"Una parola ha detto Dio, due ne ho udite"
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"Una parola ha detto Dio, due ne ho udite"

Lo splendore delle verità

  1. 92 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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"Una parola ha detto Dio, due ne ho udite"

Lo splendore delle verità

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Tutto tende all'Uno: una è la radice culturale e politica dell'Europa, una la via per governare e sanare l'economia, una per costruire l'Unione europea. Da tempo si è smesso di contare oltre l'Uno. Eppure di pensare anche il due se non il tre ce ne sarebbe un bisogno grande. Se nel formulare un'opinione non vengo confrontato con forti obiezioni, sarò contento. Se sono un politico, avrò addirittura l'impressione che si sarà creata una sorta di pace. La pace dell'Uno non è tuttavia pace. È stasi. La verità, lasciata sola con se stessa, non splende più forte. Al contrario: si spegne.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102381

II. Dio non è il nostro doppio: uscire dalla teodicea contro i valori supremi

Le chiffre a deux sens
Pascal, Pensieri
Und seine Sinne waren wie entzweit
[E i suoi sensi erano come in due divisi]
Rilke, Orfeo-Euridice-Ermete
Chi crede non s’imbatterà mai in un miracolo. Di giorno non si vedono stelle
Kafka, Gli otto quaderni in ottavo
Lo Spirito soffia dove vuole
Vangelo secondo Giovanni 3,8
L’uomo può avere diversi atteggiamenti di fronte al volto inatteso che d’un tratto incrocia il suo sguardo. Può rispondere respingendolo o accogliendolo. Può fargli giustizia o ingiustizia. Può costruire con l’Altro un Noi, oppure infliggergli violenza. Il teologo Emmanuel Lévinas ha detto cose decisive in proposito. Sempre, tuttavia, c’è un elemento sacro in quel volto: qualcosa di irriducibile che non mi appartiene, che non posso accorpare, che mi fa uscire da me stesso. L’Altro risveglia quello che da soli – guardandoci allo specchio – difficilmente apprenderemmo. Da soli sperimentiamo la libertà, inclusa la libertà del tiranno. Davanti al volto dell’Altro (e in particolare a quello del Terzo che s’intromette fra l’Io e il Tu, chiedendo giustizia) conosciamo per la prima volta la responsabilità e il disinteresse, le parole dette per essere ascoltate e le istituzioni (il governo, le leggi, i tribunali) che permettono ai mortali di convivere senza annientarsi l’un l’altro. Che permettono non la libertà del tiranno, ma dal tiranno. Dall’essere passiamo all’esistere, che letteralmente è uno stare-fuori: all’aperto.

L’incontro con Dio, il diverso assoluto

La prima cosa che l’uomo prova, quando conosce il dolore o quando è sulla via della morte – cioè praticamente sempre –, è l’impenetrabile diversità di Dio. L’uomo può anche non dare il nome di Dio all’alterità radicale che gli si accampa davanti: il male che sperimentiamo ci sospinge comunque in alto mare, alle prese con i suoi mostri e Leviatani. Con potenze che vengono da un profondo cui non siamo preparati, ma che possiamo provare a decifrare e che ci tocca decifrare. Pensare l’impensabile è cosa scabrosa, perché non siamo noi a pensarlo per primi ma è l’impensato che si impone al pensiero e lo guida: è un po’ quel che accade col miracolo, che si materializza solo agli occhi di chi non crede e, pur avendo dentro di sé, forse, una porta dischiusa all’invisibile, non si aspetta nulla che conosca.
Di questo mare, di questi Leviatani, noi diventiamo prede senza capire la loro genesi, la loro forza, il perché della prova. È l’ora in cui Dio, o l’oltre-umano, non appare né giusto, né buono, né onnipotente. Non ascolta, non proferisce verbo. Anche se pervade le nostre esistenze, anche se è «più vicino a noi della nostra vena giugulare», come nella cinquantesima sura del Corano, anche se si è incarnato, il suo agire è puro mistero. Non è separazione quella che sperimentiamo, poiché per separarsi occorre essere stati un’unione. Non è un fossato, perché ogni fossato presuppone l’esistenza di due sponde che si guatano e sono come stupite di vivere l’una di fronte all’altra, disgiunte. Non è neppure uno spazio di frontiera, dentro il quale le diversità s’intrecciano incessantemente.
La frontiera più che una riga è una banda elastica, un regno dell’ibrido, dove può anche avvenire che il sacro si stringa al profano, che l’estraneo diventi domestico, nonostante il persistere fisico di linee di confine mutevoli ma non cancellate. Lo chiamano no man’s land, ma è spazio d’un terzo tipo, con persone d’un terzo tipo: mutanti. Rompere le linee divisorie è un allenamento alla complessità, scrive Piero Zanini: «rompere i ‘confini’ non implica necessariamente la cancellazione delle ‘frontiere’. Significa infrangere, sfrangiare il più possibile il confine, il limite che esso stabilisce, per trasformarlo in un margine sempre più ampio, dove dare un luogo alle differenze. Abitare la soglia vorrebbe dire, allora, abitare e costruire questo terzo luogo il cui centro passa al suo interno e dentro di noi per diventare noi stessi uomini di confine»1. La frontiera e l’ibrido sono un primo addestramento alla soglia, ma i Leviatani da andare a conoscere ce la rivelano con ancor più crudezza, proprio perché l’oltrepassano immensamente.
La resa dei conti con Dio è l’esempio primordiale della nostra vocazione a esporci all’estraneità suprema, e addirittura a suscitarla: estraneità che pesa sull’uomo e lo chiama, ma pesa anche su Dio, se è vero che anch’egli ci cerca, quasi che senza di noi non giungesse a giustificare se stesso. Estraneità con cui l’uomo cerca una convivenza, imparando per necessità e virtù a darle un ordine, a far crescere su di essa la pacifica convivenza civica e anche l’amicizia. L’incontro con Dio fonda il nostro rapporto con la diversità: ne è la matrice. Nel dialogo con lui perdiamo l’illusione dell’Uno primordiale, ritroviamo il Due, il Tre, il Quattro: l’arte del numerare può cominciare, e numerando già distinguiamo e ragioniamo. Già ci accingiamo ad abitare poeticamente la soglia2.
Si può arrivare alla sapienza di questa differenziazione in vari modi, con la religione o il libero pensiero, ma il punto d’arrivo è sempre quello: la Entzweiung, come dice la bella parola tedesca, la divisione in due dell’essere. Non è una caduta dall’uno nel molteplice, se non per chi vive, sedentario, nell’inganno dell’Uno. La condizione dello strappo, della Entzweiung, è inaugurale: tutte le vie partono di qui, compresa la strada che viene percorsa con il proposito di mettere d’accordo gli uomini, le nazioni, il mondo. Ci si unisce perché in partenza si è divisi, ed eventualmente anche in guerra: uomo contro uomo, uomo contro i suoi demoni, uomo contro Dio. Non si parte come un blocco compatto per poi sgretolarsi né, ritrovandosi ignominiosamente sgretolati, si ricostruisce una presunta età dorata dell’unanimità. Tutto, la storia e l’esistenza di ciascuno, è sin dall’inizio strappo, nomadismo dal molteplice all’Uno e viceversa. La parola inglese che traduce Entzweiung è diremption, vocabolo non più molto usato ma illuminante, perché rimanda all’atto che dirime, scompone, e dirimendo scioglie le contese. La divisione in due è al tempo stesso causa prima, farmaco e antidoto. È fondatrice di quel che più qualifica l’uomo: la sua difficile libertà.

Il peccato di Giobbe: non temeva «per nulla»

È un sapere – quello della divisione in due – che si apprende nella sofferenza, come un distillato ottenuto attraverso forte pressione, forte pigiatura. Più propriamente, è appreso nella sofferenza del giusto, di Giobbe pigiato da Dio, perché il Giusto del poema biblico non patisce solo il flagello della lebbra o l’esclusione dalla comunità umana. Patisce la natura iniqua del male che lo colpisce, la palese irragionevolezza di questo speciale soffrire e morire «per nulla». Soffre l’impossibilità di spiegarsi con Dio attorno a tale irragionevolezza, perché l’irragionevolezza rende Dio inesistente per l’uomo, ma rende anche l’uomo inesistente e del tutto vacuo per Dio. Traversiamo la notte senza di Lui, ma anche Lui ci cercherà a tastoni, brancolando nel buio e nel caos, senza trovarci: «Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!»3.
Anche Dio è ossessionato dalla morte dell’uomo, così come l’uomo è ossessionato dalla morte di Dio. È quello che Giobbe grida all’Altissimo, e ai quattro amici che pretendendo di assisterlo vorrebbero proteggere il Creatore da interpretazioni perturbanti, riaffermare la certezza di una divina anche se lenta retribuzione, dare un senso non tanto al male quanto a Dio e alla sua ruvida creazione.
La sventura immane che l’abbatte, Giobbe non l’ha meritata, essendo stato fin dalla nascita uomo integro, buono, timoroso di Dio: anche se ha peccato, non ha peccato al punto da cadere in tanta miseria. La guerra che gli viene scatenata è asimmetrica, assurda. E il Dio che la scatena, per il fatto stesso di ricorrere ad armi di distruzione sproporzionate, rischia molta parte di sé: rischia di perdere legittimità se non legalità, e di fallire l’obiettivo che si era proposto, sempre che l’avesse chiaro in mente. La sua ha tutta l’aria di essere una guerra per cambiare l’uomo (oggi si direbbe: una guerra per cambiare regimi, piegarli alla propria idea del mondo) – non per migliorarlo e farlo vivere accanto all’avverso, al diverso, anche all’illogico. Tutto questo pensa Giobbe, e lo dice: non c’è giustizia in cielo, e se questa è giustizia c’è dell’assurdo nel cielo. Il dilemma in cui Giobbe si trova inviluppato si dipana piano piano, ed è crudele: o mi piego e accetto l’incriminazione divina (che non conosco), dunque resto impigliato in un groviglio processuale insensato e perdo anche giuridicamente il mio corpo (perdo l’habeas corpus che l’uomo perfezionerà più tardi, nel XIII secolo, ed è il diritto a conoscere la propria incriminazione), e in tal caso Dio ha un senso ma si dimostra despota cieco, spaventato dall’infinita malvagità dell’uomo; oppure esercito la mia intangibile libertà, chiedo che l’autorità renda conto e incrimini secondo criteri che sono anche i miei, anzi sono interamente miei, ma in tal caso Dio fallisce, perde la sua sovranità assoluta, perde addirittura se stesso fino al punto di dissolversi nella non esistenza.
È quel che temono gli amici consolatori di Giobbe, e il panico che li prende li induce a ergersi ad avvocati e garanti del Creatore, ignorando il dilemma di Giobbe per non doverlo veramente confutare. Dio «non rigetta l’uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori. Diffonderà di nuovo sulla tua bocca il sorriso», assicura Bildad il Suchita, prospettando la finale conversione che consola e ricuce il nastro, lacerato, che lega Dio all’Uomo, il cielo alla terra4. La divina sovranità, la libertà stessa dell’Eterno sono in gioco se si dubita della sua attitudine a governare secondo giustizia. La nozione prettamente politica di governo è usata con allarme dall’ultimo visitatore di Giobbe, Eliu, il giovane figlio di Barachele il Buzita: «Può mai governare chi odia il diritto? E tu osi condannare il Gran Giusto? [...] Se egli tace, chi lo può condannare? Se vela la faccia, chi lo può vedere?»5.
Giobbe non si limita a chiedere che gli sia resa nota l’incriminazione, a rivendicare il dibattimento nell’aula del tribunale dove potrà difendere le proprie ra...

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  1. I. Lo splendore delle verità
  2. II. Dio non è il nostro doppio: uscire dalla teodicea contro i valori supremi