L'Italia delle sconfitte
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L'Italia delle sconfitte

Da Custoza alla ritirata di Russia

  1. 318 pagine
  2. Italian
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L'Italia delle sconfitte

Da Custoza alla ritirata di Russia

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A Custoza si perde una battaglia già vinta perché La Marmora e Cialdini conducono una guerra privata. A Lissa l'inesperto ammiraglio Persano e i suoi vice neppure si parlano, e i sogni di gloria vanno a picco assieme alle navi e ai marinai. A Caporetto Badoglio, pur sapendo che gli austro-tedeschi stanno per attaccare, se ne va a dormire. L'attacco alla Grecia soddisfa solo le manie di grandezza di Ciano e Mussolini e si incanala subito verso un clamoroso disastro che fa sogghignare mezza Europa. Una tragedia che è la prova generale della campagna di Russia...

Ma le sconfitte non hanno pesato solo sul piano militare. Spesso sono state l'occasione per scatenare psicodrammi assurdi o ancora più ridicole cacce a capri espiatori, rivelando tutta la fragilità della nostra identità nazionale, oppure hanno prodotto una presa di coscienza e uno scatto di orgoglio che ha mutato, in meglio, la storia successiva.Custoza, Adua, Caporetto, sino alla disfatta greca e alla campagna di Russia: cinque battaglie e cinque sconfitte storiche che hanno contribuito a 'formare' l'Italia.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858133460
Argomento
Storia

Mal d’Africa
Adua, 1° marzo 1896

La guerra è una cosa troppo seria
per lasciarla fare ai generali.
Georges Clemenceau
Parata e risposta: Touché! Stoccata da manuale a segno un attimo dopo il clangore delle lame. La camicia bianca di uno dei nobili duellanti si arrossa al ritrarsi della punta della spada penetrata nella parte destra dell’addome. La ferita, non grave, basta e avanza per porre fine alla tenzone al primo sangue fra il conte di Torino Vittorio Emanuele di Savoia Aosta ed Enrico di Borbone d’Orléans al Bois de Maréchaux, a Vaucresson, località a pochissimi chilometri da Parigi. È l’alba del 5 agosto 1897. I quattro padrini compiono le ultime formalità di rito mentre i contendenti, come raccontano le cronache, si stringono cavallerescamente la mano. Il guanto di sfida era stato lanciato per lavare l’onore d’Italia macchiato da un articolo denigratorio apparso su «Le Figaro» e firmato proprio dal nobile viveur francese, che aveva irriso le qualità militari degli italiani nella campagna d’Africa.
In realtà l’onore era stato sporcato, in maniera irreversibile, dall’inettitudine politica e militare dell’Italietta del capo del governo Francesco Crispi e del generale e governatore dell’Eritrea Oreste Baratieri. Nella conca di Adua1, il 1° marzo 1896, di sangue ne era stato versato più che in tutte le guerre di indipendenza messe insieme. Sangue di soldati e ufficiali italiani che si erano battuti bene ma in una situazione disperata nella quale erano stati cacciati dai loro capi incompetenti. Un disastro che non aveva precedenti, uno schiaffo bruciante alle velleità del Paese fresco di una sofferta e incerta unificazione, che smaniava per essere considerato quel che non era: una potenza. La sconfitta di Adua a opera degli abissini di Menelik II era costata migliaia di vite di italiani mandati allo sbaraglio in Africa a conquistare quel «posto al sole» di cui ben pochi in patria avvertivano la necessità, e aveva messo a nudo inefficienze, incapacità, fragilità e inconsistenza della classe dirigente di una nazione troppo giovane e troppo poco coesa. Nelle mani degli abissini, che avevano fatto strame dell’esercito di Baratieri, era rimasto più di un migliaio di prigionieri.
L’Orléans, invitato alla corte di Menelik II per una partita di caccia, vi aveva incontrato gli ufficiali italiani che, trattati come ospiti di riguardo, avevano partecipato a un pranzo durante il quale il negus e l’imperatrice Taitù avevano brindato alla vittoria di Adua. E aveva scritto su «Le Figaro» che al brindisi aveva partecipato anche il generale Matteo Francesco Albertone, il quale avrebbe spiegato in tre sole parole allo sbigottito principe francese perché levava in alto quel calice che sottolineava una dolorosa tragedia nazionale: «È pura cortesia». Lui era uno dei protagonisti della disfatta. L’articolo apparso il 3 luglio 1897 su «Le Figaro» aveva sollevato un vespaio in Italia e battute acri all’estero, perché gettava sale nella ferita profonda e purulenta della tragedia di Adua e di una storia militare fin allora ben poco esaltante. Al Piemonte non era sufficiente considerarsi con autocompiacimento «Piccola Prussia» e non era bastato plasmare se stesso sugli Stati e gli staterelli preunitari per assurgere a potenza europea.
Nell’avventura in terra africana, dieci anni prima, il 26 gennaio 1887, una formazione di soldati italiani, di ascari e di irregolari aggregati, 500 uomini agli ordini del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, era stata massacrata dai guerrieri di ras Alula in un agguato presso il colle di Dogali, mentre portava approvvigionamenti alla guarnigione del forte di Saati. Solo i feriti creduti morti erano scampati al bagno di sangue. Erano rimasti sul campo 423 soldati e 22 ufficiali che avevano fronteggiato circa 7.000 abissini.
Le guerre coloniali avevano fatto registrare dolorose sconfitte anche per gli orgogliosi eserciti delle potenze d’Europa, ma mai un arresto della politica di espansione, che per l’Italia era partita assai in ritardo: dal Mar Rosso, con l’acquisto della baia di Assab dalla Società di navigazione Raffaele Rubattino. Poi era stato l’Impero britannico a sollecitare al giovane Regno d’Italia l’occupazione di Massaua, facendone sgomberare la debole guarnigione egiziana e andando così a costituire un eventuale argine alla penetrazione dei dervisci del Mahdi, contro i quali Londra era militarmente impegnata, con qualche grattacapo di troppo. Il premier William Ewart Gladstone si era affidato agli italiani solo per tenere alla larga la rivale Francia e l’emergente Germania del Kaiser Guglielmo I. Di conseguenza il 5 febbraio 1885 era avvenuto lo sbarco di un migliaio di bersaglieri (un battaglione che costituiva il Corpo Speciale per l’Africa) agli ordini del tenente colonnello Tancredi Saletta, dando così il via alla costituzione di una piccola colonia che era stata chiamata Eritrea solo il 1° gennaio 1890, dopo non poche indecisioni sul nome. A distanza, ma non troppo, la Gran Bretagna teneva la situazione sotto controllo politico, nonostante gli italiani interpretassero quella sorta di mandato nel senso di un’impresa coloniale, invece che commercial-militare. Quel che interessava all’Impero britannico era che i dervisci erano stati fermati dagli italiani con quattro scontri vittoriosi ad Agordàt (due volte, il 27 giugno 1890 e il 21 dicembre 1893), a Serobèti (26 giugno 1892) e a Cassala (17 luglio 1894), conquistata per volere di Baratieri e contro il parere dello Stato maggiore e del ministro della Guerra2.
Ma proprio il tentativo di espansione in direzione dell’Abissinia avrebbe portato al disastro di Adua, il cui peso politico era ricaduto di schianto sulle fragili spalle dell’Italia unitaria. Sull’Orléans invece, che aveva avuto parole sprezzanti e irridenti nei confronti dell’Italia sconfitta e umiliata ad Adua, si riversarono i guanti di sfida di italiani che volevano vendicare l’affronto, tra i quali quello del generale Albertone, rilasciato dalla prigionia dopo il pagamento di un riscatto per tutti i militari, che era stato spacciato vergognosamente come «indennità per il mantenimento»: dieci milioni di lire dell’epoca erano state un’enormità per riavere quegli uomini. Ma quando era stato un Savoia a chiedere di battersi per l’onore nazionale3, con una lettera scritta al rivale tre giorni dopo l’uscita dell’articolo su «Le Figaro», tutti gli altri sfidanti avevano dovuto fare un passo indietro. In verità l’avrebbe fatto ben volentieri anche l’Orléans, tutt’altro che entusiasta all’idea di battersi con uno spadaccino di rango4. Ma dopo un lungo tergiversare aveva dovuto mettere mano alla spada. Dopo 26 minuti e i preventivati 5 assalti5, era finita come doveva finire: con qualche goccia di sangue nobile che dava soddisfazione all’orgoglio ferito dell’Italia6. Riparazione cavalleresca, ma magra consolazione. Se i resoconti di Enrico di Orléans avevano il sapore della calunnia, le dinamiche del disastro di Adua erano ancora più imbarazzanti7.
La battaglia che segnava la più bruciante sconfitta di una nazione occidentale in una campagna coloniale arrivava da non molto lontano. L’Etiopia era l’unica nazione africana, oltre la Liberia, rimasta indipendente ed estranea alla spartizione tra le potenze europee. Gli italiani probabilmente si sarebbero dovuti chiedere, in via preventiva, come mai gli appetiti coloniali di britannici e francesi non si fossero indirizzati verso quell’impero: non era certo per rispetto verso una storia bimillenaria. Ma quel territorio restava sul piatto del banchetto coloniale, e Francesco Crispi tentò di assicurarselo, per puro prestigio internazionale e per vendicarsi dello «schiaffo» tirato nel 1881 dalla Francia con l’occupazione della Tunisia, su cui l’Italia aveva posato gli occhi ritenendo – chissà perché – che le spettasse.
Alla morte del negus Giovanni IV, al potere ai tempi del massacro di Dogali, mirava alla successione sul trono del Leone di Giuda il ras dello Shoa, Menelik, in concorrenza con gli altri ras Alula e Mangascià. Menelik non era affatto restio a un’entente cordiale con Roma, e quindi favorire la sua ascesa al potere a scapito degli altri due apparve in linea con i progetti italiani sull’Africa Orientale. Il conte Pietro Antonelli si era adoperato a sostenere l’ambizioso ras nella rivendicazione del trono imperiale, aiutandolo sia con l’appoggio politico, che valeva fino a un certo punto, sia soprattutto con la fornitura di armi e di danaro (un prestito di 4 milioni di lire, al tasso agevolato del 6%) che doveva concretamente assicurargli la forza per ottenere il predominio sui rivali. La finalità della diplomazia italiana era quella di trasformare l’Etiopia in un protettorato, con profferte di amicizia e di alleanza che celavano il controllo di fatto sull’impero8.
Il disegno pareva concretarsi quando Menelik, non ancora negus, sottoscrisse il 2 maggio 1889 il trattato di Uccialli9. Sembrava lo strumento diplomatico perfetto per mettere a segno il colpo politico. Solo che un articolo, il numero 17, recava due versioni discordanti, per motivi agevolmente intuibili: in lingua italiana recitava che «Sua Maestà il re d’Etiopia consente di servirsi del governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni d’affari che avesse con altre potenze o governi», mentre nel testo in amarico «Sua Maestà il re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto di Sua Maestà il Re d’Italia». Il negus non consentiva: poteva, ma solo se lo voleva. E Menelik, diventato nel frattempo negus, non aveva alcuna intenzione di «consentire» che il Re d’Italia agisse in politica estera in suo nome e per conto. Inoltre, il trattato aggiuntivo sulle frontiere definitive tra Eritrea e Abissinia non era stato affatto sottoscritto. Il protettorato, quindi, per gli etiopici semplicemente non esisteva.
Nel 1893 il trattato di Uccialli veniva denunciato da Menelik II10, che nel frattempo aveva cominciato a modernizzare l’esercito acquistando fucili dalla Russia (che parteggiava apertamente per l’Etiopia) e dalla Francia (in aspra rivalità con l’Italia), aveva messo in cassa i cospicui fondi forniti dall’Italia in base al trattato stesso, e negli arsenali armi e munizioni, perché l’Etiopia non ne produceva. In caso di conflitto, il suo numeroso esercito di guerrieri a piedi, tradizionalmente armati di scudi, sciabole e lance, non ci sarebbe arrivato impreparato. Era invece impreparata l’Italia. A partire dal comandante del Regio Corpo truppe coloniali d’Africa. Oreste Baratieri proveniva dalle fila garibaldine. Nato nel Tirolo austriaco, terra irredenta, aveva italianizzato in due riprese il suo cognome originario, Baratter. Non aveva frequentato le accademie militari né effettuato studi militari, ma era restato fedele alla strategia di essere sempre contiguo al potere, soprattutto perché detenuto da politici come Crispi, Giuseppe Zanardelli e Giovanni Nicotera, che avevano condiviso con lui l’esperienza esaltante dell’epoca di Garibaldi. Era più bravo con la penna da giornalista che con la spada da generale, ma aveva saputo far carriera anche con l’uniforme gallonata e medagliata, coltivando le amicizie...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Perdere vincendo, vincere perdendo Custoza, 24 giugno 1866 - Lissa, 20 luglio 1866
  3. Mal d’Africa Adua, 1° marzo 1896
  4. Ordine, contrordine, disordine Caporetto, 24 ottobre 1917
  5. Divergenze parallele Attacco alla Grecia, 28 ottobre 1940
  6. Povero Ivan, poveri italiani Campagna di Russia, 1941-1943