Storia del nulla
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Storia del nulla

  1. 254 pagine
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Storia del nulla

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Da Parmenide a Heidegger, da Pascal a Leopardi e Sartre, dai tragici ai mistici ricostruire la storia del nulla significa svelare la dimensione tragica dell'essere al mondo.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101407

1. Il nulla, il male e la colpa

1. Dai presocratici ai tragici

Nell’orizzonte della filosofia presocratica è contraddittorio pensare sia il «nulla» sia il «male». E a maggior ragione la «colpa» – se colpa è il nesso che lega il nulla e il male, ossia se colpevole è l’atto che turbando l’ordine della giustizia precipita il soggetto nell’autodistruzione. Da questo punto di vista la tragedia appare non tanto (come ad esempio in Nietzsche, sulla base di un tentativo per altro abbandonato di ricostruire la «filosofia dell’età tragica») il riflesso estetico d’una speculazione che la precede, quanto l’irruzione di una novità dirompente anche per la coeva riflessione filosofica1. Ciò non toglie che il pensiero presocratico ne rappresenti il presupposto.
Citando un frammento eracliteo («Una volta nati desiderano vivere e avere il loro destino di morte – o piuttosto riposare – e lasciano figli, in modo che altri destini di morte si compiano»), Clemente Alessandrino scrive: «Eraclito sembra dunque considerare un male la nascita»2. Sembra. Non è una forzatura lasciar cadere l’accento su questo «sembra». E sottolineare nel compilatore una certa prudenza ermeneutica, se non anche una presa di distanza. Quasi volesse suggerire l’ipotesi secondo cui Eraclito introdurrebbe una nozione di fatto a lui estranea: per l’appunto, il male. Comunque sia, nel frammento in questione il nesso di male e morte appare fondato sulla colpa. Che la morte sia un male è un’evidenza prima e non ha bisogno di dimostrazione; ma di questa sventura gli uomini sono responsabili, non fosse che a causa della loro sciagurata irresponsabilità. La brama di vivere è tutt’uno con quella che porta ad abbracciare il proprio destino di morte, per la legge della convertibilità degli opposti, in base alla quale l’incessante tensione verso l’esistenza ricade inevitabilmente nel bisogno di riposo e di quiete. E gli uomini vogliono (ethélousi) questa vita che è gravida di morte – la vogliono al di là di se stessi, la vogliono nei loro figli, in una sorta di perversa inseminazione negli altri della logica contraddittoria che li divora. Dunque, si tratta di un oscuro e originario volere il male, volere il proprio male: e dove s’annida la colpa se non nella regione in cui la volontà e il desiderio concidono con la radice dell’essere, la radice della generazione, nel profondo, ben oltre l’affiorare alla coscienza di un’intenzione esplicita e dichiarata? Non per ciò tuttavia siamo autorizzati a ritenere che Eraclito, additando nella colpa che trascende l’intenzionalità il principio del­l’autodistruzione e quindi del móros, preluda o effettivamente introduca al tragico. Le riserve di Clemente Alessandrino (ammesso che siano veramente tali, ma la cosa qui è irrilevante) dovrebbero essere anche le nostre.
Non poca luce su questo punto viene da un confronto, inevitabile, col celebre frammento di Anassimandro. Che, di quello di Eraclito appena citato, rappresenta, almeno sul piano ideale se non di fatto, l’antecedente. «Principio degli esseri è l’infinito [...] da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»3. Katà to chreón, secondo necessità, dice Anassimandro: non solo gli uomini ma tutti gli esseri determinati espiano la loro condizione. Che è quella di essere così come sono e non altrimenti. La colpa, se di colpa si può parlare, è nel destino. Però mentre in Eraclito gli uomini (e gli esseri in generale) sono responsabili del loro destino, in Anassimandro assolutamente no. In Eraclito gli uomini sono responsabili del loro destino: infatti lo vogliono, come dimostra il loro abbandonarsi ad esso accettandolo e addirittura scegliendolo. Al contrario in Anassimandro il destino non può essere accettato e tantomeno scelto, perché è originariamente tutt’uno con il costituirsi dell’individualità e della determinatezza: la necessità governa sovrana questo processo. Eppure il destino produce un’ingiustizia che deve necessariamente essere espiata. La ragione è chiara: poiché il male, ossia la propria distruzione incombente, appartiene al fatto di essere generati, non è possibile porre rimedio alla frattura aperta in seno all’infinito da ogni esistenza particolare se non estinguendo ciascuno per gli altri il debito che è di tutti. Del resto, come ha osservato Aristotele a proposito di Anassimandro, «ogni cosa limitata trova il suo limite sempre rispetto a un’altra cosa, con la conseguenza che non ci sarà più limite se sempre una cosa deve essere limitata da un’altra»4, e questo significa che dal punto di vista della totalità delle reciproche limitazioni l’essere non è in credito con nessun ente e appare quello che è: illimitato e sottratto alla legge del tempo. Ciò non toglie che l’essere, come suggerisce Simplicio5 quando ricorda che secondo Anassimandro la nascita delle cose avviene «per distacco» dall’infinito e dal divino, subisca violenza. Originaria violenza del divenire che fa dell’esistente il portatore di un’ingiustiza da espiare.
Non così in Eraclito. Per il quale il divenire non è colpevole perché non implica né originazione né caduta dal divino (ciò che Anassimandro chiama anche l’«immortale» e l’«indistruttibile»)6. Semmai il divenire trae dalla colpa e dall’innocenza, come da tutti i discordi e come da tutte le cose l’uno e l’uno da tutte le cose, «bellissima armonia»7. Se non esistesse l’opposizione (di colpa e di innocenza, di male e di bene) i mortali non avrebbero neppure l’idea di Dike8. E Dike non è se non la misura del divenire, il ritmo del movimento che armonizza i contrasti, l’ordine in base al quale tutto accade. Anche secondo Eraclito, come secondo Anassimandro, tutto accade come deve: secondo necessità. Ma in Eraclito la necessità assume la figura della ragione e della lotta, essendo il logos il principio che tiene insieme gli opposti e ne articola la polarità in forma musicale, là dove in Anassimandro la ragione sembra invece arretrare e comunque produrre un’aporia non dominabile razionalmente e tantomeno esteticamente. Qui il divenire produce uno iato e un’asimmetria di fronte a cui la ragione tace, al punto che vien meno perfino la possibilità di formulare la domanda sul perché della catastrofe – la catastrofe che precipita nella dimensione della contingenza come nella dimensione dell’onnicolpevolezza. Là invece il divenire scandisce le opposizioni temperandole esattamente come in musica ed è la stessa ragione a prendere voce, a risuonare nel tumulto apparentemente disordinato del mondo. Tant’è vero che se qui del divino, dell’illimitato, dell’ápeiron, non si può dire nulla se non per negazione e quindi in definitiva tacendo, là invece ogni singola cosa è divinamente intonata e dice la propria origine, la propria appartenenza al gioco dei giochi, la propria capacità di rispecchiare nella contraddittoria dinamica interna che la costituisce il movimento cosmico. Non solo, ma se la separazione tra l’eterno e il tempo originata nell’eterno fa sì che la colpa debba essere fatta risalire alle immemoriali profondità dell’essere piuttosto che addebitata all’uomo (l’uomo ne è il portatore, come si porta una piaga congenita, non la causa prima), invece la loro identificazione scarica sull’uomo la responsabilità del male e della morte (è l’uomo a volere la vita che implica la morte).
Nietzsche per primo ha sottolineato in Anassimandro questo silente arretrare del logos di fronte alle sue stesse domande. «Quale è la causa di quell’incessante divenire e generare, di quell’espressione di smorfia dolorosa sul volto della natura, di quel lamento funebre senza fine, in tutti i campi dell’esistenza?»9. Anassimandro, osserva Nietzsche, cerca riparo nella metafisica: e se il mondo gli offre uno spettacolo di desolazione, indica in ciò che il mondo non è, o è al di là del mondo, la regione dell’unità originaria di tutte le cose, la regione «delittuosamente abbandonata». Delitto di chi? Di chi, non avendo nessun diritto di esistere, e quindi nessun valore, nessuna giustificazione, tuttavia esiste. Già, ma perché esiste chi non ha diritto di esistere? Come si vede, la questione trapassa dal piano etico al piano metafisico, e viceversa. Anassimandro, secondo Nietzsche, chiede in sostanza come sia possibile la pluralità a partire dall’eterna unità dell’essere e ricava la risposta «dal carattere contraddittorio, autodistruttivo e negatore di questa pluralità». Vale a dire: la pluralità c’è perché in realtà appartiene al non essere e ciascuno di noi esiste per negarsi in quanto esistente ed espiare con la morte il fatto di esistere. Ecco allora che una domanda anche più insidiosa si impone: se la morte espia la vita estinguendo con la vita la colpa di vivere, «perché tutto ciò che diviene non è già perito da gran tempo, dato che è già trascorso un tempo infinito?»10. Anassimandro in realtà non risponde a questa domanda, o risponde evasivamente, alludendo al fatto che sempre di nuovo la caduta dalla divina pienezza e indeterminatezza si riproduce essendo eternamente identiche le condizioni di questo rovinoso precipitare nel tempo. In realtà, conclude Nietzsche, «quanto più ci si voleva accostare al problema di come per una caduta il determinato possa sorgere dall’indeterminato, il temporaneo dal­l’eterno, l’ingiustizia dalla giustizia, tanto più fonda diventava la notte»11.
Eraclito secondo Nietzsche affronta il problema negandone decisamente il presupposto: che l’essere sia. Se l’essere non è, se l’essere non è che divenire il divenire è liberato dalla sua maledizione. Non perciò il divenire è restituito all’innocenza. Piuttosto esso appare come la figura che precomprende il movimento incessante ed eterno degli enti e di conseguenza in questa figura è l’immutabile a mostrarsi. Ossia la legge della figlia di Zeus, Dike. Se nel transitare di tutte le cose da sé all’altro da sé il mondo in realtà resta se stesso eternamente, nel cuore del semprenuovo pulsa l’identico, l’«ordine universale»: «Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dei o tra gli uomini, ma sempre era e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura»12. Nietzsche ne ricava due conseguenze fondamentali. La prima è che Eraclito, negando l’essere nel divenire, nega la contrapposizione anassimandrea delle due regioni, quella di quaggiù, dominata dal male di vivere, e quella di lassù, in cui risplende l’immortalità. E la seconda è che, dunque, immortale è la vita, immortale e in realtà inviolabile è la legge che la vita palesa, né il destino di morte cui soggiacciono i mortali è davvero un che di ultimo. L’espiazione è in funzione della rinascita. Così come il dolore e la sventura predispongono alla rigenerazione. Certo, una luce patibolare è gettata sull’esistenza dell’uomo. Ma ciò dipende dalla sua mente debole e incapace di riconoscere che la contraddizione «ri­vela la giustizia eterna». Il sapiente deve convertire l’orrore in stupore e ammirazione per questa cosmodicea in cui il logos è talmente identico a sé in tutte le sue manifestazioni da non dover dar ragione di se stesso e da apparire come un fanciullo che gioca con gli eoni. Tuttavia, chiede Nietzsche, è davvero questa la parola conclusiva di Eraclito? Che cosa imprime sul suo volto illuminato da un lampo orgoglioso una ruga di sofferenza e di impotenza? Non sarà il sospetto che il rovesciamento della maledizione nella benedizione sia l’atto più colpevole, sia hy´bris?
Se le cose stanno così, potremmo allora dire che anche Eraclito come Anassimandro, secondo Nietzsche, tace di fronte alle domande da lui sol...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Introduzione (in forma di dialogo fra l’autore e un ipotetico lettore)
  3. 1. Il nulla, il male e la colpa
  4. 2. La svolta mistica
  5. 3. «regio dissimilitudinis»
  6. 4. rappresentazione della fine e fine della rappresentazione
  7. 5. Romanticismo e nichilismo
  8. 6. Uno sguardo dal nulla
  9. 7. Excursus teologico-filosofico
  10. 8. Perché non il nulla?
  11. 9. Fra religione, poesia e tecnica