato e nel presente.
Fondamentale, per la comprensione delle varie teorie evoluzionistiche, risulta di fatto la circostanza che lo stesso secolo XIX fu il secolo del colonialismo, l’epoca in cui, dopo le grandi scoperte geografiche dei secoli precedenti, attraverso forme stabili di dominio politico da parte delle potenze occidentali, si instaurò una rete di contatti più diretti e continui tra le popolazioni europee e quelle dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe, dell’Australia, che si trovavano a un livello di sviluppo economico-culturale molto diverso da quello delle società occidentali. Nelle relazioni con queste civiltà così lontane dal modello europeo si sottolineò subito la disparità, intesa nel senso dell’inferiorità più o meno radicale, ed esse furono definite primitive; addirittura si parlò con terminologia tedesca di Naturvölker, cioè di «popoli di natura», ritenendo che questi popoli fossero rimasti in uno stato «naturale», quasi semi-ferino, e quindi fossero da considerare relitti di un’umanità originaria, priva o scarsamente dotata di elaborazioni culturali.
Questa circostanza condizionò notevolmente gli studi storico-religiosi che erano allora ai loro inizi, perché fu grande l’interesse per le credenze religiose e le pratiche cultuali di questi popoli, credenze e pratiche che risultavano molto lontane dalle esperienze dei colonizzatori, dei missionari e degli stessi studiosi che ebbero modo di venire a contatto con essi. La diversità fu immediatamente percepita dalla maggior parte degli occidentali, soprattutto dai funzionari coloniali ma anche dai missionari e dagli antropologi, come segno di estrema rozzezza, di statuto primitivo e rudimentale, per cui si affermò la tendenza a ritenere il complesso di concezioni di cui questi popoli erano portatori come quello che meglio poteva riflettere i primi inizi in assoluto delle credenze religiose dell’umanità. Si cercò allora di circoscrivere proprio quelle credenze e pratiche che apparivano a prima vista più strane e lontane dall’esperienza delle civiltà occidentali, per porle all’origine di un processo evolutivo in cui sarebbe stata interessata l’intera storia umana, fin dai suoi primordi, e di cui si constatavano varie forme di «sopravvivenza» nelle attuali (all’epoca) popolazioni primitive. Si cercò dunque l’inizio della storia religiosa in ciò che appariva più rudimentale e «semplice» per procedere quindi ad una graduale sistematizzazione di fenomeni sempre più complessi lungo una scala evolutiva conclusa dalle acquisizioni della cultura contemporanea.
Sulla base di questi postulati fu elaborata la teoria dell’animismo, come primordiale credenza religiosa dell’umanità, da parte di un grande studioso inglese che operò fra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Edward B. Tylor (1832-1917). Egli aveva soprattutto interessi antropologici e si impegnò a raccogliere una grande massa di nuove informazioni sulle popolazioni primitive, fornite da missionari ed esploratori. Lo studioso poté così constatare la grande diffusione di un tipo di credenza che egli definì «animismo», in quanto relativa ad una particolare nozione che, in via analogica e comparativa, definì pertinente all’anima e che pose alla base dello sviluppo religioso umano. La sua opera fondamentale, in cui è proposta tale teoria interpretativa dei fatti religiosi e culturali dell’intera storia umana, è intitolata Primitive Culture e fu pubblicata nel 187119. La teoria del Tylor ha avuto grande fortuna sia nel campo degli studi specialistici, essendo stata adottata da molti antropologi e storici delle religioni come spiegazione dell’origine della religione, sia nel più vasto ambito culturale, in cui la categoria dell’«animismo» è stata utilizzata per definire un tipo di credenza religiosa, fuori dallo schema evoluzionistico tyloriano. Pertanto spesso, anche attualmente, si parla in maniera generica di popoli «animisti».
Il concetto di anima che Tylor aveva opportunamente circoscritto e individuato si collegava alla credenza secondo cui tutti gli esseri, anche gli animali e gli oggetti inanimati (un albero, un fiume, una pietra), hanno un loro «doppio», una sorta di alter ego invisibile e intangibile, definibile «anima». È chiaro che i termini corrispondenti nelle lingue indigene sono i più svariati; il Tylor utilizzò il termine proprio della cultura occidentale sempre per un processo analogico, per indicare un elemento invisibile e intangibile ma pure ritenuto presente nell’individuo, come una sua componente costituzionale. In questo caso non si trattava peraltro dell’anima considerata come principio vitale ma dell’anima-immagine, ritenuta una sorta di «doppio» della persona o della cosa, cioè la sua rappresentazione formalmente identica ma impalpabile e separabile dal corpo. Questa anima-«doppio», detta anche anima-«immagine», perché riproduce le fattezze dell’individuo, dell’animale e della cosa cui attiene, sarebbe stata percepita dall’uomo primitivo soprattutto nelle esperienze del sogno o dell’estasi, in cui si vedono presenti e attivi animali e persone anche lontani e l’individuo a sua volta si muove in luoghi diversi da quelli reali. Il Tylor esaminò le varie accezioni del concetto di anima come entità separabile dall’individuo, che ne riproduce la personalità e può agire in maniera indipendente dal suo «proprietario», allontanarsi da lui ed eventualmente essere oggetto di aggressione. Lo studioso non si limitò a constatare che questa concezione era presente presso numerose popolazioni cosiddette primitive ma ritenne che essa stesse a fondamento di tutto lo sviluppo religioso dell’umanità, supponendo che una nozione di questo tipo fosse stata patrimonio comune di tutte le culture in una fase originaria della loro storia, anche se poi sarebbe stata superata da altre concezioni. All’errore di estendere a tutti i popoli – senza adeguato riscontro documentario – una credenza presente solo presso alcuni di essi si aggiunge la circostanza, trascurata dallo studioso, che essa si situa sempre in un contesto più ampio. Non si tratta infatti mai di una concezione onnicomprensiva ed esauriente di un orizzonte religioso; in altri termini non si dà storicamente nessuna popolazione, nessuna cultura che si possa definire esclusivamente «animistica» nel senso che abbia soltanto credenze del tipo illustrato dal Tylor.
È pure vero che si tratta di una concezione importante perché talora le anime «separabili» tendono anche a personalizzarsi e quindi ad esempio a concentrarsi – per così dire – in certi luoghi (nella boscaglia se si tratta di popolazioni che vivono in ambiente naturale di questo tipo, oppure nel deserto o comunque nei luoghi non abitati); esse tendono ad assumere una certa personalità e a influire sulla vita del gruppo e dell’individuo. Tuttavia queste credenze di tipo animistico convivono e si integrano con altre, più o meno complesse. Ad esempio, in successive indagini sui popoli portatori di tali nozioni, si è constatato che spesso esse convivono con la credenza in un essere cha ha una personalità più marcata, considerato come quello che agli inizi ha fondato la vita del gruppo umano o addirittura ha posto in essere lo stesso scenario naturale in cui tale gruppo umano vive, gli ha dato i mezzi di sussistenza e ne garantisce la vita attuale. Concezioni di questo tipo, nell’approfondimento degli studi sulle popolazioni etnologiche, furono individuate come peculiari di molte culture arcaiche, configurando quella che fu definita la credenza nel cosiddetto «Essere supremo». Si tratta di un personaggio che non è riconducibile al livello delle anime ma integra una diversa tipologia perché dotato di una certa trascendenza rispetto all’uomo e al mondo e di una particolare rilevanza etica in quanto considerato come colui che ha dato al gruppo umano le norme di vita e i mezzi di sussistenza.
Lasciando da parte la tipologia dell’Essere supremo, su cui verremo più ampiamente in seguito, si vuole ora notare che la concezione dell’animismo che il Tylor pose in luce va situata in un contesto religioso più ampio; soprattutto essa non può essere intesa come una sorta di minimo comune denominatore di tutte le religioni. Tale fu l’errore commesso da Tylor e da altri studiosi di eguale impostazione metodologica i quali, individuata una credenza particolarmente diffusa presso popolazioni di cultura arcaica, la considerarono non solo primordiale o addirittura prima in assoluto ma comune a tutta l’umanità, stabilendo una semplicistica scala evolutiva dei concetti religiosi.
Il Tylor dunque affermò che la più antica credenza dell’umanità, ancora molto diffusa presso i primitivi, sarebbe stata l’animismo, del quale peraltro riteneva che fossero presenti tracce anche presso i popoli di alta cultura dell’antichità, in particolare presso i greci. Di fatto, l’interpretazione tyloriana e analogamente quelle formulate da altri studiosi del medesimo indirizzo met...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. L’oggetto e il metodo
  3. II. Per una storia del termine e della nozione di «religione»
  4. III. Breve storia degli studi
  5. IV. Per una tipologia storica delle religioni
  6. V. Il mito, il rito, il sacrificio: tre «categorie» del discorso storico-religioso
  7. VI. Religioni etniche e religioni fondate
  8. Bibliografia