"Non c'è alternativa"
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"Non c'è alternativa"

Falso!

  1. 128 pagine
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"Non c'è alternativa"

Falso!

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Sembra che il mantra del 'non c'è alternativa' sia destinato a dominare i nostri modi di pensare. Non c'è alternativa alle politiche di austerità, al giudizio dei mercati, alla resa al capitale finanziario globale, alla crescita delle ineguaglianze. Non c'è alternativa alla dissipazione dei nostri diritti e delle nostre opportunità di cittadinanza democratica. In nome di un realismo ipocrita, la dittatura del presente scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio dell'immaginazione politica e morale. L'esito è un impressionante aumento della sofferenza sociale. Abbiamo un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto dell'immaginazione politica e morale. Che non siano confinate allo spazio dei mezzi e chiamino in causa i nostri fini.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113141

1. La dittatura del presente: il catalogo è questo

Consideriamo ora, come redigendo una lista impressionistica, una gamma degli effetti della crisi. Effetti politici, economici, istituzionali, sociali. Ed effetti culturali, su cui mi soffermerò con maggiore ampiezza. Li chiamo per convenzione «effetti», anche se a volte non è facile distinguerli dalle «cause», in una sorta di interazione reciproca che è propria dei tempi di transizioni e di passaggi. Premetto che il mio catalogo è a tinte scure. Le tinte chiare le riprenderò più avanti, per gli esercizi di immaginazione politica. Quando ci addentreremo nei territori delineati e tratteggiati dal desiderio categorico e persistente, chiamato utopia situata e realistica, o arte dell’esplorazione di mondi sociali possibili.

1.1. Effetti politici

Il regime della democrazia rappresentativa, della democrazia costituzionale, è sottoposto a pressioni e distorsioni che ne alterano la natura essenziale, annunciando severe esperienze di perdita e dissipazione. Annunciando regresso. La crisi ci mostra con brutalità il fatto che i punti di non ritorno sono molto più rari di quanto pensiamo.
L’esercizio di autorità politica, legittimato dal consenso di coloro sulle cui vite ha effetti, in termini di diritti, capacità e benessere, è debole e vincolato dalla forza di poteri sociali e di istituzioni cui esso deve rispondere e cui deve rendere conto. I governanti non rispondono alla costituency della cittadinanza, né la loro accountability chiama in causa cittadini e cittadine. I governanti rispondono ad altri poteri. Rispondono, a volte o spesso e volentieri, a sovrani ignoti, come li ha chiamati Guido Rossi, e la gamma di provvedimenti e scelte pubbliche alternative è severamente ristretta. Più di un «senato virtuale», per dirla con Noam Chomsky, è in seduta permanente e delibera con alacrità costante e opaca. Le derive populistiche sono la risposta della comunità illusoria alla debolezza della politica democratica. Le trasformazioni della rappresentanza politica, che ha sempre più i tratti del mandato imperativo d’ancien régime, vanno insieme ai processi di personalizzazione della leadership e alla prevalenza degli interessi di larga parte del ceto politico sugli interessi e i bisogni di cittadinanza. Corruzione e collusione, sempre di moda.
La democrazia del pubblico, di cui ci ha parlato Bernard Manin, la postdemocrazia di cui ci ha parlato Colin Crouch, la democrazia in diretta di Nadia Urbinati, la democrazia come forma di vita sociale in comune e come regime e processo politico fra loro in conflitto di Pierre Rosanvallon, indicano da un lato la crescente debolezza degli esecutivi e la contrazione dell’agenda delle assemblee rappresentative e, dall’altro, il ritiro della fiducia, l’apatia, l’indifferenza e il cinismo o la rabbia e l’indignazione di ampie frazioni di popolazione entro i confini delle comunità politiche del demos democratico. La democrazia costituzionale, per come l’abbiamo conosciuta, è a rischio. Questo, come ci ha suggerito Jürgen Habermas, nella costellazione nazionale. Ma, ci dicono, non c’è alternativa.
Questo non possiamo accettarlo. Semplicemente perché noi abbiamo ragioni fondamentali contro lo spettro che ritorna e si aggira, dalle nostre parti, dell’ancien régime di una società castale e cetuale. Una società dominata dal privilegio di qualcuno e non dall’interesse di chiunque, caratterizzata da una crescente forbice delle diseguaglianze economiche e sociali e dal blocco della mobilità sociale, che erodono e rendono ipocrita la solenne promessa costituzionale della pari dignità delle persone, in quanto cittadine e cittadini, in quanto partner di eguale dignità della polis.
La pari dignità di cittadinanza è il semplice promemoria della isotimia, come ci hanno insegnato – fra gli altri – Giovanni Sartori nel suo classico Democrazia e definizioni e Ronald Dworkin nella sua teoria normativa che dell’eguale considerazione e rispetto dovuto a chiunque fa il pilastro fondamentale di una forma di vita democratica. Del resto, in un celebre discorso, che è alla remota origine dei modi di pensare e fare democrazia, il discorso di Pericle di cui ci narra il grande storico Tucidide nelle Guerre del Peloponneso, viene affermato il valore dell’eguale dignità e rispetto dovuto alle persone in quanto partner della polis. In greco si dice, appunto, isotimia. E vi sono almeno altri due valori fondamentali per schizzare la fisionomia di una convivenza democratica: l’isonomia, l’eguaglianza di fronte alla legge, e l’isegoria, l’eguale libertà di avere voce nello spazio pubblico, a proposito delle questioni pubbliche, le questioni che riguardano chiunque, e non qualcuno.
Ce lo ricorda, oltre a Giovanni Sartori nei suoi lavori sulla teoria democratica, John Dunn nel suo lungo e tortuoso viaggio nella storia della democrazia, Il mito degli eguali. Ce l’ha ricordato anni fa Norberto Bobbio, nel suo fortunato pamphlet su Destra e sinistra. Ralf Dahrendorf ha insistito sul fatto elementare secondo cui la generalizzazione dell’eguale dignità di cittadinanza è uno dei compiti mai adempiuti di una forma di vita democratica.
Le politiche dell’eguale rispetto, dipendenti dal riconoscimento dell’eguale importanza delle vite delle persone, come ci direbbe Amartya Sen, devono rispondere tanto ai funzionamenti delle persone, ai loro deficit, quanto alle capacità delle persone. Alle capacità delle persone di scegliere il loro progetto di vita, di scegliere chi essere. Le politiche dell’eguale rispetto mirano a ridurre le circostanze dell’umiliazione e della degradazione delle persone, le circostanze della coercizione arbitraria e tirannica, le circostanze dello sfruttamento e dell’uso di persone come arnesi, da parte di altre persone e in virtù dell’esercizio dispotico di poteri sociali. Le circostanze dell’umiliazione e della dignità ferita. Pensate alle circostanze che caratterizzano oggi il mondo e la sfera sociale dei lavori, in cui il potere sociale di persone su altre persone si avvale del ricatto, della precarietà, della vulnerabilità, dell’indebolimento delle tutele di diritti, quando non opera nell’assenza di qualsiasi tutela. Storie ordinarie di diritti in saldo. Storie inaccettabili. Storie di umiliazione, ancora una volta, che si intrecciano con la storia terribile del lavoro che non c’è.
Le politiche dell’eguale rispetto dipendono strettamente dall’ideale difficile e ineludibile dell’equa eguaglianza delle opportunità e delle capacità dei cittadini e delle cittadine di essere, per quanto possibile, padroni delle proprie vite, e non sudditi o schiavi di altre persone e di poteri arbitrari e dispotici. All’eguale rispetto non si addicono storie di cittadine e cittadini di differente rango e dignità. Né le storie castali. Né le narrazioni di ordinario e quotidiano dispotismo. Storie castali e narrazioni di ordinario dispotismo sono quelle cui sembra ci stiamo abituando, nella trappola della falsa necessità, mentre riecheggia continuamente nel nostro paesaggio mentale il mantra del «non c’è alternativa». Ma non è necessario abituarsi a false credenze.

1.2. Effetti economici

Il collasso vistoso del dogma centrale del neoliberismo – la capacità di autoregolazione dei mercati e, in particolare, dei mercati finanziari – ha innescato da tempo una spirale perversa in cui si intrecciano politiche keynesiane per i ricchi e politiche iper-liberiste per i poveri. Senza che abbia preso corpo incisivamente una manovra mirante a definire regole, incentivi e sanzioni efficaci per le scorribande speculative dei capitali finanziari in giro per il mondo o per imprese multinazionali a vocazione cosmopolitica, come aveva del resto previsto nella seconda metà dell’Ottocento il vecchio gigante della questione sociale, Karl Marx, sulla cui diagnosi tornerò più avanti.
In Europa, le politiche dell’austerità e del rigore attuariale hanno condannato alla damnatio memoriae il grande progetto alla Delors di uno spazio sociale europeo. Per non parlare degli ideali dei padri fondatori, della tessitura della «trama del futuro» affidata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi al Manifesto di Ventotene. L’Europa è figlia dell’economia, ma è orfana della politica, ci ha suggerito Jean-Paul Fitoussi. L’Europa dei diritti si è convertita nell’Europa dei mercati. Di equità non c’è traccia. La crescita resta per lo più un miraggio sociale, fra la drastica riduzione della domanda e la stretta creditizia e la contrazione della propensione all’investimento. Solo la finanziarizzazione ha ripreso o, a volte, ha semplicemente continuato la sua marcia trionfale, rendendo sempre più appropriata la vecchia battuta di John Maynard Keynes secondo cui, quando l’andamento di un’economia assomiglia a quello su un tavolo verde di una roulette, c’è qualcosa di marcio nel sistema. Il feticismo delle merci, in cui si rendono opachi allo sguardo lo sfruttamento capitalistico e l’estrazione di plusvalore, trascolora nel grande casinò nel più metafisico e spettrale feticismo del denaro. Del denaro che genera più denaro. Produzione di denaro a mezzo di denaro, e di algoritmi. Questa è la morale della storia, dalle nostre parti.
Jean-Paul Fitoussi ci dice nell’incipit del suo Il teorema del lampione – una ricostruzione innovativa della lunga genesi della grande crisi e un’esplorazione eterodossa delle alternative: «Viviamo in tempi irragionevoli, nei quali la più grande miseria vive accanto alla più grande ricchezza e ciascun Paese è un modello in scala del mondo, diviso in diversi livelli di povertà». Una storia di enorme aumento della sofferenza sociale per vite di scarto. Ma, ci dicono, non c’è alternativa. I devoti della falsa necessità ci assicurano che c’è luce in fondo al tunnel. Non può non esserci, naturalmente. Ed è proprio per questo che non c’è alternativa, stupido!

1.3. Effetti istituzionali

L’indebolimento dell’autorità politica ha messo a soqquadro il difficile, instabile e prezioso equilibrio fra istituzioni, responsabilità e poteri. La dilatazione dell’intervento del potere giudiziario risponde, non solo da noi, a questa geografia mutata dei poteri, e il teorema Montesquieu è stato mandato al macero. Alle trasformazioni della democrazia connesse all’esercizio di potere giudiziario ha dedicato un’analisi penetrante Alessandro Pizzorno nel suo Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù. Ma allo stesso modo, non dimentichiamolo, è stato violato il teorema Cesare Beccaria. Mattoni di civiltà ormai sbrecciati. Le istituzioni sembrano perdere progressivamente il loro capitale di lealtà civile e di legittimazione. Ma, ci dicono, non c’è alternativa.
In realtà, sembra che le istituzioni siano sottoposte a una duplice e paradossale trasformazione. Per un verso, cresce nei confronti delle istituzioni la grande revoca di fiducia, il cemento della società. Per altro verso, si genera ciclicamente la domanda di una loro rieticizzazione, che immunizzi frazioni di popolazione rispetto ai molti volti della diversità, percepita come rischio e perdita e dissoluzione di illusorie comunità etiche omogenee. Così, agli imprenditori politici della paura si affiancano vogliosi gli imprenditori politici della sfiducia. Né si vedono all’orizzonte imprenditori politici della speranza, ai tempi della dittatura del presente. Ai «tempi feroci», come li ha chiamati Salvatore Settis nel suo Azione popolare, di scippo della sovranità di cittadinanza.
Sullo sfondo, la crescente varietà delle fonti di potere normativo, l’oligopolio, quando non il mercato, della produzione di ordinamenti positivi, dal diritto della costellazione nazionale a quello sovranazionale, sino alla lex mercatoria. Sullo sfondo, si delineano i tratti inediti di uno spazio giuridico globale. Uno spazio che, come ha osservato Sabino Cassese nel suo magistrale saggio Chi governa il mondo?, «non è ordinato gerarchicamente, né su più livelli: esso è ‘marmorizzato’, perché la sfera globale, quella transnazionale, quella sovranazionale e quella nazionale sono tutte mescolate fra loro. [...] i diversi regimi regolatori globali sono autonomi, chiusi, con conseguente frammentazione del diritto internazionale. Tuttavia, essi creano interconnessioni e collegamenti: tutti insieme, costituiscono un enorme conglomerato di ordini giuridici interdipendenti. Questa interconnessione è stata chiamata regime complex, ossia ‘un insieme di regimi che si sovrappongono e che non sono ordinati gerarchicamente’». Uno spazio intricato ed eterogeneo, in cui solo chi coltivi il senso della possibilità può decifrare le opportunità, senza perdersi nei meandri del labirinto in cui – tendiamo sistematicamente a dimenticarlo – da qualche parte c’è sempre un qualche Minotauro. Cerchiamo allora di vederci più chiaro, per acchiappare da qualche altra parte il filo di Arianna.

1.4. Effetti sociali

Il vertiginoso aumento delle ineguaglianze di condizioni economiche e di status sociale, che da più di vent’anni contraddistingue la trasformazione della pelle delle nostre società, ha generato una sorta di ancien régime postmoderno. Luciano Gallino ha messo a fuoco in modo esemplare la duplice natura delle ineguaglianze crescenti come causa ed effetto, al tempo stesso, della grande crisi innescata dalla finanziarizzazione dell’economia capitalistica in un limpido saggio, Globalizzazione e disuguaglianze, che è il vero e proprio terminus a quo della sua appassionata e occhiuta ricerca sul finanzcapitalismo e sulla democrazia sotto attacco. Noi siamo il 99%, ci hanno ricordato le donne e gli uomini di Occupy Wall Street. E i fuochi di indignazione, che ciclicamente ardono qua e là per il mondo – inverno arabo, primavera europea, autunno americano, come si diceva qualche tempo fa – si accendono quando la percezione delle ineguaglianze è patente nelle volte di crisi, e i costi sociali e morali si scaricano su ampie frazioni di popolazione senza voce e senza più diritti. O senza ancora diritti.
Per questo, ogni volta che le ondate contestative si infrangono e l’ordine torna duramente a regnare nelle piazze e gli equilibri di potere sfidati si ricostituiscono, si avverte come una sensazione di spreco e dissipazione di una ricchezza umana possibile. Si avverte, ai tempi dell’ancien régime che ci è contemporaneo, lo scippo di speranza per le persone. Ed è per questo che l’ombra del futuro si contrae, sui territori sconfinati della dittatura del presente.
L’espressione ancien régime è appropriata, e non è un semplice slogan emotivo. Uno degli effetti sociali più vistosi e dirompenti delle ineguaglianze è il fatto radicale dell’ingiustizia: nessuno sceglie di nascere, da una parte o dall’altra, in una famiglia o in nessuna famiglia, in un sesso o in un altro, con un colore della pelle piuttosto che un alt...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. La dittatura del presente: il catalogo è questo
  3. 2. Il senso del passato
  4. 3. Nello spazio dei fini
  5. Riferimenti bibliografici