Non c'è più la Sicilia di una volta
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Non c'è più la Sicilia di una volta

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Non c'è più la Sicilia di una volta

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La Sicilia di oggi non è più quella degli stereotipi incrostatisi sulla Trinacria nel corso dei secoli. E di storie e di voci nuove che la raccontano, questo libro ne contiene davvero tantissime. Giuseppe Culicchia «Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia. Non ne posso più di vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezz'uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. E sono stanco di Godfather, prima e seconda parte, di Sedotta e abbandonata, di Divorzio all'italiana, di marescialli sudati e baroni in lino bianco. Non ne posso più della Sicilia. Non quella reale, ché ancora mi piace percorrerla con la stessa frenesia che afferrava Vincenzo Consolo ad ogni suo ritorno. Non ne posso più della Sicilia immaginaria, costruita e ricostruita dai libri, dai film, dalla fotografia in bianco e nero. Oggi c'è una Sicilia diversa. Basta solo raccontarla.» Con buona pace del Gattopardo, non è vero che in Sicilia tutto cambia perché tutto rimanga com'è: sull'isola, negli ultimi anni, quasi tutto è cambiato.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858135068

Le metropoli

Forse è la più bella di tutte le città del mondo.
E la gente è contenta nelle città che sono belle.
Elio Vittorini
Il sindaco. Il farmacista. L’arciprete. Il maresciallo. Il mafioso. E poi la piazza. Il bar. Il barbiere. Il circolo dei galantuomini. Il circolo operaio. La sezione della Democrazia cristiana. La sezione del Partito comunista. I notabili. I contadini. I delinquenti. Le donne. Le maledonne. Le brave donne. I picciriddi.
Eccolo qui l’universo siciliano. Stretto in uno scenario che si può abbracciare con un’occhiata, il paese è il contenitore congeniale di storie, intrighi e misteri. È paese la Montelusa di Pirandello. Paese la Vigàta di Camilleri. Paese la Regalpetra di Sciascia. Il luogo dei movimenti lenti, dei caffè seduti, degli sguardi trasversali. Nel paese maturano gli omicidi, i tradimenti, i pregiudizi. Dove tutti apparentemente conoscono tutti, si nascondono i segreti più inconfessabili.
Al cinema, il paese è Partinico, a colori, nel Giorno della civetta di Damiano Damiani. È Sciacca in bianco e nero in Sedotta e abbandonata o Ragusa per Divorzio all’italiana, entrambi di Pietro Germi. È, ovviamente, Bagheria (però ricostruita interamente, e fedelmente, in Tunisia) di Giuseppe Tornatore in Baària o Palazzo Adriano in Nuovo Cinema Paradiso. È Cefalù per il film di Elio Petri A ciascuno il suo. È un’immagine potente e prepotente: gli abiti di lino bianco, le chiacchiere nel salone da barba, i pettegolezzi attorno al giro di zecchinetta, i balconi affacciati sullo struscio, i confessionali nelle chiese velate di penombra.
Figlia spesso delle «élites paesane» – come alcuni storici definiscono i ceti acculturati isolani emergenti del secolo scorso –, la narrativa siciliana si muove nella galassia dei paesi un tempo densi di popolazione, raccolti sulle cime di colline o distesi nei valloni, lontani gli uni dagli altri. Così la Sicilia descritta dal già citato Domenico Seminerio durante un viaggio notturno del protagonista di Senza re né regno: «Non un’isola, ma un arcipelago, di tante isole quanti erano i paesi e le città. Paesi più isolati delle vere isole. Le isole almeno si potevano raggiungere da tutti i lati, per mare. Bastava una barchetta. I paesi no. Lo vedevo. Il collegamento era possibile solo mediante un’unica strada, sempre tortuosa, tra burroni e pietraie, fatta apposta per coltivare autarchie ancora feudali e ogni forma di insularità. Dell’anima. Del carattere. Della testa».
Poche, pochissime, le città. La Palermo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – città delle famiglie aristocratiche, però. La Catania di Federico De Roberto – città anch’essa dei nobili. La Catania di Vitaliano Brancati – ancora un po’ paesone, con i suoi 186.000 abitanti (secondo la solita guida Touring del 1919). Nessuna di esse poteva dirsi metropoli, semmai erano città sonnacchiose, sporche, mediterranee, indolenti. E, in fondo, quasi tutte viste in retrospettiva. Tomasi di Lampedusa non racconta la Palermo bombardata e già in pieno caotico sviluppo in cui viveva, ma la città di suo nonno. De Roberto, che pure nel 1907 aveva redatto una guida di Catania, ambientava i suoi Viceré nella città a cavallo del 1861, scrivendone nel 1894. Forse solo Brancati tenta di restare nel suo tempo, anche se la sua Catania è riverbero di una giovinezza a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, prima del trasferimento a Roma.
La città non si addice ai siciliani. E così non c’è il grande romanzo della guerra a Palermo, a Catania o a Messina. Non c’è il grande romanzo del dopoguerra a Palermo, a Catania o a Messina. Questo non significa che non esistano memoriali, diari, inchieste, racconti o libri. Significa solo che nessun grande autore siciliano ha scritto il libro sulle città che cambiavano pelle e faccia, spesso disordinatamente e violentemente, all’indomani del 10 luglio 1943, prendendo la data dello sbarco anglo-americano come momento di conclusione del conflitto in Sicilia e inizio di una fase concitata e convulsa destinata a perdurare a lungo. Per fare alcuni esempi: sulla Napoli del dopoguerra si cimentano Curzio Malaparte nel suo La pelle, l’inglese Norman Lewis nel suo Napoli ’44, l’americano John Horne Burns nel suo libro d’esordio La galleria. E la Sicilia?
Il separatismo, il banditismo, le gesta di Salvatore Giuliano, l’espansione urbanistica delle città, la distruzione a colpi di dinamite delle ville liberty, il sacco edilizio di Palermo, l’esplosione commerciale di Catania, la trasformazione topografica di Messina saranno raccontate dai giornalisti, dai politici, dalle commissioni d’inchiesta. Ma in tempo reale non diventa il cuore della narrativa siciliana, anche se questa nuova foto della Sicilia dilaniata tra città e campagna – anche dal punto di vista dello scontro mafioso-affaristico – diventerà sempre più dominante nel dibattito pubblico.
Ci sarà il memorabile Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Ma il film arriverà solo nel 1962, abbastanza vicino ai fatti e quasi in diretta rispetto ai processi e alle polemiche, ma in ogni caso dodici anni dopo l’uccisione del bandito di Montelepre – ritrovato morto a Castelvetrano il 5 luglio 1950 – e a distanza di otto anni dal misterioso avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, ammazzato da una dose di stricnina dentro la sua cella nel carcere palermitano dell’Ucciardone. Un film sulla Sicilia pensato e scritto fuori dalla Sicilia, da sceneggiatori e registi non siciliani, anche se Francesco Rosi si era documentato col puntiglio di un inviato nella storia recente. Nel film c’era Palermo, ma sullo sfondo: in primo piano c’erano le montagne, le forre, Montelepre.

Aspettando il romanzo di Palermo

Qualche tempo fa, il giornalista siciliano Giancarlo Macaluso, attento lettore delle cose di Sicilia, lanciava sul blog dipalermo.it una domanda provocatoria, dilagata nella discussione intellettuale della città che annovera molti scrittori, molti drammaturghi, molti registi:
Chi racconta una città all’angolo? Chi regala parole per narrare il declino di Palermo e dunque tentare di salvarla? Chi spende la sua arte per illuminare una pattumiera che brulica di topi? Chi è pronto a scodellare al mondo, come un uppercut micidiale, il rapido e scomposto morire di un luogo che sembra scomparso, come dopo un naufragio, dalle mappe della civiltà? Lo fa la cronaca, si dirà. Ma è poca cosa. È come dare acqua e zucchero a un moribondo. Un pezzo di giornale ha il fiato corto. I quotidiani, i siti, le tv, le radio consegnano istantanee che danno la «cognizione del dolore» quotidiana; manca lo sguardo dall’alto che solo gli artisti sanno avere mettendo insieme i pezzi di un puzzle fatto di sentimenti, sensazioni e preveggenza. E niente indulgenze.
Proseguendo nel suo ragionamento, Macaluso citava Gomorra di Roberto Saviano come esempio di una narrazione possente capace di mettere al centro dell’attenzione internazionale un luogo (Napoli, Casal di Principe, la Campania) e un argomento (la camorra casalese) e si spingeva oltre: «La cosa che ci sembra incredibile è, in questo momento, l’assenza di una qualsivoglia opera con la corda civile tesa per Palermo. Tragicamente, verrebbe da dire, viviamo in una città sterile che produce sterilità».
Parole che avevano suscitato molti consensi, ma anche gli stizziti commenti di chi elencava libri e racconti – magari scritti proprio dagli autori dei commenti stessi –, a dimostrazione che Palermo è stata ed è ben rappresentata in letteratura. Macaluso, nel settembre 2011, pochi giorni dopo il suo intelligente sasso nello stagno, ribadiva il concetto:
Ci appare banale l’affermazione che il «romanzo definitivo» su Palermo non può essere scritto perché siamo di fronte a una città viva e mutevole e perciò stesso impossibile da ingabbiare. Appunto, di definitivo c’è solo la morte. Ci accontenteremmo di una «perfezione provvisoria», limitata.
Come si vede, la questione non era e non è nuova. In realtà, il romanzo «di» Palermo non è stato ancora scritto. Problema che, sotto altri aspetti, si poneva nel 1988 anche uno storico come Orazio Cancila, al quale la casa editrice Laterza aveva affidato il compito di curare, per la collana «Storia delle città italiane», il volume su Palermo.
Palermo è una delle pochissime città italiane che da secoli non si preoccupano di scrivere la propria storia. E perciò la storia della città che i palermitani conoscono riguarda quasi esclusivamente singoli avvenimenti e quel poco che la memoria collettiva, se non addirittura familiare, è riuscita a sottrarre all’oblio del tempo; una storia di episodi, di frammenti che non fanno storia, spesso filtrati dal ricordo che tende a mitizzare e a distorcere il passato.
Cancila parlava dell’assenza di letteratura storica relativamente all’ultimo secolo che si accingeva a ricostruire nel suo volume, ma identica cosa si potrebbe dire anche per la letteratura in senso lato, «ove si eccettuino – annotava Cancila – gli studi di urbanisti e mafiologi».
Era dunque automatico pensare che il romanzo «di» Palermo venisse scritto, in quegli anni, negli uffici bunker del palazzo di giustizia o nelle caserme. Era (o non era?) un romanzo criminale il «rapporto dei 162», messo a punto dalla questura di Palermo nel marzo 1982, che raccontava la scalata dei corleonesi, a colpi di kalashnikov, dentro gli equilibri della Cosa Nostra palermitana. Era (o non era?) un feuilleton a puntate la «cantata» (così presentata sulle pagine del giornale «L’Ora») di Tommaso Buscetta che, dall’interno delle famiglie mafiose, nel 1984 svelava a Giovanni Falcone i riti, i personaggi, il linguaggio e le astuzie feroci degli uomini d’onore. Era (o non era?) un mastodontico kolossal corale l’ordinanza-sentenza dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo che chiedeva di mandare alla sbarra del maxiprocesso Abbate Giovanni + 706 altri imputati, accusati di avere costituito un «tenebroso sodalizio» che teneva assieme picciotti, uomini d’affari, killer, principi di sangue blu, commercianti e poveracci, in una trama balzacchiana che non risparmiava alcun colpo di scena ad effetto.
L’abbiamo già detto. Era impossibile pensare a un plot più crudo e granguignolesco di quello che da decenni scrivevano magistrati, poliziotti, carabinieri e giornalisti – spesso vittime, a loro volta, di una trama nera di pece –, affondato nel ventre più fetido della città, ma che non temeva di mostrarsi alla luce dei salotti nobiliari e delle ville di Mondello, dove i macellai di Cosa Nostra potevano accompagnarsi a professionisti dalle raffinate letture, sorseggiando assieme una coppa di Moët & Chandon. Cosa si poteva scrivere di più rispetto al romanzo, a questo romanzo, «di» Palermo?

Il taccuino del cronista

Aveva la faccia da saraceno e una penna che sapeva maneggiare come lo scalpello di uno scultore. Pippo Fava era un cronista. Ma era anche scrittore, sceneggiatore, pittore. E la sua scrittura stingeva spesso nella letteratura, nel romanzo, potremmo dire. Anche quando i suoi articoli finivano su un giornale. Tra l’estate e l’autunno del 1966, per conto del quotidiano catanese «La Sicilia», aveva solcato in lungo e in largo l’isola, partendo da Messina e finendo il viaggio nella sua Catania. Ma Pippo Fava non era di Catania, veniva da un paese incrostato di barocco in provincia di Siracusa: Palazzolo Acreide. «Paese bianco e grigio, con i colori della nostalgia, le grandi chiese, i palazzi antichi, le sue case pulite dei poveri. Cortese, dolce, amabile, gentile paese mio», scriveva Fava nel 1980, trent’anni dopo essersene andato via, per laurearsi in legge e iniziare quel mestiere di giornalista che il 5 gennaio 1984 pagherà con la vita.
Catania era però la sua città. La città della formazione adulta. Ma anche il luogo di perdita dell’innocenza provinciale. «Un giorno arrivai a Catania e vi restai per sempre», raccontava Fava:
Bisogna dire che io venivo dalla provincia di Siracusa, anzi dalle montagne del Siracusano dove la gente è «babba», cioè ingenua, mite, silenziosa, povera, onesta, educata... anzi per codesti siracusani i catanesi hanno coniato un termine più preciso, quasi onomatopeico, cioè «babbasunazzi», che significa tanto ingenui da essere persino divertenti. Per molto tempo soffrii così una specie di complesso nei confronti dei cat...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. La Sicilia non esiste
  2. L’isola da mangiare
  3. Trinacria glam
  4. Gli antisiciliani
  5. Il presente del passato
  6. Sex and the Sicily
  7. Le metropoli
  8. Arancine di riso
  9. Approdi
  10. Strani nostrani
  11. Il nuovo Grand Tour
  12. Esperanto siculo
  13. Era di maggio
  14. Epilogo. A futura memoria
  15. Ringraziamenti