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Dalla complessità all'impoverimento

  1. 318 pagine
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Dalla complessità all'impoverimento

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La cultura è per sua natura sommamente precaria, incompleta, non ereditabile da nessun Dna. Non solo, ogni cultura comporta inevitabilmente una riduzione della complessità e contiene sempre in sé il germe di un qualche impoverimento: la cultura è sempre una coperta troppo corta rispetto alla complessità del mondo. Per questo motivo le culture non sono tutte uguali, tutte ricche o tutte povere allo stesso modo. Eppure la cultura ha rappresentato un indubbio vantaggio evolutivo per il genere umano, altrimenti votato all'estinzione.

È compito degli antropologi, che hanno fatto della cultura un loro concetto cardine, indagarne e svelarne gli aspetti problematici e i lati oscuri: in queste pagine, Francesco Remotti avanza l'ipotesi che sia giunto il momento di rivedere in profondità il concetto di 'cultura', restaurarlo e difenderlo oltre che criticarlo, così da trarre nuovi strumenti e indicazioni utili per l'antropologia e la nostra comprensione del mondo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116036
Categoria
Antropologia

Capitolo V. Incompletezza

1. Definizioni e approssimazioni

La prospettiva nella quale la nozione di incompletezza – una nozione chiave per diverse problematiche antropologiche – viene ad assumere un rilievo del tutto particolare è quella che da alcuni anni si è convenuto chiamare ‘antropopoiesi’ (Allovio, Favole 1996; Calame, Kilani 1999; Remotti 1996a, 1996b, 1996c, 1997, 1999, 2000). Se si adotta un’impostazione che in modo programmatico pone a fuoco le modalità di ‘costruzione’ degli esseri umani, è inevitabile che vengano evocati da un lato le carenze, ovvero le incompiutezze di base, che in quanto tali motivano la necessità di costruzioni antropopoietiche e, dall’altro, i loro eventuali effetti di completamento. C’è un nesso evidente tra incompletezza di base ed esigenza di costruzione, che dovrebbe porvi rimedio; così come vi è pure un nesso tra modalità di costruzione ed esiti di completamento, anche se, beninteso, rimane del tutto aperto il problema del raggiungimento dell’obiettivo della completezza. L’antropopoiesi è – come si è detto – una prospettiva teorica; ad essa si oppongono quindi impostazioni le quali rifiutano o considerano irrilevante l’idea di costruzioni che completino in qualche modo gli esseri umani. È quasi d’obbligo che una prospettiva anti-antropopoietica faccia leva in maniera dichiarata o meno su un qualche principio di completezza; ed è pressoché inevitabile che tale principio venga fatto coincidere con l’idea di natura umana: solo una natura umana di per sé integra e completa non ha bisogno di alcun intervento antropopoietico. In via preliminare, il nesso tra antropopoiesi e in/completezza può dunque essere formulato e articolato nei seguenti modi: a) viene postulata un’incompletezza di fondo che sollecita operazioni di tipo antropopoietico; b) le operazioni antropopoietiche dovrebbero porsi obiettivi di completamento, e ciò – potremmo aggiungere – a prescindere dai risultati effettivamente conseguiti; c) una supposta completezza di fondo renderebbe invece del tutto superflua, velleitaria e illusoria qualsiasi intrapresa antropopoietica. Possiamo immaginare dunque una sequenza di questo genere:
incompletezza antropopoiesi completamento
e ritenere che essa sia quella più normalmente adottata da una prospettiva antropopoietica. Ma l’antropopoiesi lavora sempre nel senso del completamento, cioè – a prescindere che ci riesca o meno – avendo di mira pur sempre un obiettivo di completezza?
Prima di approfondire questi nessi e di affrontare la domanda che costituisce il problema conclusivo del nostro discorso, vale forse la pena chiedersi che cosa si intende, in generale, con le nozioni di completezza e incompletezza. È abbastanza evidente che l’attributo di completezza può essere riferito a uno stato, a una condizione, a un’operazione, a un processo, così come a un oggetto, a un sistema o a una struttura. Per semplificare la nostra analisi, riteniamo di poter asserire che la completezza designa una condizione che viene raggiunta attraverso un processo o che inerisce a una certa struttura.
I) Nel primo caso (processo) si tratta di ‘compiere’ un atto o di portare a termine una serie di azioni mediante cui si realizzano progetti o programmi, i quali non necessariamente danno luogo a costruzioni: si compiono o si realizzano anche programmi di distruzione e di annientamento. La completezza dei processi (siano essi costruttivi o distruttivi) viene raggiunta allorché non sono previsti, e non si hanno da compiere, atti o azioni ulteriori. È la parola ‘fine’ ciò che decreta il completamento di un processo. «Tutto è compiuto»: così dice Gesù sulla croce per indicare il completamento di un processo esistenziale, la fine della sua vita terrena (Giovanni 19, 30). Altro esempio biblico è quello della creazione del mondo: «allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro» (Genesi 2, 2). Il lavoro della creazione era stato completato e il completamento si traduce in una sorta di confine temporale: il settimo giorno è il limite che pone fine e che racchiude in un tempo definito il processo della creazione del mondo.
Da un punto di visto analitico, è forse opportuno distinguere tre tipi di completamento di processi, secondo che:
a) il completamento si riferisca a obiettivi che si intendono perseguire, a prescindere dalla quantità di tempo che occorre impiegare;
b) il completamento sia stabilito in anticipo dal susseguirsi di azioni, ciascuna delle quali occupa periodi di tempo predeterminati, a prescindere dal conseguimento di eventuali risultati;
c) il completamento del processo sia stabilito dall’esaurirsi del tempo concesso, previsto, prestabilito.
In tutti e tre i tipi di completamento vi è un confine temporale, ma:
a) nel primo tipo la parola ‘fine’ appare quando un determinato risultato sia stato raggiunto (per esempio, la ‘soluzione finale’ come annientamento degli Ebrei da parte della Germania nazista, o lo sterminio dei Tutsi da parte degli Hutu nel Rwanda);
b) nel secondo tipo la parola ‘fine’ appare quando è stato formalmente compiuto l’ultimo atto previsto (i rituali sono in genere assimilabili a questo secondo tipo di completamento);
c) nel terzo tipo la parola ‘fine’ prescinde sia dal risultato raggiunto sia dalle azioni previste e programmate.
Aggiungiamo che:
a) nel primo tipo il giudizio di completezza ha di mira un elemento tutto sommato esterno rispetto alla serie delle azioni programmate, le quali risultano strumentali rispetto all’obiettivo che ci si è proposti: il processo non è terminato fino a che non si raggiunge l’obiettivo;
b) nel secondo tipo il giudizio di completezza attiene invece all’ordine intrinseco delle azioni, le quali appaiono per così dire fine a se stesse, comprendendo in sé il risultato che si vorrebbe raggiungere;
c) nel terzo tipo il giudizio di completezza dipende soltanto ed esclusivamente dalla quantità di tempo predeterminata, non da ciò che si riesce a fare entro il periodo prestabilito.
Costruire una casa, per esempio, appartiene al primo tipo: il processo è completo quando il fine (la casa) è stato raggiunto, e la lunghezza del processo è determinata dal raggiungimento dell’obiettivo. Celebrare una messa nella liturgia cattolica o eseguire una sinfonia sono invece esempi del secondo tipo: qui il processo si completa quando l’ultima azione programmata (gesto rituale o accordo musicale) è stata compiuta. Giocare una partita di football o partecipare a una tornata di elezioni politiche sono esempi del terzo tipo: il tempo è predeterminato ed è del tutto estraneo ai contenuti delle azioni e agli esiti delle stesse.
II) Oltre alla completezza dei processi, abbiamo poi accennato a una completezza di strutture. In questo caso, il giudizio di completezza si riferisce in qualche modo a un’entità, comunque venga intesa o si presenti. Se un processo viene giudicato completo allorché non vi sono più azioni da compiere (sia perché l’obiettivo specifico è stato conseguito, sia perché l’ordine intrinseco delle azioni è stato realizzato), una qualsiasi entità è giudicata completa allorché non vi sono più elementi esterni da aggiungere e integrare.

2. Completezza come soglia critica e tipi/gradi di incompletezza

In entrambi i tipi di casi prospettati (I, processo; II, struttura) potremmo dire che la completezza designa una soglia critica, al di là della quale le eventuali aggiunte di azioni o di elementi risultano esorbitanti e perciò o vengono rifiutate oppure comportano una messa in crisi dell’ordine e della forma realizzati. Una completezza di ordine fisico o meccanico può rendere a un certo punto impossibile l’aggiunta di elementi esterni (a un contenitore pieno fino all’orlo di acqua non si possono più aggiungere altre quantità di liquido o di altri elementi, pena il traboccamento). Una completezza di ordine estetico – soggetta com’è al gusto individuale e collettivo – espone maggiormente l’entità a cui si riferisce (un quadro, una sinfonia, un volto umano truccato) ai rischi del pletorico, compromettendo gravemente lo stesso risultato estetico che si intendeva raggiungere.
Dire ‘soglia’ significa anche alludere a ciò che si presenta al di qua di questo limite: prima della completezza esistono evidentemente condizioni di incompletezza, la quale può essere maggiore o minore, secondo la distanza che separa il livello considerato dalla soglia della completezza. In quanto soglia critica, la completezza è un punto di equilibrio, e quasi di bilico, al di là del quale si rischia di cadere nel disordine e nel disfunzionamento, e al di qua del quale l’incompletezza – se particolarmente accentuata – può generare anch’essa gravi problemi (estetici, funzionali, statici, in relazione ai tipi di realtà considerati). Se la completezza è una soglia critica e un difficile punto di equilibrio, l’incompletezza designa invece un margine, talvolta assai ampio, di variazione. C’è infatti incompletezza e incompletezza; in ogni sistema, entità o processo c’è una gradazione più o meno estesa di incompletezza. Mentre la completezza si concentra in un punto, nel senso che un determinato tipo di realtà può essere o no completo (e se non è completo anche per poco, ciò significa che siamo in un regime di incompletezza), l’incompletezza coincide invece con una gamma di situazioni e gradi diversi: la completezza è una questione di sì o di no, mentre l’incompletezza è fatta di più e di meno.
Inoltre, possiamo legittimamente ritenere che vi siano tipi diversi di incompletezza in relazione alla sussistenza dell’entità, del processo o del sistema. Un’abitazione senza ripostiglio è forse giudicata come incompleta, ma è senz’altro definibile e accettabile come casa; una casa senza impianto di riscaldamento o senza servizi igienici è probabilmente ancora una casa, ma questo tipo di incompletezza crea disagi e problemi indubbiamente maggiori in una società urbana come la nostra; e una casa senza tetto può ancora essere considerata come una casa? Questo tipo di incompletezza pone in questione non solo la sua maggiore o minore funzionalità, ma la sua stessa esistenza come casa (Aristotele, Fisica VII, 246a 17). Possiamo dunque far valere il criterio della ‘tollerabilità’ e asserire che vi sono:
a) gradi e/o tipi di incompletezza del tutto tollerabili per un determinato sistema;
b) altri gradi e/o tipi di incompletezza che invece intaccano più o meno profondamente la sua funzionalità;
c) altri gradi ancora che pongono a repentaglio la stessa esistenza del sistema (un martello senza manico è ancora un martello?).
Un altro genere di considerazioni riguarda invece la ‘rimediabilità’ o meno dei tipi di incompletezza. Se i tipi di incompletezza che definiamo del tutto tollerabili non richiedono necessariamente interventi riparatori o compensatori (come può essere un libro senza prefazione o senza indice dei nomi), è verosimile che i tipi di incompletezza più gravi esigano che si provveda a sostituzioni, arrangiamenti, integrazioni (dall’esterno o dall’interno). Esistono anche però incompletezze gravi, che possono comunque essere sopportate senza che si possa o si debba ricorrere a interventi specifici. Per quanto grave, la mancanza di un arto (un braccio, una gamba) o di certi organi (gli occhi) può essere tollerata da un organismo animale e umano, senza che venga posta necessariamente in seria crisi la funzionalità del sistema globale. La mancanza o il deterioramento di organi assolutamente vitali e imprescindibili, come polmoni, cuore, cervello, si configurano invece come un’incompletezza intollerabile, la quale infatti pone a repentaglio l’esistenza stessa del sistema (dell’organismo). I tipi di incompletezza intollerabili possono a loro volta essere distinti in tipi di incompletezza rimediabili (per esempio, attraverso un trapianto di cuore, di reni, di fegato) o irrimediabili. A ben vedere, tutti i tipi o gradi di incompletezza – da quelli più lievi e perfettamente tollerabili (per esempio, in un organismo umano la mancanza di capelli), a quelli più gravi e comunque tollerabili (la mancanza di un arto), a quelli più gravi e intollerabili (mancanza di un organo vitale) – si presentano come rimediabili o irrimediabili, e queste diverse possibilità di combinazione determinano la gravità dell’incompletezza. Se a un estremo troviamo un’incompletezza tollerabile e rimediabile (ITR), all’estremo opposto si collocano le situazioni di incompletezza intollerabile e irrimediabile (III), mentre i gradi intermedi sono dati da un’incompletezza tollerabile e irrimediabile (ITI) e da un’incompletezza intollerabile e rimediabile (IIR). Il quadro delle combinazioni possibili risulta dunque essere il seguente:

3. Tollerabilità oggettiva e tollerabilità soggettiva; rimediabilità culturale

Ulteriori considerazioni riguardano ancora la nozione di tollerabilità. Dagli esempi proposti nel paragrafo precedente risultano due situazioni differenti:
a) da un lato possiamo applicare il criterio della tollerabilità di tipi e gradi di incompletezza a un sistema in quanto tale (tollerabilità oggettiva): un’automobile senza specchietto retrovisore conosce un tipo di incompletezza del tutto tollerabile dal punto di vista del suo funzionamento come meccanismo semovente (a parte la sanzionabilità di questo tipo di mancanza dal punto di vista del codice della strada); la mancanza dell’apparato elettrico determina invece un’intollerabilità oggettiva;
b) dall’altro lato esistono forme diverse di tollerabilità soggettiva, la quale si riferisce non al sistema in quanto tale e ai suoi margini di capacità di funzionamento, ma ai fruitori dei sistemi. Le incompletezze di un’automobile malconcia sono decisamente più tollerate in una città africana che non in una città europea.
Allo stesso modo è abbastanza evidente che una menomazione fisica può essere vissuta in modo diverso dai soggetti coinvolti (siano essi gli individui portatori di handicap o la società circostante). La cecità può in certi casi essere considerata come un’incompletezza che acuisce, in maniera sorprendentemente compensatoria, tanto gli altri sensi quanto l’intuizione mentale, ovvero la capacità di penetrazione intellettuale (Omero, Borges). Nell’antica Sparta i bimbi nati con alcune malformazioni organiche erano invece considerati come portatori di incompletezze intollerabili, a tal punto che venivano gettati – a quanto si è soliti dire – dal monte Taigete. La tollerabilità o meno di certe forme di incompletezza è quindi molto spesso un giudizio elaborato culturalmente, e diversamente vissuto sul piano individuale. I tipi di incompletezza a cui si va inesorabilmente incontro con la vecchiaia generavano negli anziani inuit un atteggiamento autodistruttivo (abbandono e suicidio nel deserto artico), motivato da un evidente giudizio di intollerabilità, interiorizzato dagli stessi interessati. Un’incompletezza (mancanza) di ordine morale – con cui, come si suole dire, si ‘perde’ la faccia – può essere giudicata talmente intollerabile nella cultura giapponese da indurre il soggetto a compiere harakiri, gesto con cui l’individuo intende dimostrare e recuperare in estremo la propria completezza o integrità.
In base al suo apparato di criteri e di valori una cultura giudica quindi in modo diverso (tollerabili o intollerabili) i livelli e i tipi di incompletezza che colpiscono i propri appartenenti o gli oggetti di cui essi fanno uso. Occorre aggiungere che le società adottano anche diversi mezzi tecnologici, sociali e morali per rendere più o meno tollerabili e più o meno rimediabili certi casi di incompletezza. È evidente che la tecnologia e, in sua mancanza, l’ingegnosità incidono sui parametri sia della tollerabilità sia della rimediabilità: le protesi meccaniche compensano in una certa misura alcune specie di incompletezza fisica e i computer sono di grande aiuto per consentire a vari portatori di handicap di non essere eccessivamente relegati in categorie marginali. Molti sforzi sono stati compiuti in genere dalla società contemporanea per affrontare vari tipi di handicap, così da aumentare la loro rimediabilità e il loro grado di tollerabilità individuale e sociale. Ciò nonostante, occorre rilevare come la faccenda dell’incompletezza – reale o presunta, grave o alleviabile, rimediabile o irrimediabile – emerga talvolta come un dramma quasi incontenibile, specialmente se il giudizio di incompletezza riguarda le persone che ci sono più care, o in cui ci si rispecchia e ci si identifica: un coniuge, un figlio, un genitore. L’opinione pubblica è stata colpita alcuni anni or sono da una notizia di cronaca: in...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo I. Cultura
  3. Capitolo II. Natura e cultura
  4. Capitolo III. Apertura
  5. Capitolo IV. Comunicazione
  6. Capitolo V. Incompletezza
  7. Capitolo VI, Complessità
  8. Capitolo VII. Densità
  9. Capitolo VIII. Sospensione
  10. Capitolo IX. Impoverimento e creatività
  11. Fonti dei testi