La mafia devota
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La mafia devota

Chiesa, religione, Cosa Nostra

  1. 312 pagine
  2. Italian
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La mafia devota

Chiesa, religione, Cosa Nostra

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Lo scenario descritto da Alessandra Dino lascia un senso di profondo disgusto. Ma al tempo stesso fa amare ancora di più quella Chiesa capace di vivere sino in fondo il suo ruolo 'profetico' e rinnovare le coscienze nel segno della giustizia e dei valori etici e civili. Una Chiesa che sappia parlare chiaro in tutte le occasioni in cui è richiesta una testimonianza coraggiosa, e che non abbia il timore di riconoscere eventuali colpe e omissioni del passato. don Luigi CiottiUn saggio con un valore esemplare che fa riflettere sui rapporti fra la chiesa e la criminalità organizzata. Alessandra Dino fornisce dettagli: nomi, cognomi, come ha fatto Saviano con Gomorra. È un libro impressionante, esente da fanatismi, che consiglio a tutti. Dacia Maraini

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113684

1. Feste, processioni e labari

1.1. Le devozioni materiali

«Spesso nel corso di questo studio abbiamo accennato a coloro che sono pronti a portare il santo a piedi scalzi o colla spalla denudata, ma non a confessarsi; a coloro che non si vedono quasi mai in Chiesa, e poi si presentano soltanto quando si tratta di portare l’urna del Crocifisso o la bara dell’Addolorata. Ora certe facce ignote e misteriose ti vengono innanzi appunto nel tempo della Settimana Santa. E come? Forse per riconciliarsi con Dio e accostarsi alla Mensa Eucaristica? Ma no! Essi sono superiori a queste inezie. A che, dunque? Ecco: Tizio è governatore della festa; Caio tiene presso di sé la cassa della cera; Filano ha il diritto di portare l’urna del Crocifisso; Martino ha portato sempre la bara dell’Addolorata; Sempronio è il depositario geloso della lancia e dei chiodi; e così di seguito. Spesso tutte queste persone non si vedono mai in Chiesa e non sono tanto tenere dei Sacramenti, ma spuntano soltanto in certi giorni di parata per custodire tenacemente i loro diritti tradizionali. Una religione assai comoda, non è vero?» (Ficarra 1990, p. 97).
L’annotazione – severa e al tempo stesso ironica – è di Angelo Ficarra, vescovo di Patti, che nel suo manoscritto Meditazioni vagabonde. Psicologia popolare della vita religiosa in Sicilia, vergato nel 1923 e ripreso da Leonardo Sciascia nel suo Dalle parti degli infedeli, ci ha tramandato una descrizione impietosa delle componenti della religiosità siciliana (credenze, senso di appartenenza, pratiche religiose), riconducibili al principio ordinatore di «un’antropologia sociale primitiva» in cui le relazioni con la fede e il divino, così come le relazioni interpersonali, sono modellate secondo «logiche di appartenenza/esclusione, amicizia/ostilità, affiliazione/protezione» (Campione, Sgroi 1994; Sgroi 1995).
A distanza di quasi un secolo, mentre prendiamo atto che quelle annotazioni, insieme ad altre intemperanze disciplinari, costarono a monsignor Ficarra l’allontanamento coatto dalla diocesi di Patti, ci rendiamo conto di quanto queste devozioni materiali corrispondano a una realtà ancora oggi diffusa e attuale nell’isola e in molte altre aree del Mezzogiorno (Sciascia 1970, 1979).
Seppur con una ritualità più sobria e misurata rispetto a un recente passato, in Sicilia, così come in Calabria o in Campania, la dimensione terrena resta la componente dominante di molte feste e processioni religiose; ad essa viene spesso ancora oggi affidata la legittimazione simbolica dell’ordine sociale della comunità. Un ordine che non più tardi di vent’anni fa veniva rappresentato ancora dalla presenza – più o meno appariscente – dei capi carismatici delle organizzazioni mafiose al seguito dei labari, delle urne e delle statue dei santi, portate in processione dai devoti delle congregazioni.
Era proprio dalle manifestazioni pubbliche di culto che i notabili del paese – e fra questi gli uomini d’onore, i mammasantissima, i capibastone – traevano forza e legittimazione per l’esercizio del loro ruolo di potere. Riferendosi al comportamento tenuto in passato da molti autorevoli uomini d’onore, scrive Stabile:
«In queste ritualità collettive religiose la mafia non solo si affermava come depositaria di valori tradizionali (famiglia, religione, onore, ordine), distorti dal loro valore originario, [...] ma di essi si serviva per legittimare davanti al popolo la propria raggiunta potenza in quanto capace anche di gestire e dirigere le cerimonialità collettive religiose» (1996, p. 31).
Del resto, nelle regioni del Sud Italia, nei quartieri delle grandi città così come nei piccoli centri agricoli, proprio ai capi delle varie famiglie mafiose veniva attribuito un ruolo salvifico di mediazione della volontà e della giustizia divina, in un contesto storico e sociale caratterizzato dalla miseria e dall’analfabetismo, in cui all’assenza o alla nequizia dello Stato di fronte alle ingiustizie suppliva una forma di equità primitiva e populista, ispirata alle contingenze del momento, imposta con la minaccia e la violenza mafiosa. Nei borghi, nelle campagne e nei paesi, i capomafia avevano potere di vita o di morte; la loro legge e i loro uomini arrivavano anche nei più sperduti poderi agricoli, come nessuna forza pubblica era capace di fare; venivano magnificati come giustizieri, come paladini dei diritti degli oppressi, e come tali godevano di una tacita – o talvolta esplicita – solidarietà e comprensione da parte delle gerarchie ecclesiastiche, del mondo della cultura, della politica e perfino delle istituzioni che, nella loro altalenante presenza, trovavano comunque conveniente assecondare forme succedanee di mantenimento dell’ordine pubblico.
«Per il clero, soprattutto nei piccoli centri, la mafia si inseriva in un contesto sociale caratterizzato da una violenza endemica e apparentemente irrisolvibile. Per un clero povero, privo di mezzi, tradizionalmente legato a logiche familiari e claniche, era estremamente difficile, se non impossibile, resistere alle pressioni e alle avances dei mafiosi. L’immagine del mafioso era poi sostanzialmente quella di “vero” siciliano: familismo, onore, volontà di reagire con violenza ai soprusi, riservatezza, uniti a un tradizionalismo morale e religioso» (Romano 2002, p. 161).
In un piccolo paese dell’entroterra palermitano si racconta ancora – abbiamo annotato personalmente il ricordo di un anziano testimone – del capomafia che negli anni del dopoguerra, incontrando nella piazza affollata un malvivente accusato di aver recato violenza a una vedova e alla figlioletta dodicenne, gli rivolgeva contro l’arma da fuoco gridando: «Ti uccido davanti a Dio», quasi a voler ricordare a tutti i presenti che a quell’atto solenne egli, in quel momento, attribuiva il valore istituzionale e sacro di giustizia divina.
Degli uomini di rispetto, in particolare, si stimava la devozione alle cause religiose e la prodigale generosità con cui finanziavano le opere legate alla Chiesa. Ricordo che appartiene ormai alla storia è, ad esempio, quello che riguarda il capomafia siculo-americano Frank Coppola, nominato membro onorario della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana), per la sua opera di sostegno alle Orfanelle della Chiesa di Partinico. E quello che racconta di Cesare Manzella, capomafia di Cinisi1, fuggito negli Stati Uniti, che al suo rientro in Sicilia nel 1947 aveva fatto propria la causa dell’orfanotrofio delle suore del Sacro Cuore del Verbo Incarnato di Cinisi. Altro aneddoto è quello che racconta del plauso che ricevette il viaggio in Italia di Jimmy Quarasano2 (cognato del capomafia John Bonventre), giunto appositamente dagli Stati Uniti per portare in dono le offerte della comunità degli emigranti siciliani per la ricostruzione della chiesa della Madonna del Ponte di Partinico; tra le offerte spiccava per generosità quella di John Priziola che, peraltro, di una confraternita religiosa intitolata alla Madonna del Ponte era presidente3.
E, ancora, a Ribera, centro agricolo dell’Agrigentino, persiste il ricordo delle ingenti rimesse in denaro inviate in paese da Samuel Rizzo Decavalcante – originario di Monreale (Palermo), poi trasferitosi negli Stati Uniti – per l’acquisto di un terreno su cui realizzare la colonia marina estiva dell’istituto San Giuseppe Boccone del Povero, gestito dalle suore dell’ordine religioso del Sacro Cuore di Gesù. Una volta realizzata, l’opera venne inaugurata il 9 settembre 1967 proprio da Rizzo Decavalcante, anch’egli giunto appositamente dagli Stati Uniti, in veste di presidente di quel Comitato che si era prodigato per la raccolta dei fondi. Solo due anni dopo, il «Giornale di Sicilia» del 18 dicembre 1969 avrebbe dato notizia del duro colpo inferto dalla Polizia americana a Cosa Nostra, in conseguenza dell’arresto del Rizzo Decavalcante, colà meglio conosciuto come Sam lo stagnino, esponente di una potente famiglia mafiosa, accusato di estorsioni e altro. Più recente, invece, è il contributo di informazioni fornito da due collaboratori di giustizia italo-americani, che hanno offerto una loro versione – ancora da sottoporre a verifica dibattimentale – sulle attività intraprese dalla comunità d’oltreoceano in favore dei compaesani siciliani. Il primo a parlarne è stato Frank Scarabino4:
«Ho partecipato a diversi ricevimenti con numerosi uomini d’onore provenienti dalla Sicilia. Ricordo in particolare almeno tre ricevimenti organizzati dal Ribera Social Club di Elizabeth in diversi locali affittati per l’occasione. I soci del club sono americani oppure provengono dal paese di Ribera. Ogni tavolo versava la somma di 10.000 dollari apparentemente destinata a fini di beneficenza in favore dell’orfanotrofio di Ribera. Preciso che in realtà l’orfanotrofio viene utilizzato già da circa trenta-quaranta anni come struttura di copertura per il riciclaggio di denaro provento del traffico di stupefacenti fin dai tempi di Sam Decavalcante»5.
Il racconto di Scarabino è stato riscontrato da un secondo collaboratore di giustizia, Anthony Rotondo6, anch’egli legato alle famiglie siculo-americane:
«L’orfanotrofio San Giuseppe di Ribera era sovvenzionato dalla famiglia Decavalcante e da Joe Bonanno, boss della famiglia Bonanno di New York. Anche se non mi risulta direttamente, è probabile che l’orfanotrofio servisse per riciclare denaro.
Ogni anno ad Elizabeth i membri del Ribera Club organizzavano un ballo cui partecipavano circa mille persone. In quest’occasione, vendevamo dei biglietti a 100 dollari l’uno. I maestri dell’orfanotrofio, che erano dei religiosi, venivano in America con 10-15 bambini e soggiornavano nelle case dei membri della famiglia Decavalcante. Il ballo non è più stato organizzato dopo il 1994, anche perché circa due anni prima Lou Larasso e John D’Amato, che erano sottocapi della famiglia Decavalcante, erano stati uccisi. [...] Dal 1995 non venne più fatto il ballo ma i soldi continuavano ad essere raccolti e inviati a Ribera. La festa si teneva a maggio.
Non escludo che i Decavalcante di Elizabeth abbiano continuato ad organizzare dei ricevimenti, ma certamente non erano del livello dei precedenti. Io mi sono limitato ad inviare i soldi. Ho sentito dire che i soldi arrivavano da Elizabeth a membri della famiglia di Ribera»7.
Ogni necessaria verifica sulla fondatezza delle circostanze narrate dai due collaboratori, che qui ci limitiamo a registrare, è – ovviamente – affidata alla magistratura. Ciò che del racconto vorremmo cogliere, a prescindere dai riscontri giudiziari, è il forte valore simbolico attribuito in Cosa Nostra alle opere devozionali, soprattutto a quelle con una visibile ricaduta sulla comunità e sul territorio: gli uomini di mafia hanno sempre amato mostrarsi devoti e caritatevoli, filantropi e benefattori, tentando di dare una rappresentazione verosimile della loro religiosità.

1.2. Confraternite

I riti e le devozioni religiose incrociano ancora oggi, in maniera persistente e diffusa, le storie degli uomini e delle donne dell’universo mafioso. A sottolinearlo è anche Nicola Gratteri, componente della DDA di Reggio Calabria, attento conoscitore del fenomeno criminale mafioso:
«Si sa che per le feste patronali i mafiosi sono molto generosi con le offerte. Per loro è una sorta di ostentazione del potere, ma anche una forma di superstizione. [...] La Chiesa ha un ruolo fondamentale non solo perché la ’ndrangheta è in apparenza molto devota e ossequiosa, ma soprattutto perché usa tutto ciò che può offrirle visibilità e riconoscimento sociale. Spesso, nelle processioni, gli affiliati sono vestiti da fratelli e portano la statua del santo a spalla. Vogliono essere in prima fila. A Polsi, per esempio, non tutti potevano avvicinarsi alla statua della Madonna e ballarvi davanti. Potevano farlo solo gli affiliati o chi era da loro autorizzato» (Carazzolo, Laurenti, Scalettari, Valle 2003).
Con l’accelerazione dei processi di modernizzazione e di secolarizzazione, è aumentata anche la frattura tra credo religioso e pratica sacramentale e, dunque, il distacco tra impegno morale e cerimoniale religioso. Scrive Luigi Patronaggio:
«È processualmente accertato che diverse confraternite operanti nelle borgate palermitane sono sorrette da Cosa Nostra perché tramandano una religiosità che è ordine e legittimazione» (1998, p. 100).
La Confraternita del SS. Sacramento di Marineo, un grosso centro dell’interno sulla strada che da Palermo conduce a Corleone, è una delle più antiche d...

Indice dei contenuti

  1. Sigle e abbreviazioni
  2. Prologo. All’ombra del monte Grifone
  3. 1. Feste, processioni e labari
  4. 2. Riti di passaggio
  5. 3. Funerali e matrimoni
  6. 4. Le voci di dentro
  7. 5. Confessione e pentimento
  8. 6. La pastorale che divide
  9. 7. Prove di trattativa
  10. 8. Luoghi di confine: le apologetiche sulla mafia
  11. Epilogo