Get Back! I giorni del rock
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Get Back! I giorni del rock

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Get Back! I giorni del rock

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Get Back. Come il disco perduto dei Beatles. Come un cammino a ritroso nel tempo, o un disco fatto girare al contrario. Ma anche nel senso di rimettere le cose a posto. Espressione che calza a pennello a questo libro. Poiché largomento è il rock, si procede a passo di gambero e lo scopo consiste appunto nel riordinare gli eventi musicali dellultimo mezzo secolo. La ricorrenza è in qualche modo solenne: nel 2004 il rock compie 50 anni.

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Informazioni

1° agosto 1981

Un minuto dopo la mezzanotte cominciano negli Stati Uniti le trasmissioni via cavo di Mtv. È l’inizio di una rivoluzione che cambierà il volto della musica.
Con calcolata autoironia, il primo filmato messo in onda è Video Killed the Radio Star dei Buggles: un brano che predice con tono lieve la prossima estinzione di un mondo – quello della musica pop pre-televisiva. Allora poteva suonare paradossale. Oggi un po’ meno. Con i suoi 33 canali sparsi nel pianeta, attraverso i quali trasmette in 18 lingue diverse e raggiunge 375 milioni di abitazioni in 164 paesi, Mtv è un network praticamente senza rivali, con un’audience doppia rispetto a Cnn International: «Mtv è oggi la vera televisione globale», afferma con soddisfazione Summer Redstone, boss della Viacom, società proprietaria dell’azienda dal 1985 (e dal 1997 anche di Paramount e Blockbuster). Di farle concorrenza non se ne parla nemmeno: chiedere per conferma a Viva, in Europa, e a Star Tv, in Asia, tuttora impegnate in quella sfida impossibile. Carta canta: dal 1996 al 2003 i ricavi iscritti a bilancio sono più che triplicati, passando da 231 a 722 milioni di dollari. E tra le varie filiali ramificate nel mondo, proprio Mtv Italia è una delle più efficienti, avendo visto crescere i propri introiti pubblicitari del 352% dal 1997 al 2001.
Nel Vecchio Continente dal 1997 c’è Mtv Europe (frutto di una joint venture con Maxwell Communications Corporation e British Telecom), che ha sussidiarie locali – fra cavo, satellite e broadcasting tradizionale – in Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Russia... In tutto 15 canali e 124 milioni di utenti. Meglio ancora va la sezione asiatica, inaugurata nel 1991 e ricevuta ora da 137 milioni di apparecchi televisivi. E in America Latina siamo a quota 28 milioni. Così, con i suoi 85 milioni di telespettatori, la casa madre statunitense ha quasi l’aria della parente povera. Sono cifre che danno l’esatta percezione della potenza economica di cui il network dispone oggigiorno: una forza che a questo punto surclassa quella del suo interlocutore naturale, l’industria discografica. Se nel corso dei 23 anni trascorsi dal varo dell’impresa Mtv è cresciuta esponenzialmente, i produttori di dischi hanno subito viceversa un vistoso calo dei fatturati, attribuendone la responsabilità alla diffusione della musica in rete. E ora che le strategie industriali tracciate per il futuro dal management di Mtv puntano in primo luogo a estenderne la presenza proprio in Internet, siamo di fronte a quel genere di paradosso che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini. Nata come supporto dell’industria discografica, Mtv fertilizza adesso il terreno che gli stessi discografici indicano come quello in cui prosperano i loro più acerrimi nemici, gli «scambisti» di musica.
Agli albori, Mtv altro non era che un Carosello a ciclo continuo di videoclip – i filmini promozionali delle ultime novità discografiche. Pubblicità travestita da intrattenimento, perciò rudimentale. Migliorie tecniche a parte, non era stato fatto nessun passo avanti sostanziale rispetto alla relazione fra musica e immagini in movimento consolidatasi all’inizio del Novecento. In principio furono le comiche: muti cortometraggi a sonorizzare i quali provvedevano i pianisti schierati sotto gli schermi. Pioniere dell’integrazione tra i due fattori fu il disegnatore Oskar Fischinger, che negli anni Venti cominciò a elaborare animazioni per brani popolari di musica classica e jazz. Nel 1940 lo stesso Fischinger fece parte del team che, sotto la direzione di Walt Disney, realizzò il film a cartoni animati che alcuni considerano il primo prototipo di videoclip: Fantasia. Pagine celebri della tradizione colta – Bach, Stravinskij, Beethoven, Schubert, Musorgskij... – che scandiscono i tempi delle sequenze di immagini. Fino ad allora era stato il contrario: la musica aveva fatto da arredo alla narrazione cinematografica.
In quella stessa epoca ebbero un fugace momento di gloria i soundies: sorta di jukebox visivi che offrivano a pagamento spezzoni degli show dei divi allora in auge, da Bing Crosby in giù. Furono il diffondersi degli apparecchi televisivi e il contemporaneo avvento del rock’n’roll a cambiare le regole del gioco durante gli anni Cinquanta. Le epifanie di Elvis Presley sul piccolo schermo ingigantirono la fama del personaggio. E a quel punto fu chiaro agli occhi degli impresari musicali quale fosse la potenza persuasiva del mezzo. Scrive a proposito il sociologo Simon Frith nel saggio Making Sense of Video: «In primo luogo la televisione è sempre risultata significativa per la vendita dei dischi e cruciale per l’attribuzione di senso alla musica giovanile. È stata la fonte essenziale dell’immaginario che spiegava il rock’n’roll – Elvis Presley divenne un’icona giovanile attraverso le sue apparizioni negli spettacoli di varietà televisivi – e da allora in poi è stata la vetrina più efficace per il rock» [trad. it. Dar senso al video: il pop verso gli anni Novanta, in Il rock è finito, Edt, Torino 1990, p. 248]. Alla produzione in proprio si passò negli anni Sessanta, quando Beatles e Rolling Stones rivaleggiavano su scala planetaria. Anziché spedire i gruppi coi rispettivi entourage in giro per il mondo a promuovere se stessi e i loro dischi, era molto più economico ed efficiente registrarne un’esibizione in studio e inviarne poi copie in pellicola alle varie emittenti televisive. Fece da modello nel 1967 il filmato promozionale di Penny Lane e Strawberry Fields Forever: primo 45 giri pubblicato quell’anno dai «baronetti».
Il vero progenitore del videoclip per come oggi lo conosciamo fu realizzato nel 1975 dai Queen per Bohemian Rhapsody. Ancorché primitivo nella forma (appena qualche effetto ottico a interpolare i frammenti di una registrazione dal vivo), sortì l’effetto desiderato: quel 45 giri conquistò il primo posto nell’hit parade britannica e lo mantenne consecutivamente per due mesi, contribuendo alla definitiva consacrazione del gruppo di Freddie Mercury. La tipica teatralità dei Queen evidenziò immediatamente il valore aggiunto del videoclip: dotare le canzoni di fascino coreografico. Non a caso a sfruttare nel modo migliore quel nuovo strumento propagandistico furono, nei primi anni Ottanta, gli azzimati new romantics inglesi – Duran Duran, Culture Club, Spandau Ballet – cresciuti all’ombra del dandy rock per antonomasia: David Bowie. Ma chi davvero costruì la propria carriera a partire dai videoclip fu la diva più glamour dell’intero decennio: Madonna. Allora si registrò lo scarto decisivo: i modi per confezionare il prodotto musicale stavano cambiando irreversibilmente. E in fondo permettevano di risparmiare: allora un videoclip costava comunque meno di una campagna pubblicitaria in grande stile. Così fu almeno finché la casa discografica di Michael Jackson – già in azione sui piccoli schermi l’anno prima con Billie Jean – investì nel 1984 un milione di dollari commissionando al regista John Landis l’ambiziosissimo clip di Thriller.
Mtv frattanto cresceva. Nata grazie alle condizioni favorevoli create dalla deregulation televisiva degli anni Settanta, aveva esordito nel 1981 come nuovo ingrediente nel bouquet offerto agli 800mila utenti del network via cavo Warner Amex Cable Communications, joint venture intrapresa nel 1979 dai gruppi Warner Bros e American Express. A occuparsi del canale tematico votato alla musica furono chiamati Robert Pittman, operatore radiofonico di successo, e Michael Nesmith, in gioventù membro dei Monkees (gruppo pop di matrice guarda caso televisiva) e quindi artista in proprio, attore e produttore discografico, ma soprattutto pioniere videomusicale con il programma Popclips sul canale satellitare per ragazzi Nickelodeon. Non ci volle molto per dimostrare che l’idea era redditizia: terminata la fase di start up, Music Television – questa la dicitura integrale – era già un’impresa che da sola costituiva il 25% dei ricavi dell’intero network. Ragion per cui, nel 1983, il magazine economico «Fortune» la nomina «prodotto dell’anno». Nel 1984 Mtv raggiunge e supera la soglia dei 20 milioni di abbonati, incassa 11 milioni di dollari in pubblicità, diviene ammiraglia di un nuovo gruppo chiamato Mtv Networks, piazza sul mercato il 30% del proprio capitale azionario in cambio di 70 milioni di dollari e respinge l’attacco che Ted Turner, mister Cnn, prova a portarle con il Cable Music Channel aprendo una seconda rete – VH1, ossia Video Hits One – destinata a un pubblico più adulto. Una marcia trionfale. A quel punto Mtv vale quasi mezzo miliardo di dollari: è la cifra che Viacom – in procinto di essere «scalata» da Redstone – paga per rilevarne la proprietà nell’estate del 1985.
In che cosa consiste il valore di Mtv? Essenzialmente nel fatto che crea comunità. Di «Mtv Generation» si comincia a parlare nei primissimi anni Novanta. È il boom dei Nirvana, largamente favorito dall’emittente, a dare un segnale inequivocabile. La categoria «giovani» era definita come mercato di massa già ai tempi del rock’n’roll, ma fino ad allora nessun imprenditore della comunicazione lo aveva coltivato in maniera esclusiva. Sul fronte televisivo erano stati realizzati programmi di successo destinati a un’audience giovanile – dall’inglese Ready Steady Go! negli anni Sessanta al nostrano Mister Fantasy due decenni più tardi – ma sempre nel contesto di reti generaliste. Nulla che fosse orientato specificamente a quel mercato. Mtv aveva colmato la lacuna, coagulando un pubblico in età mediamente compresa fra i 18 e i 25 anni: bacino appetibilissimo per gli inserzionisti pubblicitari. Non più organizzati in bande, come tra i Cinquanta e i Sessanta, e men che meno in «movimento», come fra i Sessanta e i Settanta, i giovani si ritrovano trasformati così in platea televisiva. Mtv sta al centro di quella comunità virtuale, ne è movente e forza propulsiva. Diceva Mark Booth, primo direttore generale di Mtv Europe: «È un ambiente creato intorno al nucleo centrale della musica e a uno stile della cultura giovanile di cui si può entrare a far parte», che tradotto in linguaggio mercantile significa: sei quello che consumi – primo comandamento nell’era del mercato globale. O in altri termini: «La visione di un’ora di Mtv corrisponde allo shopping in un grande centro commerciale nel quale ci venga data la possibilità di provare tante identità diverse» [Pat Aufderheide, The Look of the Sound, in Watching TV, a cura di Todd Gitlin, Pantheon, New York 1987, p. 124].
È come se più che in altri luoghi nel palinsesto di Mtv si fosse avverata la nozione stessa di post-modern. Ciò trapela dalle parole di Robert Pittman: «La gente non guarda quei filmati per sapere che cosa succederà: lo fa per provare certe emozioni. Si tratta di suscitare un’atmosfera». Ecco materializzata l’idea della rottura dell’unità narrativa dell’opera d’arte e il conseguente predominio del significante sul significato. Concetto espresso nitidamente da Dick Hebdige nel volume Hiding in the Light: «Quella che potrebbe essere considerata come la caratteristica definitoria del videoclip (è) la sostituzione della coerenza narrativa con la densità referenziale. Mentre i segni indicizzanti – quelli che portano avanti il racconto – soccombono ai segni referenziali – quelli che evocano il clima, definiscono la mise en scène fornendo elementi a ‘personaggi’ e ‘stile’ (abbigliamento, pose, luci, effetti speciali e così via) – il videoclip diviene una forma intesa a ‘narrare un’immagine’ piuttosto che a ‘narrare una vicenda’»[trad. it. La lambretta e il videoclip, Edt, Torino 1991, pp. 251-252]. Siamo così allo «spettacolo» inteso in senso debordiano: appena un passo prima dell’arte come effetto speciale. Vero è, d’altra parte, che l’evoluzione tecnica e concettuale del videoclip da semplice filmato promozionale a opera in sé motivata non può essere negata. Era ciò che affermava Peter Gabriel nel 1986, p...

Indice dei contenuti

  1. Rewind: da Eminem a Elvis
  2. 8 novembre 2002
  3. 11 luglio 1999
  4. 14 agosto 1995
  5. 12 gennaio 1992
  6. 1° agosto 1981
  7. 8 dicembre 1980
  8. 18 aprile 1980
  9. 7 giugno 1977
  10. 27 ottobre 1975
  11. 3 maggio 1975
  12. 3 luglio 1973
  13. 12 novembre 1971
  14. 6 dicembre 1969
  15. 4 aprile 1968
  16. 18 giugno 1967
  17. 13 maggio 1967
  18. 10 ottobre 1966
  19. 25 luglio 1965
  20. 11 gennaio 1963
  21. 19 luglio 1954