Le domande della vita
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Le domande della vita

  1. 268 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

«Un invito alla filosofia per qualunque profano che sia interessato a sapere qualcosa di questa venerabile tradizione intellettuale nata in Grecia. Non si tratta di sapere come se la cavava Socrate, nell'Atene di venticinque secoli fa, per vivere meglio, ma di come noi, contemporanei di Internet, dell'AIDS e delle carte di credito, possiamo utilizzare Socrate per comprendere e utilizzare al meglio la nostra esistenza». Fernando Savater

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101391
Argomento
Filosofia

1. La morte, per incominciare

Ricordo molto bene la prima volta che compresi veramente che prima o poi avrei dovuto morire. Dovevo avere circa dieci anni, forse nove, erano quasi le undici di una notte qualsiasi e mi trovavo nel mio letto. I miei due fratelli, che dormivano con me nella stessa stanza, russavano placidamente. Nella stanza attigua i miei genitori parlavano piano mentre si spogliavano; mia madre aveva acceso la radio che avrebbe lasciato suonare fino a tardi, per evitare i miei spaventi notturni. All’improvviso, mi sedetti sul letto, immerso nell’oscurità: anche io sarei morto! Era ciò che mi aspettava, ciò che irrimediabilmente toccava anche a me! Non c’era via d’uscita! Non solo avrei dovuto sopportare la morte delle mie due nonne e del mio amato nonno, nonché quella dei miei genitori, ma anche io, proprio io, non avrei potuto far altro che morire. Che cosa strana e terribile, minacciosa, incomprensibile, ma soprattutto che cosa irrimediabilmente personale!
A dieci anni si crede che tutte le cose importanti possano accadere solo agli adulti: all’improvviso ebbi la rivelazione della prima grande cosa importante – di fatto, la più importante di tutte – che, senza alcun dubbio, sarebbe successa a me. Sarei morto, anche se, certo, dopo molti, moltissimi anni, dopo la morte dei miei cari (tutti meno i miei fratelli, più piccoli di me e che, pertanto, mi sarebbero sopravvissuti), ma comunque anch’io sarei morto. Io sarei morto, sebbene fossi io. La morte non era più una faccenda altrui, un problema degli altri e nemmeno una legge generale che mi avrebbe riguardato quando fossi stato grande, cioè quando fossi stato un altro. Perché in quell’occasione mi resi conto anche del fatto che quando fosse giunta la mia morte sarei stato sempre io, la stessa persona che adesso prendeva coscienza di quell’evento ineluttabile. Dovevo essere io il protagonista della morte vera, la più autentica e la più importante, la morte di cui tutte le altre morti non sarebbero state che dolorose anticipazioni. La mia morte, quella del mio io! Non la morte dei «tu», per amati che fossero, bensì la morte dell’unico «io» che conoscevo personalmente! Ovvio che sarebbe accaduto dopo molto tempo, ma... in un certo senso, non mi stava già succedendo? Rendermi conto che sarei morto, io, anch’io, non faceva forse parte della morte, quella cosa tanto importante che, malgrado fossi ancora un bambino, stava succedendo, in quel momento, proprio a me e a nessun altro?
Sono certo che fu allora che finalmente incominciai a pensare. Vale a dire, quando compresi la differenza fra apprendere e ripetere pensieri altrui e avere un pensiero veramente mio, un pensiero che mi impegnasse personalmente, non un pensiero preso in affitto o in prestito come la bicicletta che ti danno per fare un giro. Un pensiero che si impossessava di me molto più di quanto io potessi impossessarmi di esso. Un pensiero che non potevo cavalcare e abbandonare a mio piacimento, un pensiero con cui non sapevo cosa fare, ma che senz’ombra di dubbio mi spronava a fare qualcosa, perché non era possibile ignorarlo. Sebbene allora mantenessi acriticamente le convinzioni religiose ereditate dalla pia educazione che avevo ricevuto, nemmeno per un momento le ritenni un sollievo alla certezza della morte. Uno o due anni prima avevo visto, per caso (e che caso!), il mio primo cadavere: un frate laico morto di recente, il cui corpo era stato esposto nel patio della chiesa dei gesuiti della calle Garibay di San Sebastián, dove andavo con la mia famiglia per la messa domenicale. Sembrava una statua azzurrina, come i Cristi deposti che avevo visto su alcuni altari, ma con la differenza che sapevo che prima era stato vivo e che adesso non lo era più. «È andato in cielo», mi disse mia madre, un po’ imbarazzata per quello spettacolo che indubbiamente mi avrebbe volentieri risparmiato. E io pensai: «Bene, sarà anche in cielo, ma è anche qui, morto. Ciò significa che di sicuro non è vivo da nessuna parte. Magari stare in cielo è meglio di essere vivi, ma non è la stessa cosa. Si vive in questo mondo, con un corpo che cammina e che parla, circondati da gente come noi, non da spiriti... per stupendi che siano gli spiriti. Anche gli spiriti sono morti, anche loro hanno dovuto subire la morte, orribile e sconosciuta, la subiscono ancora». E così, a partire dalla rivelazione della mia impensabile morte, incominciai a pensare.
Forse può sembrare strano che un libro che vuole essere un’introduzione ai problemi della filosofia si apra con un capitolo dedicato alla morte. Un tema così lugubre non scoraggerà i neofiti? Non sarebbe meglio iniziare parlando della libertà e dell’amore? Tuttavia, ho già detto che mi propongo di invitare i lettori alla filosofia partendo dalla mia personale esperienza intellettuale: nel mio caso, fu la rivelazione della certezza della morte – della mia morte – che mi spinse a pensare. L’evidenza della morte non ci rende solo pensierosi, ma fa di noi dei pensatori. Da un lato, la coscienza della fine ci fa maturare personalmente: da bambini, tutti ci crediamo immortali (da molto piccoli pensiamo perfino di essere onnipotenti e che il mondo giri intorno a noi; solo in quei paesi o in quelle famiglie atroci dove i bambini vivono da subito sotto la minaccia dello sterminio e della violenza, i loro occhi stupiscono per quell’espressione di stanchezza mortale, di anormale esperienza...), ma poi, quando l’idea della morte cresce dentro di noi, cresciamo con essa; dall’altro, la certezza personale della morte ci umanizza, vale a dire ci trasforma in veri esseri umani, in «mortali». Non a caso, i greci utilizzavano giustamente la stessa parola per dire «umano» e «mortale».
Le piante e gli animali non sono mortali perché non sanno che moriranno; non sanno che devono morire: muoiono senza mai essere coscienti del vincolo individuale che ognuno di essi ha con la morte. Le bestie avvertono il pericolo, si rattristano nella malattia o nella vecchiaia, ma ignorano (o sembrano ignorare?) il loro legame essenziale con la necessità della morte. Mortale non è la creatura che muore, bensì la creatura che sa con certezza che dovrà morire. Tuttavia, per lo stesso motivo potremmo dire che né le piante né gli animali sono vivi come lo siamo noi. I veri viventi siamo solo noi mortali, perché sappiamo che un giorno smetteremo di vivere e che la vita consiste proprio in questo. Taluni dicono che esistono gli dèi immortali e altri dicono che non esistono, tuttavia nessuno dice che sono vivi: solo Cristo è stato chiamato il «Dio vivente» e per questo dicono che s’incarnò, che si fece uomo, visse come noi e come noi dovette morire.
Pertanto, non è per capriccio né per essere originale a tutti i costi che incomincio un discorso sulla filosofia parlando della consapevolezza della morte. Né pretendo di affermare che il tema unico o principale della filosofia sia la morte. Al contrario, credo piuttosto che la filosofia riguardi la vita, che cosa significa vivere e come si può rendere la vita migliore. Tuttavia, è la previsione della morte l’elemento che, nel momento in cui ci rende mortali (cioè umani), ci trasforma anche in viventi. Si incomincia a pensare la vita quando ci si considera morti. Per dirlo con le parole che Socrate usa nel suo Fedone, filosofare è prepararsi a morire. Ma che altro può significare «prepararsi a morire» se non riflettere sulla vita umana (mortale) che viviamo? È proprio la certezza della morte ciò che fa della mia vita – la mia vita, unica e irripetibile – qualcosa di mortalmente importante per me. Tutti i compiti e gli impegni che ci prefiggiamo nella vita sono forme di resistenza alla morte, che sappiamo ineluttabile. La coscienza della morte è ciò che fa della vita una questione serissima per ciascuno di noi, qualcosa che deve essere pensato. Qualcosa di misterioso e tremendo, una specie di miracolo bellissimo che ci costringe a lottare, per il quale dobbiamo sforzarci e riflettere. Se la morte non esistesse, ci sarebbe molto da vedere e molto tempo per vederlo, ma ben poco da fare (quasi tutto quello che facciamo lo facciamo per evitare di morire) e niente su cui riflettere.
Da molte generazioni, gli apprendisti filosofi vengono iniziati al ragionamento logico con questo sillogismo:
Tutti gli uomini sono mortali;
Socrate è un uomo
dunque
Socrate è mortale.
È sempre interessante il fatto che il filosofo dia inizio alla sua riflessione ricordando il nome illustre di un collega condannato a morte, con un’argomentazione che certamente condanna a morte anche tutti noialtri. Perché è evidente che il sillogismo è ugualmente valido anche se al posto di «Socrate» mettiamo il tuo nome, lettore, o il mio, o quello di chiunque altro. Tuttavia, il suo significato va oltre la mera correttezza logica. Se diciamo:
Ogni A è B
C è A
dunque
C è B,
il ragionamento fila dal punto di vista formale, ma le implicazioni concrete della questione sono notevolmente cambiate. Non mi dispiace essere B, se sono A, ma mi inquieta oltre misura sapere che, essendo un uomo, dovrò necessariamente morire. Nel sillogismo citato per primo, inoltre, si stabilisce in maniera asciutta ma chiarissima il passaggio da una constatazione generica e impersonale – che a tutti gli esseri umani tocca morire – al destino individuale di chiunque sia un essere umano (Socrate, tu, io...), la qual cosa all’inizio sembra affascinante e senza conseguenze negative, ma poi si trasforma in una terribile condanna. Una condanna già compiuta nel caso di Socrate e ancora in attesa di compiersi per quel che ci riguarda. Non è irrilevante la differenza fra il sapere che a tutti dovrà succedere qualcosa di terribile e il sapere che dovrà accadere a me! L’acuirsi della mia inquietudine quando da un’affermazione di natura generica si passa a quella che reca il mio nome come soggetto mi rivela l’essenza unica e irriducibile della mia individualità, la sorpresa che mi costituisce come essere umano:
Morirono gli altri, ma ciò accadde nel passato
che è la stagione (nessuno lo ignora) più propizia
alla morte.
È possibile che io, suddito di Yaqub Almansur,
muoia come dovettero morire le rose e
Aristotele?1
Sono morti gli altri, sono morti tutti, ma... io? Anch’io? Si noti che la minaccia implicita sia nel suddetto sillogismo sia nei prodigiosi versi di Borges risiede nel fatto che i protagonisti individuali (Socrate, il moro medievale suddito di Yaqub Almansur o Almanzor, Aristotele...) sono già necessariamente morti. Anche loro dovettero interrogarsi sullo stesso inevitabile destino su cui anch’io, oggi, mi trovo a meditare: e non è che per averci riflettuto, abbiano potuto evitarlo...
Dunque la morte non è solo necessaria, ma è precisamente il prototipo della necessità della nostra vita (se il sillogismo incominciasse stabilendo che «tutti gli uomini mangiano, Socrate è un uomo, eccetera», sarebbe ugualmente giusto da un punto di vista fisiologico, ma non avrebbe la stessa forza di persuasione). Ebbene, a parte il fatto di sapere che è necessaria, al punto che costituisce il paradigma stesso della necessità («necessario» è etimologicamente ciò che non cessa, che non cede, ciò con cui non è possibile mediare e scendere a patti), che altro sappiamo della morte? Ben poche cose. Una è che essa è assolutamente personale e intrasferibile: nessuno può morire al posto di un altro. È impossibile che qualcuno possa evitare una volta per tutte, con la propria morte, il momento in cui, prima o poi, anche l’altro morirà. Padre Massimiliano Kolbe, che si offrì volontario in un campo di concentramento nazista per sostituire un ebreo che stavano portando alla camera a gas, poté sostituirlo solo davanti ai boia, ma non davanti alla morte. Con il suo eroico sacrificio gli concesse una vita più lunga, non l’immortalità. In una tragedia di Euripide, la docile Alcesti si offre per discendere nell’Ade – cioè morire – al posto di suo marito Admeto, un egoista veramente pericoloso. Alla fine sarà Ercole che scenderà a liberarla dal regno dei morti per riparare all’ingiustizia. Ma neppure l’abnegazione di Alcesti avrebbe potuto salvare Admeto dal suo destino mortale: avrebbe potuto solo rimandarlo perché il debito che ognuno di noi ha con la morte dovrà pagarlo con la propria vita e non con un’altra. Neppure altre funzioni biologiche essenziali, come mangiare e fare l’amore, sembrano altrettanto intrasferibili: dopo tutto, qualcun altro può mangiarsi la mia razione, sedendosi al mio posto alla tavola cui avrei dovuto sedermi io, o fare l’amore con la persona che anch’io avrei potuto o voluto amare. Potrei anche essere costretto a mangiare per forza o ad astenermi dal sesso per sempre. Invece, la morte, la mia morte o quella di un altro, reca sempre un nome e un cognome insostituibili. Per questo essa costituis...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Introduzione. Il perché della filosofia
  3. 1. La morte, per incominciare
  4. 2. Le verità della ragione
  5. 3. Dentro di me, fuori di me
  6. 4. L’animale simbolico
  7. 5. Universo e dintorni
  8. 6. La libertà in azione
  9. 7. Artificiali per natura
  10. 8. Vivere insieme
  11. 9. Il brivido della bellezza
  12. 10. Perduti nel tempo
  13. Epilogo. La vita senza un perché
  14. Commiato
  15. Protagonisti principali