Intervista sul fascismo
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Intervista sul fascismo

  1. 166 pagine
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Intervista sul fascismo

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Un'intervista che ha ormai il valore di un classico. L'unico testo breve in cui Renzo De Felice ha espresso in modo sintetico e divulgativo le sue idee sul fascismo, frutto delle ricerche e degli studi che lo hanno reso noto in tutto il mondo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858139592
Argomento
History

IV

D. Che cosa pensi del rapporto tra il fascismo degli anni immediatamente successivi alla guerra – dal ’19 alla presa del potere – e le forze politiche della società prefascista? Mi riferisco alla tesi secondo la quale il fascismo era il movimento per la difesa della vecchia Italia o, meglio, della classe industriale contro la presunta minaccia rivoluzionaria rossa. Chi ha favorito insomma l’ascesa al potere del fascismo, a parte il gioco di Giolitti e il trasformismo? Come sono riusciti i fascisti ad arrivare al potere?
R. Direi che il fascismo è stato favorito inconsapevolmente da quasi tutte le forze politiche di tipo liberal-democratico; favorito però soprattutto nel senso che dicevo prima e non da una loro vera e propria connivenza. Fu favorito cioè nel ’22, quando arrivò al governo, dall’idea che potesse essere costituzionalizzato e svuotato facendogli posto, appunto, al governo. E ciò perché nessuno si era veramente reso conto del suo carattere e della sua profonda novità rispetto alle altre forze politiche con le quali in passato lo stesso gioco era sempre riuscito.
Nel primo periodo, nel ’19 e nel ’20, sino dopo la «grande paura» dell’occupazione delle fabbriche e i fatti di Palazzo d’Accursio e del Castello Estense, il fascismo non era stato preso in considerazione pressoché da nessuno e non aveva avuto nessun ruolo politico di rilievo. E ciò sia per la sua debolezza, sia per l’ambiguità e l’estremismo sovversivo dei suoi programmi e dei suoi dirigenti.
Nella fase successiva, dalla fine del ’20 alla metà del ’22 (al fallimento cioè dello «sciopero legalitario») le cose mutarono. Ciò detto, non penso però che si possa generalizzare.
È indubbio che nelle zone agrarie, specialmente laddove le organizzazioni bracciantili e il sistema leghistico erano più forti, il fascismo ebbe il massiccio sostegno e l’aiuto economico degli agrari. Ma questo discorso, che vale per le campagne, vale molto meno per le città e per il mondo economico industriale e finanziario. Qui il fascismo trovò indubbiamente sostenitori e aiuti, talora anche consistenti. Ma, direi, a titolo personale: si finanziavano cioè le squadre perché ripristinassero localmente l’ordine, mettessero in crisi le organizzazioni sindacali rosse e bianche, impedissero gli scioperi. Ma questo non è un fenomeno generale ed è un fenomeno che riguarda essenzialmente gli industriali medi e piccoli. Sono le piccole industrie, quelle che versano in maggiori difficoltà economiche, che hanno meno riserve e meno capacità di contrattazione, che più guardano al fascismo. Molto meno lo fa la grande industria. Finanziamenti ve ne furono anche da questa parte; ne abbiamo le prove. Però non si trattò di grandi somme e, in ogni caso, hanno tutta l’aria di sovvenzioni date sporadicamente e per evitare difficoltà in fabbrica. Il piccolo industriale voleva essere appoggiato ed aiutato; il grande, sostanzialmente, voleva innanzi tutto che i fascisti non dessero luogo a disordini che aggravassero la situazione in fabbrica, e si cautelava soddisfacendo in qualche misura le loro richieste di aiuto economico.
In ogni caso è da escludere che le grandi forze economiche abbiano teso a portare il fascismo al potere. Il fascismo per loro era una guardia bianca, che però, assolto il suo compito, doveva tornare a casa, non assumere il potere. Direi che è difficile contestare che il mondo economico italiano nel ’22 si comportò come il mondo politico; pensò cioè anche esso di inserire il fascismo nel governo per svuotarlo, per costituzionalizzarlo; non pensò affatto di dargli il potere in prima persona. Anche il mondo industriale, nell’ottobre ’22, pensava a soluzioni con Giolitti, Orlando o soprattutto con Salandra, delle quali dovevano far parte ovviamente i fascisti, ma sempre in posizione subordinata. Si giunse perfino a sperare di formare un governo Salandra con Mussolini ministro degli Interni. Ciò significava non solo che il fascismo doveva essere costituzionalizzato e svirilizzato, ma addirittura che, se le squadre avessero provocato disordini, Mussolini stesso le avrebbe dovute mettere a posto. Il che è veramente una prova di irrealismo e di insipienza uniche, ma conferma quello che dicevo prima: che il mondo economico si comportò come quello politico, nutrì le stesse speranze e gli stessi progetti.
Il vero nodo da sciogliere per capire come i fascisti sono giunti al potere non è questo dell’atteggiamento verso di essi del mondo economico, ma quello della base di massa del fascismo nel ’21-22, sia a livello di aderenti sia a livello di opinione pubblica.
Ai fini di una effettiva comprensione storica, non tanto è indispensabile stabilire la misura della dipendenza del fascismo da certe forze e da certi interessi, quanto capire la misura e le ragioni della sua autonomia da essi. Solo così è possibile valutare le cause degli errori della classe dirigente tradizionale, la novità del fascismo, e il suo successo sia a livello di massa (anche tra certe categorie contadine: è assurdo che a tutt’oggi non si sia studiato a fondo e dall’interno il sistema leghistico e le sue latenti contraddizioni) che a livello politico vero e proprio.
D. Vogliamo passare al regime? Nel tuo ultimo libro, Mussolini il duce, hai parlato di un regime e di un paese fondamentalmente d’accordo con Mussolini – il famoso consenso. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, parli di un Mussolini che vedeva il vero trionfo del fascismo in un prossimo futuro in cui l’Italia sarebbe stata veramente fascistizzata. Se questo è vero, vorrei chiederti se si può parlare di un paradossale fallimento del fascismo proprio nel momento del suo maggiore successo. Cioè, nel momento stesso in cui il fascismo aveva raggiunto questo grosso consenso nazionale falliva poi praticamente nel quadro della sua visione del futuro italiano. E, se si può parlare di fallimento proprio negli anni del consenso, in che cosa consisteva questo fallimento? Inoltre, qual è il legame tra questo fallimento e quello successivo? Qual è insomma quella che tu chiami la vera e unica crisi del regime, ovvero la contraddizione che non consentì di creare quella nuova classe dirigente che sola avrebbe permesso a Mussolini di perpetuarsi nelle nuove generazioni e di proiettarsi nel futuro?
R. Direi che è un unico problema, il problema connesso al tipo di fascistizzazione che si realizza in questi anni del maggior consenso, gli anni che vanno grosso modo dal ’29 al ’36. Il consenso di questi anni è consenso per una certa situazione italiana, in parte di tipo economico, in parte di pace sociale che va rapportata anche alla crisi ben più grave che attraversano in questi anni la Francia e l’Inghilterra, per non parlare della Germania e degli Stati Uniti. Il consenso deriva dal confronto tra diverse situazioni e diverse realtà. Si pensa più ai danni che il fascismo ha scongiurato che al problema di stabilire se abbia portato veri e propri benefici. Il consenso è diretto a ciò che non si ha, agli svantaggi che si sono evitati, alla «sicurezza» di vita che, bene o male, il fascismo assicura agli italiani. Non so se rendo l’idea. E poi c’è la politica estera «occidentale» e pacifica che, almeno sino a tutto il ’34 Mussolini persegue.
D. Insomma, il fascismo inteso essenzialmente come un sistema di difesa nazionale.
R. Il fascismo considerato come lo strumento per evitare al pae­se delle difficoltà sul piano internazionale. Nei rapporti con le grandi potenze il fascismo si presenta come un regime pacifico, un regime che, quando Hitler va al potere, non sente la sirena del Führer, anzi gli si oppone. Al principio la stessa guerra di Etiopia – e io credo di averlo messo in luce nella mia biografia di Mussolini – fu vista con preoccupazione, perché si pensava che potesse determinare delle difficoltà internazionali con l’Inghilterra e con la Francia. La guerra d’Etiopia suscita un consenso rumoroso, un momento di eccitazione nazionalistica solo quando è chiaro che gli anglofrancesi in realtà non si muovono e che l’Italia conquista l’impero.
Anche qui, stiamo attenti: il nazionalismo italiano che sta dietro la guerra etiopica, il nazionalismo di massa, non è di tipo classico, imperialistico, bensì populistico e con una forte dose di suggestioni che vengono da un certo «meridionalismo». Non si tratta di un imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un colonialismo che tende all’emigrazione, che spera cioè che grandi masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Insomma, non si parte tanto dall’idea di sfruttare le colonie, quanto soprattutto dalla speranza di potervi trovare terra e lavoro.
Tutto questo – insieme a molte altre cause che io credo di aver indicato nell’ultimo mio libro – spiega il consenso, ma gli attribui­sce anche delle caratteristiche estremamente precarie. Quando la situazione economica si fa più difficile, quando l’intervento in Spagna e soprattutto l’Asse e poi il Patto d’acciaio portano l’Italia sempre più sulla strada della guerra, sulla strada dell’alleanza con la Germania – un fatto questo assolutamente impopolare nella grande maggioranza del paese – con tutte le conseguenze che questo porterà, campagna razziale, ecc.; quando insomma viene meno il senso di «sicurezza» e le speranze di qualche anno prima sfumano, il consenso si fa sempre più debole. Questo però non significa che non fosse recuperabile. Sono convinto che, se Mussolini avesse tenuto l’Italia fuori dalla seconda guerra mondiale, avrebbe riacquistato gran parte del consenso perduto, e forse lo avrebbe persino accresciuto. L’entusiasmo per Mussolini il giorno della conferenza di Monaco è un fatto significativo. Ma è impensabile che Mussolini restasse fuori dalla guerra.
D. Lasciamo il discorso sulla guerra, per ora...
R. Tutto ciò porta, secondo me, a un altro tipo di considerazioni: Mussolini capiva la precarietà di questo tipo di consenso; il «duce» era molto meno stupido di quanto certa gente vuol sostenere, e per di più aveva molto spiccata la dote di capire le masse. Capiva perfettamente questo condizionamento del consenso, tanto è vero che non era su di esso che faceva affidamento, anche se con esso, per il momento, doveva fare i conti. È da qui che nasce la sua sfiducia negli italiani, la necessità di doverli amministrare giorno per giorno con delle iniziative di tipo demagogico, che andavano dalle concessioni e dagli allentamenti della briglia ai colpi di morso e ai controlli di polizia.
E da qui nasce anche la necessità di proiettarsi su una visione di tipo completamente diverso: considerando questo tipo di consenso solo la base che gli permetteva di restare al potere, bisognava creare un nuovo tipo di italiano, nelle nuove generazioni, diverso da quello con cui aveva a che fare.
Anche qui siamo su un terreno estremamente interessante. L’idea che lo stato, attraverso l’educazione, possa creare un nuovo tipo di cittadino, è una idea tipicamente democratica, classica dell’illuminismo, una manifestazione di carattere rousseauiano. Se leggiamo la Congiura di Babeuf45, tanto per fare un esempio, vediamo che nei programmi dei babuvisti uno dei punti centrali è proprio questo. E non solo dei babuvisti: è tutta una mentalità illuministica, rousseauiana, blanquista, proudhoniana. Ciò è molto significativo, perché le radici culturali di questa idea mussoliniana sono tipiche della sua formazione giovanile, che si riallaccia a certo radicalismo di sinistra (e non a un radicalismo di destra, come invece fa il nazismo).
D. Tentiamo di analizzare questo concetto, che mi sembra abbastanza nuovo, specie per il lettore italiano.
R. Sì, perché mi pare che per la cultura anglosassone non sia una grande scoperta.
D. Forse vale la pena di chiarire questo nostro discorso. Secondo me ci troviamo dinanzi a un tentativo di ridurre le masse italiane sotto controllo, ponendo l’accento dell’azione del governo fascista più sul campo del sentimento e del comportamento umano che su quello delle istituzioni sociali. Irving Louis Horowitz46, scrivendo di Sorel, ha chiamato questa ideologia «il concetto di volontà opposto a quello di organizzazione, così come la purezza di una convinzione si oppone al soffocante razionalismo». Questa ideologia si trova facilmente sia nei discorsi di Mussolini, sia negli articoli dei «credenti» fascisti durante il ventennio.
Se teniamo presente allora, che la rivoluzione fascista è centrata sulla creazione di nuovi esseri umani, e che per forza bisognerà attendere il loro avvento prima di far nascere le istituzioni fasciste47, si capirà meglio anche la caratteristica di queste, di non essere quasi per nulla strutturate. Sembrerà paradossale, forse, ma l’insuccesso della politica sociale fascista è la diretta conseguenza della teoria della rivoluzione fascista, secondo la quale il compimento della rivoluzione potrà verificarsi solo in un futuro popolato da cittadini fascisti che saranno ben diversi, psicologicamente, da quelli attuali.
R. È un’idea che si basa sul concetto di progresso, e quindi ci troviamo su un terreno completamente diverso da quello in cui spesso si vuol porre il di...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Avvertenza
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. VI
  9. VII
  10. VIII
  11. Persone e avvenimenti storici citati
  12. Appendice