1. L’uomo della svolta
Alcibiade, figlio di Clinia e di Dinomache, del demo di Scambonide, nacque intorno al 450. La madre apparteneva alla grande famiglia aristocratica degli Alcmeonidi, la stessa di Clistene, il fondatore della democrazia ateniese, e di Pericle. Il padre morì nel corso della battaglia di Coronea, in Beozia, nel 447: fu Pericle, come parente prossimo (era figlio di Agariste, sorella di Megacle, il nonno materno di Alcibiade), ad accoglierlo nella sua casa come tutore.
Come il futuro oligarca Crizia, Alcibiade fu tra i frequentatori di Socrate. Senofonte, in un celebre passo dei Memorabili (I, 2, 12), afferma che tra le accuse rivolte a Socrate vi fu quella di essere stato il maestro di Crizia e di Alcibiade, che fecero danni gravissimi alla città: «Crizia fu il più avido di guadagno, il più violento, il peggiore assassino fra gli oligarchici, Alcibiade il più privo di autocontrollo (akratestatos) e di senso del limite (hybristotatos), il più violento fra i democratici». Il giudizio di Senofonte coglie in Alcibiade soprattutto la tendenza a oltrepassare il limite imposto alla natura umana, tendenza che gli impedì di accettare il ruolo che di volta in volta gli veniva assegnato dall’ondivago favore popolare e lo spinse a muoversi costantemente in una prospettiva autopromozionale, non sempre rispettosa della legalità democratica.
Non gli mancavano certo le qualità per farsi strada nella politica: ricchezza, bellezza, cultura (in misura enormemente superiore nel quadro dei «nuovi politici», spesso di origini non aristocratiche, la cui rozzezza era sbeffeggiata dai comici), talento, competenza militare e capacità oratorie. Spinto dalla sua tradizione familiare verso la parte democratica, alla democrazia non ebbe un profondo attaccamento ideologico; stando a Tucidide, così egli si sarebbe espresso davanti agli Spartani, a cui doveva giustificare il suo tradimento, a proposito della sua famiglia, gli Alcmeonidi:
noi siamo sempre stati ostili ai tiranni, e tutto quello che si oppone a un dominatore è chiamato democrazia, e da questo fatto restò a noi la guida del popolo. Inoltre, quando una città era governata da una democrazia, spesso era necessario adattarsi alla situazione. [...] Noi eravamo alla testa di tutti i cittadini, convinti che dovevamo conservare quella forma di governo per cui la città era grande e libera, e che ci era stata tramandata, giacché noi, che avevamo un po’ di intelligenza, sapevamo che cosa fosse la democrazia e io stesso non meno degli altri, in quanto ne ho subito i torti più grandi, potrei insultarla. Ma su una riconosciuta pazzia non si potrebbe dire nulla di nuovo: e il cambiare quella forma di governo non ci parve sicuro quando voi ci assalivate come nemici (VI, 89, 4-6).
La posizione di Alcibiade sulla democrazia è ben chiara: non siamo di fronte né all’adesione ideologica di Pericle, né al rifiuto netto che sarà di Crizia, e neppure al trasformismo di un Teramene. La democrazia è, per Alcibiade, un male necessario per Atene, profondamente radicato nella sua storia costituzionale, che la tradizione familiare alcmeonide lo portava ad accettare, forse senza profonda convinzione ma nella prospettiva della conservazione del potere personale e familiare. Questo atteggiamento spiega il rapporto di odio-amore tra Alcibiade e la città democratica: scrive Aristofane, nelle Rane (405), ormai alla fine della parabola politica di Alcibiade, che la città «lo ama, lo odia, e vuole averlo» (v. 1425), e aggiunge che chi alleva un leone in città deve poi adeguarsi ai suoi modi (vv. 1432-33).
In odore di tirannide per la sua paranomia (la quasi naturale «illegalità», ovvero la tendenza a non conformarsi alle leggi e alle consuetudini: Tucidide VI, 15, 4; Plutarco, Vita di Alcibiade, 16, 2), in contatto, per la sua estrazione sociale, con le «eterie» aristocratiche (società segrete di carattere per lo più oligarchico, che riunivano persone legate da amicizia, relazioni sociali e comuni interessi politici) e i circoli oligarchici, Alcibiade non esitò a cercarne l’appoggio, né a cercare quello del nemico, rovesciando i principi tradizionali dell’etica politica: fu però in democrazia che ottenne i maggiori riconoscimenti, tanto che sia gli oligarchi del 411 sia lo stesso Crizia, suo compagno alla scuola di Socrate e a lungo suo sostenitore, lo giudicarono pericoloso per un governo oligarchico. La «considerazione» di cui godeva, derivante dalla tradizione familiare e dai talenti personali (Tucidide parla, rispettivamente, di axioma e di axiosis, distinguendo tra la stima legata al proprio retroterra sociale e quella acquisita personalmente), cui si aggiungeva la generosità nell’uso delle ricchezze, induceva il popolo all’indulgenza verso i suoi comportamenti anomali: bizzarrie, eccessi, talora violenze (Plutarco, Vita di Alcibiade, 16, 4). La sua parabola politica, che lo condusse due volte in esilio e lo vide circondato da appassionati sostenitori e da aspri avversari, si gioca sulla relazione con il demos: una relazione che nella generazione dei «nuovi politici» tende a deteriorarsi, passando dal rapporto libero e paritario fra soggetti politici, leader e assemblea, tipico dell’epoca di Pericle, al rapporto di reciproco interesse tra i demagoghi (che aspiravano a divenire prostatai, cioè «capi» e guide riconosciute, del popolo) e la massa popolare, che caratterizza l’epoca dei successori. Ma se Cleone, il più significativo di questi successori, eroe negativo di Tucidide, si muove ancora nel solco del sistema democratico, da cui si attendeva di poter trarre maggior vantaggio, con Alcibiade entriamo già in una prospettiva di spregiudicatezza ideologica e di valorizzazione del potere personale che anticipa l’epoca della crisi democratica di fine secolo. Plutarco (Vita di Alcibiade, 2, 1) descrive il suo carattere come incostante e incoerente, guidato dall’ansia di prevalere (philonikon/philoproton); proprio l’ambizione e il desiderio di gloria (philotimia/philodoxia), insiste il biografo, più ancora dei piaceri cui pure era incline, lo spinsero precocemente alla megalopragmosyne, a «iniziative troppo grandi», per opera di adulatori che solleticavano il suo desiderio di mettere in ombra gli altri strateghi e demagoghi, e persino l’autorità e la fama di Pericle (Vita di Alcibiade, 6, 4). Plutarco è spinto a queste osservazioni dal desiderio di porre in contrasto, nella formazione della personalità di Alcibiade, l’influenza positiva di Socrate con quella negativa dei «corruttori»: ma non c’è dubbio che egli coglie nel segno nell’individuare nell’ambizione il motore, nel bene e nel male, dell’agire politico di Alcibiade. L’introduzione di personalismi di questo genere nel confronto democratico ebbe gravi effetti destabilizzanti, la cui influenza sulla crisi della democrazia fu enorme.
1.1. Gli esordi
Il modo in cui Tucidide ci presenta per la prima volta Alcibiade è indicativo dell’opinione, come sempre lucida e disincantata, che lo storico ha su di lui, beninteso a partire da una notevole ammirazione personale. Lo sfondo è la parte finale della prima fase della guerra del Peloponneso (431-421). Quando, nel 421, dopo la morte di Brasida e di Cleone ad Anfipoli, prevalse in Atene e Sparta il partito della pace e fu siglata la pace di Nicia, Alcibiade fu tra coloro che cercarono di farla fallire, approfittando delle tensioni nate per la mancata osservanza di alcune clausole dell’accordo. Fra coloro che volevano rompere l’accordo, dice Tucidide,
vi era Alcibiade di Clinia, uomo che per età sarebbe stato considerato giovane in un’altra città, ma che era onorato per la rinomanza dei suoi antenati. Questi non solo pensava che fosse meglio accostarsi ad Argo, ma si opponeva ai patti soprattutto perché la superbia lo spingeva a gareggiare con altri, in quanto i Lacedemoni avevano trattato la pace attraverso Nicia e Lachete, senza tener conto di lui per la sua giovinezza e senza onorarlo per la sua antica prossenia che, sebbene rinnegata da suo nonno, egli pensava di aver rinnovato coi servigi resi ai prigionieri dell’isola (V, 43, 2-3).
È interessante notare quali motivazioni Tucidide offre della presa di posizione di Alcibiade contro la pace. Prima di tutto, una motivazione politica: egli riteneva che fosse meglio per Atene accostarsi alla democratica Argo piuttosto che a Sparta. In questo, Alcibiade appare esponente del partito pericleo della guerra, indebolito da dieci anni di conflitto senza esiti. Ma, soprattutto, egli agiva per motivi personali: era offeso per la scarsa considerazione in cui era stato tenuto dagli Spartani, nonostante la tradizionale amicizia della sua famiglia e nonostante l’aiuto fornito agli opliti spartiati fatti prigionieri a Sfacteria nel 425 e poi detenuti ad Atene fino alla liberazione. Plutarco presenta la questione in modo analogo: Alcibiade era «seccato oltre misura e invidioso» (Vita di Alcibiade, 14, 2) per la considerazione in cui Nicia era tenuto da concittadini e nemici. «Considerando dunque da ogni lato di non esser tenuto nel debito conto» (Tucidide V, 43, 3), Alcibiade, eletto stratego per l’anno 420/19, appena raggiunta l’età legale dei trent’anni, fece fallire le trattative con Sparta e promosse con successo, nonostante l’opposizione di Nicia, l’alleanza di Atene con gli Argivi, i Mantineesi e gli Elei, sostenendo una stabile forza antispartana, di ispirazione democratica, nel Peloponneso. Ma nel 418, a Mantinea, gli Spartani e i loro alleati si scontrarono con la coalizione guidata dagli Ateniesi e la sconfissero. La prima iniziativa politica di Alcibiade finì dunque con un fallimento: ma egli riuscì ad evitare l’ostracismo alleandosi con Nicia e facendo convergere i voti sul demagogo Iperbolo, l’ultimo ateniese ad essere ostracizzato, nel 417 (Plutarco, Vita di Alcibiade, 13, 7-8).
Le motivazioni di carattere personale che Tucidide attribuisce al giovane Alcmeonide inducono alla riflessione: la volontà di primeggiare tra gli altri uomini politici e di promuovere le proprie personali ambizioni fa di Alcibiade il primo rappresentante di quella generazione postpericlea che Tucidide ritiene responsabile della crisi della democrazia e della sconfitta in guerra di Atene. E questo nonostante lo storico non addebiti ad Alcibiade colpe in merito alla gestione della politica estera: se in II, 65, 7 egli accusa i successori di Pericle di aver ampliato il fronte di guerra, e sembra con ciò alludere alla spedizione di Sicilia voluta da Alcibiade, subito dopo (II, 65, 11) si affretta a precisare che l’errore fu non tanto nel progetto quanto nell’insufficienza dei mezzi impiegati; e in VI, 15, 4, stigmatizzando le discutibili abitudini private di Alcibiade, afferma che però, sul piano pubblico, egli aveva «curato nel modo migliore le questioni relative alla guerra». Furono proprio i comportamenti privati, non gli errori politici, a minare la credibilità di Alcibiade, a fargli perdere il potere e a determinare, in ultima analisi, la rovina della città, finita in mano a governanti incapaci. Un giudizio lucido, che insiste sull’inscindibilità di etica e politica: per l’uomo politico democratico il senso della misura è una qualità imprescindibile, la cui assenza può vanificare il suo intero operato.
In seguito Alcibiade svolse un ruolo, che Tucidide tace, nella drammatica vicenda di Melo, assurta a simbolo dell’imperialismo ateniese. Nel 416 Nicia allestì una spedizione contro l’isola di Melo, che, essendo colonia spartana, intendeva mantenere la propria neutralità nella guerra; già nel 426 Nicia aveva tentato di sottomettere i Meli, che, «pur essendo isolani, non volevano assoggettarsi né entrare nella lega» (Tucidide III, 91, 2) e avevano fornito contributi volontari a Sparta. Melo capitolò nell’inverno del 415 e fu trattata con estrema durezza: gli uomini vennero uccisi, le donne e i bambini venduti come schiavi, e nell’isola fu insediata una cleruchia (una colonia militare di cittadini ateniesi) di 500 uomini.
Nel lungo dialogo che fa svolgere tra Ateniesi e Meli prima della capitolazione, Tucidide (V, 85-113) propone un’amara riflessione sugli esiti dell’imperialismo ateniese, ormai volto solo all’utile immediato e indifferente ad ogni valore. Fin dall’inizio, infatti, gli Ateniesi rifiutano di prendere in considerazione argomenti di carattere etico o giuridico: essi sostengono che la disparità esistente fra le parti impone di discutere esclusivamente sul terreno dell’utile, e l’utile coincide con l’interesse del più forte. Alla fine i Meli, «pii contro ingiusti», si affidano alla «sorte inviata dalla divinità» (V, 104), ritenendo la loro speranza non irragionevole; ma gli Ateniesi ribattono che l’esercizio del dominio da parte del più forte sul più debole è una necessità naturale, che non può essere in contrasto con la legge divina.
Nella Contro Alcibiade, la IV orazione del corpus dei discorsi di Andocide, di cui sono estremamente controverse paternità e datazione, si afferma che Alcibiade sosteneva che i Meli dovessero essere ridotti in schiavitù (Andocide IV, 22); la notizia è ripresa da Plutarco (Vita di Alcibiade, 16, 6), secondo il quale gli Ateniesi consideravano Alcibiade come «il principale responsabile del massacro di tutti i Meli in età di portare le armi», in quanto aveva appoggiato la proposta fatta in questo senso. La fonte primaria della notizia è molto ostile ad Alcibiade e il silenzio di Tucidide potrebbe far sospettare dell’autenticità: tuttavia, la presa di posizione di Alcibiade può essere considerata in linea con la sua volontà di portare avanti la contrapposizione con Sparta e con la sua difesa dell’impero come strumento di potenza. Alcibiade si prese come schiava una donna di Melo, da cui ebbe un figlio: le fonti sottolineano il contrasto tra questa vicenda privata e la dura scelta politica dell’Alcmeonide.
1.2. La spedizione di Sicilia: un’impresa autopromozionale
Nell’inverno del 416/5 la città elima di Segesta, con la quale nel 418/7 (in base ad una più sicura lettura del testo epigrafico, datato in precedenza al 458/7 o al 454/3) era stato stabilito un trattato, richiese l’intervento ateniese contro Selinunte e Siracusa, prospettando i rischi di un asse Sparta/Siracusa e la possibilità di finanziare la spedizione con le ricchezze custodite nel tempio segestano di Afrodite.
Gli Ateniesi risposero positivamente e decretarono di inviare in Sicilia Alcibiade, Nicia e Lamaco, con il titolo di strateghi autokratores («con pieni poteri»), per aiutare i Segestani, riportare in patria gli abitanti di Leontini cacciati dai Siracusani e trattare gli affari di Sicilia «nel modo che a loro sembrasse più utile per gli Ateniesi» (Tucidide VI, 8, 2). Cinque giorni dopo l’assemblea si riunì nuovamente per discutere sui preparativi: in questa occasione Nicia, scelto per guidare la spedizione contro la sua volontà, tentò di distogliere gli Ateniesi dall’impresa. L’assemblea vide lo scontro tra Alcibiade e Nicia (Tucidide VI, 9-14 e 16-18).
Nicia, notoriamente desideroso di mantenere la pace con Sparta, era molto ostile ad impegnarsi nuovamente in un’impresa militare, che riteneva peraltro di incerto esito. Si trattava di impelagarsi in una situazione di pace malsicura, in una guerra che riguardava stranieri (gli Elimi non erano di stirpe greca), trascurando i nemici che pure restavano in Grecia e la necessità di rafforzare l’impero, che presentava qualche falla (i Calcidesi di Tracia, ribelli nel 424, non erano ancora stati ridotti all’obbedienza, e la zona era di grande importanza strategica). Si inseguiva il sogno di un impero lontano, che sarebbe stato assai difficile controllare; sarebbe stato meglio difendersi in patria dalle insidie dell’oligarchia spartana; il benessere economico da poco recuperato non doveva essere messo a rischio per dei barbari infidi. Tutti argomenti ragionevoli, che in parte concordano col famoso giudizio di Tucidide (II, 65, 7 e 11), il quale contrappone la prudenza di Pericle all’avventurismo dei suoi successori. Ma forse più interessanti, nella nostra prospettiva, sono gli attacchi al proponente dell’impresa, Alcibiade:
Se qualcuno, lieto di essere stato scelto a comandare, vi esorta a partire badando solo al suo interesse privato (tanto più che è troppo giovane per comandare), al fine di essere ammirato per il suo allevamento di cavalli e per le spese che sostiene, al fine di trovare qualche vantaggio nella carica – neppure a costui permettete di farsi bello personalmente a costo di un pericolo per la città, ma pensate che costoro rovinano gli interessi pubblici e sperperano le loro sostanze, mentre questa decisione è importante e non tale da essere presa da un giovane e trattata frettolosamente (Tucidide VI, 12, 2).
L’attacco ad Alcibiade è patente: non deve essere permesso a uno stratego troppo giovane e ambizioso, preso da interessi privati e incurante del bene pubblico, di prendere decisioni di tale gravità. Il discorso sembra mettere in evidenza anche uno scontro generazionale, tra Alcibiade e i suoi giovani sostenitori, da un lato, e il maturo Nicia che si rivolge ai più anziani, esortandoli alla prudenza, dall’altro. Un aspetto, quello del contrasto tra generazioni, che ha un suo ruolo nella crisi democratica di fine V secolo.
Il dibattito assembleare, dopo il discorso di Nicia, prese tuttavia una piega sfavorevole al prudente stratego: la maggioranza degli interventi che seguirono era favorevole alla spedizione. Tucidide ricorda allora l’impegno di Alcibiade nel caldeggiare la continuazione dell’impresa, che si inseriva perfettamente nella tradizione politica democratica fin dai tempi di Temistocle: ed è interessante notare che il giudizio di Tucidide coincide in alcuni punti con quello di Nicia. Alcibiade, egli dice, era mosso da una pa...