Capitolo 1.
Le disuguaglianze in Italia
vengono da lontano
La storia d’Italia degli ultimi anni ci parla di un paese fermo, la cui economia non cresce più, con poca o nulla mobilità sociale, nel quale le disuguaglianze economiche e territoriali sono enormi. L’economia non avanza, produttività e capacità innovativa sono al palo, anche perché il paese non investe in ricerca e innovazione. La mobilità tra una classe e l’altra è bassa, persino più bassa di un tempo. Le mobilità di reddito, di istruzione e di classe dell’Italia di oggi sono quelle di una società ferma, bloccata. L’ascensore sociale – un tempo dato da scuola e lavoro – non funziona. L’istruzione non paga ed è appannaggio di una parte minoritaria della popolazione. E lo Stato non investe per favorirla. La scarsa mobilità sociale, poi, si associa ad un’alta disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. L’Italia è un paese disuguale e le disuguaglianze hanno origini profonde e riflettono divari regionali e territoriali che non fanno che consolidarsi, accentuandosi.
Tale immobilità, tali tendenze non sono cosa di questi giorni e hanno radici che vanno indietro nel tempo. Vediamole con ordine e cerchiamo di capire perché le disuguaglianze – non solo economiche – si inseriscono, complicandolo, in un quadro preoccupante, che viene da lontano.
1. Un’economia ferma
Dopo i venticinque anni del boom economico nel quale il paese era definitivamente “entrato nella modernità”, dopo il “grande balzo in avanti” che aveva portato ad un aumento dei redditi medi e dei salari, facendo entrare l’Italia nel novero delle grandi potenze industriali, l’allargarsi del ceto medio, il riscatto dei ceti popolari, la scolarità di massa, la mobilità sociale e il welfare universalistico, l’Italia ha attraversato gli anni della crisi (post 1973) e della ristrutturazione continuando a crescere, anche se ad un passo ridotto, grazie ad un mix di spesa pubblica e sociale e politiche concertate. In quegli anni, per reggere le spinte inflazionistiche e lasciare immutati privilegi e vantaggi acquisiti senza alterare equilibri settoriali e sociali consolidati, la spesa pubblica viene finanziata grazie ad un debito crescente che premia la classe media dei “BOT people” (con tassi di rendimento a due cifre) e politiche salariali “tutelate” (come con la scala mobile), lasciando che l’industria ristrutturi e riconverta, mentre la ricomposizione di classe riprende piede.
Se per gli altri paesi avanzati quello fu il lungo periodo del productivity slowdown, in Italia «la crisi non rallentò la produttività perché portò ad una diminuzione dell’occupazione (e ad un aumento della disoccupazione)» (Ardeni, 2019b). Nel 1992, il PIL pro capite italiano – così come il prodotto per ora lavorata – raggiunse finalmente un livello pari a quello di Germania e Gran Bretagna (Toniolo, 2013). Questo, però, «fu ottenuto grazie ad una diminuzione dell’occupazione e a un aumento della disoccupazione che venne compensato, politicamente, da un aumento della spesa sociale» (Ardeni, 2019a).
È dopo l’89, e soprattutto dopo il 1992, che il rallentamento si accentua ed è solo ancorandosi vieppiù all’Europa (e trovandovi protezione) che il paese trova riparo arrivando, però, sguarnito all’appuntamento con la globalizzazione incipiente. Con l’avvio dell’euro poi, nei primi anni Duemila, l’economia italiana si è definitivamente fermata. E la crisi del 2008 non ha fatto che accentuare il quadro.
La coincidenza è stata penalizzante, perché di fronte ai nuovi vincoli imposti dalla valuta europea l’Italia non ha saputo adeguarsi a euro e globalizzazione. E ha iniziato a restare indietro. Il reddito pro capite reale prodotto dal paese nel 2018 – 26,719 euro, ai prezzi del 2010 – è tornato ai livelli di vent’anni prima – era di 26,352 euro nel 1999 – ed è ancora ben al di sotto del massimo raggiunto nel 2007 di 28,699 euro, l’ultimo anno di crescita già debole prima della crisi. Gli anni Novanta si erano chiusi con un tasso di crescita medio annuo sul decennio dell’1,4%, in calo rispetto al 2,3% del decennio precedente. Anche se il 2000 aveva addirittura registrato un picco del 3,7% – il più alto dal 1988 – gli anni successivi confermavano il rallentamento, con un tasso medio annuale dell’1,1% fino al 2007. La crisi iniziata nel 2008 ha poi assestato un colpo da cui l’Italia non si è ancora ripresa (il tasso di crescita medio annuo del periodo 2008-18 resta ancora negativo e pari al –0,6%). Nel confronto internazionale, poi, l’Italia arranca, perdendo posizioni. Se, infatti, fino agli anni Novanta il nostro reddito pro capite si era avvicinato a quello tedesco e francese – le due economie europee maggiori –, da allora e, in particolare, dopo il 2007 se ne è costantemente allontanato ed è in continua diminuzione. Oggi, il reddito di un italiano è in media il 74,5% di quello tedesco (era stato il 94,6% nel 1996) e l’80,3% di quello francese (era stato il 97% nel 1996). E anche nei confronti della Spagna la distanza si è accorciata – sono loro che corrono mentre noi arranchiamo: il nostro reddito era del 47% superiore a quello spagnolo nel 1985 (la distanza maggiore di sempre), ma poi ha iniziato a calare e oggi il reddito pro capite italiano è appena maggiore del 6,8%.
Molto si è discusso in questi anni sulle ragioni di tale rallentamento dell’economia italiana, se esso sia dovuto ad una più lenta dinamica della domanda aggregata – consumi privati, investimenti e spesa pubblica – e delle esportazioni o se, viceversa, non dipenda da fattori più “...