VII. Liberazione o resa tedesca?
Prima che queste difficoltà fossero superate era necessario che passassero ancora altro tempo e altre prove. La prima, e forse la principale, di esse consisteva nella necessità di dimostrare con i fatti che la risolutezza nella lotta contro il fascismo non era solo il patrocinio dei militanti che, nell’Italia settentrionale, avevano dato vita alle formazioni armate di partigiani antifascisti e antinazisti ma rappresentava anche una volontà più generale, sopravvissuta al disgusto per la guerra persa, alla stanchezza della lotta combattuta e, al contrario, animata da una sincera volontà di contribuire alla battaglia comune per la libertà e il cambiamento. Tuttavia questa prova non dipendeva solo dagli italiani ma anche dagli Alleati e dalle rispettive concezioni che essi nutrivano rispetto al futuro dell’Italia. Alla metà del luglio 1944, il Comitato politico del Dipartimento di Stato esprimeva una valutazione approfondita del caso:
In un periodo come questo nel quale, per effetto delle operazioni militari, godiamo in Italia di una particolare posizione di autorità, dovremmo sostenere e incoraggiare quegli elementi e quelle aspirazioni che faranno sì che la nazione italiana diventi una forza democratica e costruttiva nell’Europa futura [...]. Gli Stati Uniti non accettano la teoria delle «sfere di influenza» economiche e politiche. Sebbene, per motivi geografici, l’interesse del nostro paese verso l’Italia possa essere minore di quello di altre potenze, abbiamo tuttavia un interesse molto preciso rispetto allo sviluppo di rapporti commerciali normali e reciprocamente vantaggiosi, nella protezione delle proprietà e degli investimenti americani in Italia e nel far sì che l’Italia divenga una forza positiva per la pace e la cooperazione nel mondo postbellico1.
Per quanto riguarda la Gran Bretagna, come scrive Ellwood, l’atteggiamento verso la questione italiana era «dettato dal passato, in ragione del danno e dell’affronto causati all’impero e al suo prestigio dalle avventure ‘italiane’ e ‘non fasciste’ del 1935-40». Alla metà del 1944 tuttavia i protagonisti inglesi del dramma italiano avevano perso di vista il mutato peso che un paese sconfitto poteva avere nella vita internazionale
e non erano quindi in grado di definire in maniera meno arbitraria un ruolo attivo per l’Italia in un sistema internazionale postbellico. Nel peggiore dei casi, se cioè si fossero verificati rivolgimenti interni e catastrofi, l’Italia sarebbe stata semplicemente buttata a mare dagli inglesi, sempre che fosse stata immaginabile una linea d’azione puramente unilaterale2.
Né la già citata visita che Churchill fece al fronte italiano mutò la situazione, proprio mentre l’avanzata sovietica verso Varsavia e la lotta dei partigiani di Tito in Jugoslavia attiravano ormai l’attenzione del Primo ministro britannico ben più delle vicende italiane. Perciò, quando venne il momento di attuare le promesse contenute nella dichiarazione di Hyde Park, esse presto vennero annacquate in una serie di burocratismi e genericità, mentre da parte statunitense la questione, anche per le ormai ben note ragioni elettorali, venne presa molto sul serio. La tempesta diplomatica che accompagnò la crisi del primo governo Bonomi fece il resto, completando da parte italiana la percezione del mutamento avvenuto per quanto lo riguardava. Anche l’azione di Togliatti e del Partito comunista, che a Roma assumeva posizioni più che moderate, ostentava un pieno impegno verso il primato dell’unità nazionale nella lotta contro il fascismo, proprio mentre nel movimento partigiano emergevano posizioni radicalmente divergenti.
L’insieme di questi elementi mette in evidenza la centralità allora acquistata dai problemi posti dal rafforzamento dei reparti partigiani, dalla loro capacità di sviluppare un progetto politico autonomo e dallo stretto collegamento che tutto ciò aveva sul modo in cui gli Alleati conducevano la guerra in Italia, sul modo in cui accettavano il principio della ricostituzione di un esercito italiano capace di collaborare davvero, lungo la linea del fronte, con le forze alleate; sulla misura, la qualità e i tempi degli aiuti destinati alle forze della Resistenza che combattevano nell’Italia settentrionale; sui rapporti tra queste forze e il governo di Roma e, in definitiva, sulla qualità delle intenzioni militari alleate in Italia, cioè sulla volontà di combattere davvero una guerra per la rapida liberazione del paese, oppure se subordinassero questo aspetto a valutazioni politiche di ordine generale, relative all’andamento della guerra negli altri scacchieri d’Europa e all’andamento dei rapporti politici all’interno della Grande Alleanza.
Dalla liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, alla resa delle forze tedesche in Italia, il 2 maggio 1945, trascorsero undici mesi. Chiunque conosca la geografia della costa adriatica dell’Italia sa che per salire dalla costa abruzzese verso la pianura padana anche con veicoli primordiali, non esistevano ostacoli orografici tali da costituire difficoltà di rilievo a chi avesse voluto rapidamente avanzare in quella direzione, così come meno ancora ve ne erano rispetto all’ipotesi di un’avanzata fino alla foce dell’Adige e al delta del Po. Il 7 giugno, nell’entusiasmo della liberazione di Roma, il generale Alexander descriveva il morale delle sue truppe come «irresistibilmente alto». «Né gli Appennini e nemmeno le Alpi – riteneva Alexander – sarebbero un ostacolo serio per il loro entusiasmo e la loro abilità»3. Forse l’enfasi del momento aveva il sopravvento sul realismo. Ma più meditatamente, nelle sue memorie, lo stesso Alexander scriveva:
Se ci fosse stata lasciata tutta la nostra forza di ventisette divisioni, avremmo potuto, passati gli Appennini, aprirci la strada nella valle del Po, raggiungere il fiume Piave a nord di Venezia con diciotto divisioni e prendere il «vallo di Lubiana» attraverso il quale passano le principali vie e ferrovie dall’Italia alla Jugoslavia4.
Viceversa si affidò al fronte italiano solo il compito di tener impegnati un certo numero di reparti tedeschi senza che ciò pregiudicasse la consistenza delle armate che combattevano sulla costa dell’Atlantico. Questa spiegazione, che aveva evidenti motivi militari, era tuttavia accompagnata da una serie di considerazioni politiche dalle pesanti ripercussioni interne. Sebbene da principio le speranze di Alexander fossero calorosamente appoggiate da Churchill, durante l’estate del 1944, dopo la visita in Italia, questo atteggiamento mutò. Le ragioni di questo cambiamento riflettono la percezione britannica rispetto alla divisione postbellica dell’Europa. Anthony Eden da tempo prevedeva che la penisola balcanica, con eccezione della Grecia, sarebbe stata dominata dai sovietici e su queste posizioni trascinò gradualmente Churchill, che da mesi pensava al dopoguerra ma che, dinanzi alla rapida avanzata sovietica prima in Polonia e poi verso la Romania, l’Ungheria, la Bulgaria, mentre la Jugoslavia era praticamente sotto il controllo dei partigiani comunisti di Tito, più che dalla guerra contro la Germania, era ormai ossessionato dall’idea che l’Armata Rossa si impadronisse «come un cancro» di tutta l’Europa centro-orientale5. Perciò si preparava, con cinico realismo, a discutere con Stalin circa la divisione dei Balcani in zone di influenza, secondo il sin troppo noto criterio delle percentuali6. Dalla mezza estate del 1944 in poi, tutti i movimenti militari in Italia andarono in parallelo con l’avanzata sovietica nei Balcani. Ma si trattava di una scelta politica, costruita sulla volontà di una reciproca sorveglianza, piuttosto che di una scelta militare. E, a ben vedere, si trattava anche dell’applicazione di ciò che, in pratica, era stato concordato durante la Conferenza di Teheran.
Questa intelaiatura riguardante la strategia generale di guerra si inseriva nell’attualità politico-militare italiana. Basta pensare al tema, sempre sottovalutato, del ruolo delle forze regolari italiane nella guerra contro la Germania per avere l’esatta misura di quanto e come gli Alleati fossero disposti a vedersi affiancare da un vero esercito italiano, che avrebbe nel dopoguerra posto le basi per rafforzare le «pretese» italiane di veder trasformata la cobelligeranza in vera e propria alleanza. Pochi giorni dopo il suo insediamento, Bonomi aveva iniziato una vera e propria offensiva diplomatica per ottenere che l’esercito italiano fosse ricostituito e riarmato in misura tale da poter prendere parte alla guerra. Invero, questa offensiva era stata avviata già da Badoglio, che sin dall’incontro di Malta, il 29 settembre 1943, aveva offerto che fossero utilizzate contro i tedeschi le forze armate italiane disponibili7. Dinanzi al silenzio degli Alleati, il 19 ottobre 1943, il generale Ambrosio, allora capo di Stato maggiore, era ritornato sulla stessa richiesta, fornendo indicazioni numeriche sulla consistenza del contributo italiano8. Del resto, il fatto che dal 13 ottobre l’Italia avesse dichiarato guerra alla Germania legittimava la richiesta di ricevere gli armamenti necessari per combattere, come il generale Alexander aveva riconosciuto nel momento in cui aveva preso atto della costituzione di un raggruppamento motorizzato di circa 5000 uomini, armati ed equipaggiati con materiale italiano9.
Gli Alleati posero inizialmente un veto alla creazione di un Corpo di volontari della libertà. Il tentativo promosso a Brindisi sotto il patrocinio di Croce, animato dal genero Raimondo Craveri, dall’azionista Filippo Caracciolo di Castagneto e dal generale Pavone, portò alla costituzione di un Comitato italo-alleato, ma fu bloccato già ai primi del novembre 194310. Non vanno esagerate le potenzialità di un gruppo di volontari certamente animati da nobili intenzioni, ma che, allo stesso Caracciolo, apparivano seguaci di una «guerra privata» e «immaginosa» contro i tedeschi. Nondimeno, l’atteggiamento alleato apparve preconcetto11. Era infatti l’opposto di quello del memorandum di Québec sbandierato durante le trattative dell’armistizio. Lo confermò il tentativo di impedire al Principe ereditario di vestire la divisa militare e di recarsi in zona di guerra, dove poi riuscì comunque a illustrarsi12. Per i giovani desiderosi di continuare a combattere per il riscatto della Patria, l’attesa era insopportabile e logorante. Molti decisero di trasferirsi nelle file della resistenza attiva al Nord. Basterà citare i nomi di Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza, e di Giaime Pintor, caduto mentre attraversava le linee sul Volturno13.
Il discredito degli alti comandi non determinò la decisione di minimizzare il contributo militare italiano alla Liberazione, ma influì sulla percezione negativa del Regno del Sud nell’opinione pubblica anglosassone. È invece sintomatico che gli Alleati non si opponessero affatto alla ricostituzione a Sud dell’Arma dei carabi...