Un'etica senza Dio
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Un'etica senza Dio

  1. 124 pagine
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Un'etica senza Dio

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Chiaro e intellettualmente onesto. Un libro dove contano gli argomenti e la volontà di ragionare.Sebastiano Maffettone, "Il Sole 24 Ore"Quello di Lecaldano è un libro filosofico, di cordiale filosofia, accessibile e illuminata da esempi eloquenti.Corrado Augias, "Il Venerdì di Repubblica"Lecaldano ha una straordinaria capacità di stare sui problemi. Il suo libro si legge d'un fiato, perché le tesi che presenta sono il frutto di una lunga riflessione condotta con profondità di pensiero e ampiezza di respiro culturale. Ha tutti gli ingredienti per essere un contributo destinato a lasciare un segno.Maurizio Mori, "L'Indice"«Non solo non è vero che senza Dio non può darsi l'etica ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può veramente avere una vita morale.»

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101490

1. Errori in cui cadono coloro che sostengono che Dio è necessario per l’etica

Coloro che in buona o in mala fede cercano di imporre l’idea che, affinché gli esseri umani abbiano un’etica, è necessario che credano in un Dio, presentano una concezione fallace e inestricabilmente impregnata di errori e illusioni. In millenni di riflessione umana, una gran quantità di pensatori hanno prodotto obiezioni e argomentazioni volte a smascherare tali errori e illusioni, ma esse non sembrano servite a molto. Esse semplicemente sono state accantonate in buona o mala fede.
Ma andiamo per ordine.

1.1. Possiamo dare per scontato che esista un Dio quale Autore della Natura?

Legare la possibilità di un’etica all’esistenza di Dio comporta in primo luogo che si sia in grado di provarne l’esistenza.
L’argomento più comunemente usato per dimostrare l’esistenza di Dio è il cosiddetto argomento del progetto. Secondo quest’argomento, l’ordine e l’armonia che ravvisiamo tanto nell’universo nel suo complesso quanto nelle sue singole parti possono essere spiegati solo come esito di un progetto di un divino architetto – di un Dio creatore, insomma. Siccome dall’argomento del progetto segue che Dio – avendo creato il mondo – esiste con certezza, molti hanno ritenuto che tale argomento rappresenti una vera e propria dimostrazione della sua esistenza.
Hume e Kant, i più significativi filosofi del pensiero moderno, hanno criticato in modo convergente questo argomento. Secondo Hume, non vi è alcuna legittimità a usare l’argomento del progetto. Infatti, esso fonda la sua legittimità su analogie che a ben guardare si rivelano assai deboli. Che legittimità, infatti, può avanzare l’idea che, mostrando l’universo una complessità e un adattamento delle parti al tutto dello stesso tipo di quello che troviamo in una casa, allora se ne deve concludere che per l’universo, come per la casa, deve esserci stato un divino architetto a progettarlo? Inoltre, se dell’architetto e della casa ragioniamo in termini di causa ed effetto, entrambi oggetto della nostra esperienza, nel caso dell’argomento del progetto non abbiamo esperienza alcuna né dell’universo nel suo intero, né del suo preteso architetto. Perciò come può tale argomento pretendere di spiegare un evento qual è l’inizio dell’universo?
Non diversamente, Kant mostrava come l’affermazione dell’esistenza di Dio si colloca in uno spazio in cui la ragione umana, non disponendo più di alcun dato risolutivo, si avvita in contrasti dialettici irresolubili. Anche tutti gli argomenti cosiddetti a-priori sono contestati definitivamente da Kant, con il rilievo che nessun ragionamento potrà riuscire a fornire l’esistenza a qualcosa, dato che noi attribuiamo l’esistenza a qualcosa solo dopo che ne abbiamo avuto esperienza: come affermava nella sua Critica della ragion pura (1781), nessun ragionamento potrà farci passare dalla nostra idea di cento talleri ideali all’esperienza effettiva degli stessi cento talleri nelle nostre tasche.
Una considerazione generale: un’etica che trova il suo fondamento in un Dio inteso come causa prima o Autore della Natura non può essere universale perché escluderebbe gli atei, mentre è evidente che se l’etica deve essere una risposta alla comune umanità di tutti noi non deve escludere nessuno.

1.2. Cosa succede se facciamo dipendere l’etica dalla rivelazione di un Dio?

Un’altra strada che si segue per cercare di dimostrare l’esistenza di Dio è quella che si appella non già all’argomentazione, ma piuttosto alla rivelazione, alla testimonianza di profeti.
David Hume nella sezione Sui miracoli della Ricerca sul­l’intelletto umano (1748) ha argomentato contro questa possibilità, fornendo ragioni contro l’idea di attribuire a un essere umano qualsiasi un’autorevolezza tale da farci credere qualcosa che è in contrasto con la nostra comune esperienza. Come possiamo accettare la testimonianza di chi ci dice di aver ricavato ciò in cui egli vuole che noi crediamo dai segni proferiti da un qualcosa la cui realtà e i cui attributi sono indeterminati, vaghi e indistinti? Questo vale per la pretesa verità dei miracoli e altrettanto per la pretesa verità della rivelazione. Se non riconosciamo ad alcun essere umano l’autorità e il potere di testimoniare qualcosa che va contro la nostra comune esperienza, non solo non potremo credere ai miracoli che in genere devono essere creduti solo in quanto qualcuno ci dice di averne avuto esperienza, ma non potremo nemmeno credere a chi sostiene di avere ricevuto direttamente da Dio la rivelazione della sua parola. Come questa rivelazione è stata possibile? E perché mai il contenuto di una rivelazione deve perciò stesso essere preso per vero?
Ma ammettiamo pure, per amore di discussione, che l’esistenza di Dio possa essere dimostrata con l’appello alla rivelazione. In realtà, il legare l’etica al Dio della rivelazione complica il problema e di molto. Infatti, come dar conto del fatto che nella cultura umana esistono differenti religioni, spesso contrapposte, le quali concepiscono il Dio rivelato in maniera diversa? Le tre grandi religioni monoteistiche – ebraica, cristiana e islamica – si richiamano a rivelazioni diverse mediate da diversi fondatori – Mosè, Cristo e Maometto – e promulgate attraverso tre testi sacri – la Tora o il Talmud, i Vangeli, il Corano. Naturalmente, si può obiettare che è possibile cercare di depurare tali tradizioni religiose dalle componenti legate alle proprie e diverse peculiarità storiche, mostrando che tutte convergono nell’attestazione dell’esistenza di un unico Dio. Ma al di là del fatto che comunque la testimonianza di altri uomini rimarrebbe l’unica prova della sua esistenza, il fatto importante è che storicamente tali rivelazioni sono tanto poco assimilabili che hanno dato vita a religioni, che non solo si sono spesso contrapposte, ma che proprio sul piano dei contenuti etici hanno prodotto un insieme di precetti divergenti (per rimanere a un solo esempio, pensiamo alla famiglia monogamica delle religioni ebraica e cristiana e a quella poligamica dell’Islam).
Chi sostiene che Dio è condizione necessaria per l’etica dovrebbe dirci a quale Dio far riferimento e perché mai dovremmo privilegiare il suo Dio rispetto a quello di altre religioni. A noi, non sembra esserci ragione alcuna al di là – come spiegava John Stuart Mill in La libertà (1859) – della mera casualità storica e biografica che ci ha fatto nascere in un certo tempo e in un certo luogo, e che spiega la rivendicata superiorità della religione alla quale siamo stati educati rispetto a quella di altri popoli (se fossimo nati al Cairo, molto probabilmente saremmo stati musulmani e non cristiani).
Ancora una volta siamo costretti a sottolineare la violazione del carattere universale dell’etica: legare l’etica all’esistenza di un Dio rivelato comporta che essa sia possibile solo per una parte limitata dell’umanità – quella che crede esattamente nel nostro stesso Dio. I restanti saranno oggetto di un obiettivo rovinosamente anti-etico: quello di essere biasimati, emarginati, perseguitati o, nel caso migliore, costantemente sollecitati ad abbandonare la loro visione del mondo. L’etica che ritiene necessario un riferimento a Dio non può dunque che muoversi in un orizzonte relativistico che fa dipendere la validità di una moralità dalla particolare rivelazione e concezione della divinità da cui deriva. Ecco perché sulla strada della riaffermazione e del recupero della propria identità religiosa e morale – strada tanto cara a molti dei cosiddetti teo-conservatori nostrani e americani – non sembra aprirsi altra prospettiva che quella dello scontro e della contrapposizione con le altre identità.
La riflessione degli ultimi decenni sulle questioni di bioetica ha fatto emergere con grande evidenza un’ulteriore difficoltà sulla strada di chi si richiama alla rivelazione per trovare un fondamento all’etica. Le morali rivelate si sono mostrate impotenti a fronteggiare molte delle questioni nuove poste dalla bioetica: spesso non hanno trovato alcuna soluzione, o tra i credenti della medesima religione hanno ricevuto risposte e soluzioni differenti – basta pensare che tra i cristiani l’eutanasia attiva volontaria viene considerata moralmente comprensibile da alcune correnti del protestantesimo (ad esempio dai valdesi) e assolutamente condannata dai cattolici. Sempre si è resa necessaria una mediazione – il papa, per rimanere ai cattolici, è dovuto intervenire continuamente per imporre la sua interpretazione della rivelazione di Cristo a proposito di questioni come quelle concernenti la fecondazione in vitro con gamete di donatori, l’ingegneria genetica e la sperimentazione su cellule staminali di embrioni soprannumerari.

1.3. Quale concezione della natura dell’etica siamo costretti ad accettare se crediamo derivi da Dio?

Ma le cose sono ancora più rovinose per coloro che sostengono la dipendenza della morale dall’esistenza di Dio se concediamo loro – ovviamente solo per amore di discussione – che siamo in grado non solo di provare che Dio esiste, ma che tutti convergono nel credere in definitiva in un unico Creatore e Autore della Natura, al di là di superficiali diversità legate alle differenti fonti di rivelazione.
A prima vista si potrebbe pensare che assumere una simile posizione significa condividere le forme di deismo naturalistico e razionalistico che furono elaborate in Europa nel XVII e XVIII secolo. Ma non è così perché queste, in generale, conciliavano il riconoscimento dell’indipendenza della morale con la credenza in un Dio. Le concezioni deiste, infatti, erano delle forme di razionalismo che fondavano la morale sulla ragione comune a ogni essere umano, facendo così derivare dalla presunta unità della ragione umana tanto l’accettazione della credenza in un Autore della Natura, quanto una serie di norme morali fondamentali che indicavano ciò che, non solo tutti gli esseri umani, ma anche la stessa volontà divina dovevano riconoscere come giusto e buono. In questo caso, dunque, il fondamento della morale stava nella ragione ed era del tutto indipendente dalla credenza in Dio. Viceversa, la tesi della quale ci stiamo occupando e che viene presupposta da coloro che ritengono necessario il legame di Dio con la morale concepisce Dio come una persona del tutto simile a noi esseri umani, con attributi quali la ragione e la volontà, che mai sarebbero presenti nella concezione del deismo razionalistico, che abbiamo appena ricordato.
Ma ammettiamo l’impossibile e cioè che esista un unico Dio fornito di una ragione e di una volontà uniche, da cui si possa far discendere una serie di norme morali, e domandiamoci di nuovo: perché mai coloro che abbracciano tale dottrina ritengono che risalire a Dio sia necessario per condurre una vita etica?
Se proviamo a rispondere a questo interrogativo, ci accorgiamo presto che essi sbagliano proprio nel modo di intendere la vita etica. Infatti, essi solitamente percorrono due diverse strade, entrambe tali da non consentire alcuna fioritura effettiva di una vita etica. Da una parte, essi ritengono che si debba risalire a Dio perché solo Dio può dare un fondamento certo alla morale, intesa come un insieme di leggi e comandamenti promulgati da Dio per tutti gli uomini; dall’altra, essi ritengono che si debba risalire a Dio perché è solo ripercorrendo il piano mediante il quale Dio ha progettato il nostro mondo che riusciremmo a rintracciare le leggi fondamentali che debbono ispirare la nostra vita etica, ovvero quell’insieme di leggi naturali che – proprio in quanto esseri umani moralmente buoni e giusti – non possiamo non seguire.
Ma entrambe le strade, a nostro parere, precludono la possibilità stessa di una vita autenticamente morale e lo argomenteremo in seguito. Intanto, facciamo osservare ciò che è sotto gli occhi di tutti, ovvero che da secoli non c’è accordo su quali siano i comandamenti divini, quale sia la loro corretta interpretazione e chi ne sia il legittimo interprete (basta pensare ai contrasti all’interno del cristianesimo tra i cattolici, che ravvisano nella figura del papa l’unico vero interprete dei comandamenti di Dio, e i protestanti, che considerano i credenti i legittimi interpreti dei Vangeli). L’accordo non si raggiunge neppure su questioni quali quelle poste dalla bioetica: le posizioni tra i soli cristiani, infatti, sono profondamente diverse – l’eutanasia è stata permessa in Olanda, il suicidio assistito è stato consentito in Svizzera e Francia, mentre entrambe le cose sono state assolutamente proibite in Italia; relativamente poi alla nascita e al matrimonio non ci possono essere legislazioni ed etiche più diverse di quelle accettate nell’anglicana Inghilterra e nella cattolica Italia; relativamente all’uso degli anticoncezionali solo la Chiesa cattolica e la sua morale ne proibisce l’uso anche laddove il contagio del­l’Aids è una realtà diffusa. Analoghi gradi di diversità sono rintracciabili nel mondo musulmano e nella cultura ebraica.
E il quadro non diventa più omogeneo se ci volgiamo ai grandi trattati del giusnaturalismo filosofico di epoche diverse, visti come sforzo riflessivo e metodologico relativamente all’interpretazione delle indicazioni morali di Dio incorporate nelle leggi naturali. Si confrontino ad esempio le opere di Tommaso d’Aquino (1225-1274), Francisco Suárez (1548-1617), Ugo Grozio (1583-1645), Jacques Maritain (1882-1973), ecc.
Come far finta che siano secondarie le diversità di posizione tra i pensatori che, cercando di conciliare una morale naturale con il progetto divino, hanno considerato le scienze naturali come parte importante dell’impresa rivolta a ricostruire la realtà della legge naturale (i cosiddetti teisti sperimentali – dai newtoniani del XVIII secolo ai teologi che oggigiorno fanno coesistere rivelazione ed evoluzionismo darwiniano) e coloro che invece si sono impegnati a mostrare che le leggi morali naturali richiedono il ricorso a facoltà del tutto speciali, quali la coscienza o lo spirito (dagli agostiniani ai neo-platonici, così influenti presso papi fermi nel loro rifiuto delle scienze)? Come considerare continuativa e unitaria una tradizione che per identificare la legge morale naturale ricorre in epoche diverse a concetti fondamentali del tutto diversi? Fino al XVIII secolo, ad esempio, si sono poste al centro della moralità leggi fondamentali formulate in termini di doveri verso Dio, se stessi e gli altri. Successivamente, fino al XX secolo, invece, si è sempre più insistito sulla salvaguardia dei diritti umani individuali, la cui difesa era considerata una vera e propria negazione della moralità dai giusnaturalisti medievali e dei primi secoli dell’età moderna.
In mezzo a questa secolare e complessa discussione su quale sia il volere che Dio ci manifesta attraverso le leggi naturali sta il credente, il quale può trovarsi in una selva ancora più oscura di quella in cui si agiterebbe un laico o un miscredente. Le conseguenze che derivano da tali teorie possono a volte non illuminare – e talvolta osteggiare – le scelte cui la vita può chiamarlo, quelle in cui sono in gioco le proprie e le altrui condizioni.

1.4. Cosa comporta ridurre l’etica a un comando divino?

Ma ammettiamo che le questioni – per così dire – epistemologiche siano risolte e che vi sia effettivamente accordo su quali siano le leggi morali naturali volute da Dio. Vi sono ancora altre ragioni morali sostantive per cui non possiamo seguire coloro che connettono in questo modo l’etica con Dio. Essi, infatti, concepiscono l’etica in un modo distorto, assimilandola nella sostanza all’obbedienza a comandi e subordinandola alla conoscenza di realtà già presenti davanti a noi.
Derivare l’etica da Dio significa concepirla come un insieme di comandi emanati, appunto, da un’autorità, e ciò – in un certo senso – equivale a togliere valore etico alle norme morali. Perché questo non accada, è necessario distinguere le norme morali dalle norme che ricevono il loro valore da una qualche autorità: ad esempio, che sia negativa ogni forma di violenza nei confronti di esseri umani non dipende dal fatto che qualcuno ci comandi o ci ordini di non fare violenza a un qualsiasi essere umano, ma dalla natura etica e universale di una tale norma. Questa norma è etica proprio perché il suo valore è indipendente dal comando di questa o quella autorità, di questo o quel paese o luogo geografico, e perché è distinguibile dalle norme consuetudinarie di una comunità ristretta. La tesi che solo Dio può esserne il fondamento adeguato riduce il comportamento etico di un individuo alla pura obbedienza a un comando, mentre il suo vero fondamento risiede nel carattere autonomo della scelta di un individuo di evitare quelle condotte che producono danni o sofferenze agli altri suoi simili. Spostare l’attenzione al volere di Dio impedisce di prestare attenzione a quello che gli altri patiscono e subiscono, induce un’atrofia morale pericolosa e ostacola lo sviluppo di una effettiva sensibilità etica, spingendo ad attribuire una priorità a ciò che ci è stato decretato essere tale, anche se ormai corrotto e crudele. Chi arriva all’etica attraverso il comando divino finisce con il ridurre la moralità a qualcosa di simile alle regole di un’etichetta che valgono convenzionalmente tra i membri di una società o tra coloro che riconoscono la stessa autorità. Rimane loro estranea la natura universalistica degli obblighi morali che sono validi indipendentemente da ciò che qualcuno ci dice di fare.
Inoltre, ridurre l’etica a una faccenda di rispetto di qualche comando divino genera un atteggiamento di passività nell’orientamento della propria condotta futura. Come suggeriva Uberto Scarpelli (1924-1993), il credente è alla continua ricerca di un rampin...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima
  3. 1. Errori in cui cadono coloro che sostengono che Dio è necessario per l’etica
  4. 2. Come può essere costruita un’etica senza alcun riferimento a un Dio?
  5. Parte seconda. I testi
  6. Sulla critica delle prove dell’esistenza di Dio
  7. Sulla critica della rivelazione e dei monoteismi
  8. Sulla critica alla riduzione della moralità a comandi divini
  9. Sulla difficoltà nell’appello dell’etica religiosa alle leggi naturali e alla retta ragione
  10. Sulle difficoltà della religione nello spiegare l’origine del male
  11. Sul carattere morale del credente e le virtù dell’ateo
  12. Sull’etica senza Dio e l’autonomia, la sensibilità verso gli altri
  13. Sulla genealogia della religione e dell’idea di Dio
  14. Sulla continuità o discontinuità tra etica religiosa e non religiosa
  15. Bibliografia ragionata