La cristianità in frantumi
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La cristianità in frantumi

Europa 1517-1648

  1. 836 pagine
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La cristianità in frantumi

Europa 1517-1648

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Cinquecento anni fa la sfida di Martin Lutero alla Chiesa scosse i fondamenti della religione cristiana. Lo scisma successivo trasformò in modo radicale la relazione tra governante e governato; le scoperte geografiche e scientifiche misero alla prova la cristianità come comunità di pensiero; l'Europa emerse come una proiezione geografica. Raccontando questi mutamenti, Tommaso Moro, Ludovico Ariosto, William Shakespeare, Michel de Montaigne e Miguel de Cervantes crearono opere che ancora oggi riescono a restituirci i turbamenti del loro tempo. Mark Greengrass traccia un affresco affascinante dei cambiamenti che portarono alla crisi della cristianità e fissarono il quadro geografico e politico dell'Europa come la conosciamo oggi.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858141434

1.
Il crollo della cristianità occidentale

Quando, nel 1609, pubblicò la sua incisione intitolata The Revells of Christendome (Le gozzoviglie della cristianità, fig. 3) subito dopo la tregua nella controversia fra la Spagna cattolica e la recentemente costituita Repubblica delle Sette Province Unite dei Paesi Bassi, Thomas Cockson riprese il suo soggetto da ben noti stereotipi satirici che ironizzavano sulla cristianità. A capotavola c’è il papa Paolo V e, davanti a lui, altre teste coronate d’Europa (Enrico IV di Francia, Giacomo I d’Inghilterra e Cristiano IV di Danimarca). Di fronte, tre monaci cattolici che con loro si giocano a backgammon, a dadi e a carte il futuro dell’Europa. Un cane fa la pipì sul piede di uno dei monaci. Il messaggio dell’incisione era chiaro: nessuno aveva in mano il destino della cristianità, oramai affidato alla casualità del gioco. Molti degli elementi che contribuirono al crollo della cristianità occidentale erano all’opera in Europa già prima del 1500. Ma solo quando confluirono tutti insieme, interagendo l’uno con l’altro, l’eclissi della cristianità divenne totale.

L’impatto del Rinascimento

Il ritorno in auge dei testi e delle idee classiche era iniziato ben prima del 1517 nelle culture urbane dell’Italia settentrionale, delle Fiandre e della Renania. Esso aveva messo in crisi l’egemonia della scolastica come indirizzo comune della filosofia fra le élites d’Europa, e con essa il dominio della filosofia aristotelica. Gli studiosi umanisti consideravano loro compito recuperare nella loro purezza i testi dell’Antichità classica, e di entrare in dialogo col pensiero dei loro autori, sottoponendolo ad analisi e valutazione incrociata. I maestri dell’umanesimo insistevano sulla «persuasione», e insegnavano in che modo articolare ed esporre gli argomenti per vincere nelle discussioni con gli altri. I loro discepoli, allevati a forza di testi latini (soprattutto ciceroniani), assorbirono una nuova lingua e impararono quali attenzioni bisognava avere per tenere una corretta condotta da cittadini. Questo portò a una differente concezione del rapporto fra sovrano e sudditi, fra politico e sociale, e a un universalismo di tipo diverso (il «pubblico») rispetto a quello offerto dalla «cristianità».
Il «pubblico» era la più grande universitas immaginabile, una personalità fittizia agli occhi del diritto romano, distinta da coloro che la costituivano, una entità che poteva funzionare come persona fisica, essere un soggetto capace di diritti e responsabilità, e che poteva affidare ad altri la delega ad agire in suo nome. La universitas di una repubblica incarnava la volontà dei suoi membri. Potevano esserci vari tipi di repubbliche, più o meno virtuali. La «repubblica delle lettere», per esempio, fu avvantaggiata dal cambiamento dei modi di comunicazione e fu energicamente promossa dagli umanisti dell’epoca. Ma rifletteva anche la storia di un «capitale intellettuale» dell’Europa, che sfuggiva sempre più dalle mani di una piccola élite clericale e burocratica per trovarsi coinvolta in un mercato più complesso e cosmopolita di produttori e consumatori, in cui mecenati, stampatori, incisori, librai e lettori di vario genere avevano tutti degli interessi. Il modo in cui quel mercato funzionò, dipese dallo specifico ambiente locale; il che spiega perché il Rinascimento presenti una geometria intellettuale e sociale variabile, con un impatto diverso nelle varie parti d’Europa, e con i contorni distintivi rafforzati dalle divisioni religiose. Una delle sue componenti di rilievo furono le corti principesche, e il Rinascimento ben presto trasmigrò in esse e assunse le vesti di una cultura di corte, adattata alle corrispondenti esigenze e aspirazioni. Come le grandi scoperte scientifiche del XX secolo, il Rinascimento ebbe il potere di trasformare e di distruggere. Poté consolidare l’autorità ecclesiastica e politica ma poté anche minarla. Fu in grado di sfidare le idee fondamentali sulla provvidenza di Dio nel mondo ma anche di rafforzarle. La sua nuova pedagogia introduceva modi alternativi di intendere la conoscenza di sé stessi, del mondo e del suo creatore.
Gli umanisti scoprirono, fra le altre cose, che la filosofia antica aveva molto da dire a questo riguardo. Per capire Aristotele, bisognava collocarlo nel contesto di coloro con il cui pensiero si era confrontato. Egli cessava di essere una autorità unica su cui costruire verità e legittimità. Il processo era cominciato con l’edizione, la traduzione e la divulgazione del testo greco delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Quest’opera forniva una genealogia delle «sette» concorrenti dei filosofi greci, e dava così lustro a visioni che erano rimaste ai margini durante il Medioevo. Nel Rinascimento gli studiosi cominciarono a presentare Aristotele ai loro studenti all’interno di questa genealogia più complessa, e a prendere sul serio gli argomenti e i dibattiti del mondo greco. Alcuni filosofi nel XVI e inizio XVII secolo si fecero discepoli degli epicurei, degli stoici, dei platonici o dei pirronisti. Il risultato fu che la filosofia antica cessò di essere l’ancella della verità cristiana e lo strumento adatto per costruire un ordine universale. Ciò non vuol dire tuttavia che i filosofi dell’epoca smisero di cercare un blocco di verità fondamentali. Alcuni pensavano che, come in ogni genealogia, fosse possibile risalire all’indietro fino a un primato ancestrale, di cui tutti i discendenti conterrebbero tracce genetiche perenni. Francesco Patrizi, per esempio, nella sua Nova de universis philosophia (1593) disegnò il percorso di quello che scrisse Aristotele, risalendo all’indietro a quello che gli aveva detto Platone, e da questi a Solone e Orfeo, fino al racconto mosaico della creazione del mondo e al misticismo degli egiziani, quale era delineato nelle opere di Ermete Trismegisto (che, diceva, contenevano più sapienza di «tutta la filosofia di Aristotele»), scritte originariamente oltre 1100 anni prima di Platone. Altri preferivano illustrare i punti di accordo fra Platone e Aristotele come segni di una sottostante «sinfonia» nel pensiero antico, nonostante gli apparenti disaccordi.
Ma proprio quando questa agenda sincretistica sembrava essersi consolidata, cominciarono ad emergere le voci radicalmente scettiche di quanti avevano letto le opere del filosofo greco Sesto Empirico. Il quale aveva usato i disaccordi tra i suoi colleghi filosofi greci per screditare gli sforzi di Aristotele ed altri di raggiungere semplicemente la verità. Se si prendono le sue opere sul serio (e alcuni forti pensatori del periodo di cui ci occupiamo, in particolare il magistrato francese Michel de Montaigne, lo fecero), si scopre che la filosofia classica era piena di errori. Gianfrancesco Pico della Mirandola, il Martin Lutero della filosofia del XVI secolo, scrisse nel suo Examen vanitatis doctrinae gentium (1520): «Tutta la dottrina dei gentili [cioè l’Antichità pagana] oscilla fra superstizione, incertezza e falsità». Bisognò aspettare il genio del filosofo francese René Descartes perché sui fondamenti di un simile pirronismo fosse costruita una filosofia universale, capace di sostenere una nuova fisica con basi sperimentali. Ma, all’epoca, nessuno avrebbe immaginato seriamente che la cristianità potesse tenersi insieme sulla base di un dubbio radicale.
Geografi, medici e filosofi della natura umanisti condividevano il senso emergente dell’importanza dell’esperienza pratica diretta e del valore dell’esperimento. Questo cambiò il quadro del mondo naturale. Le scoperte geografiche dell’Europa nel mondo più ampio contribuirono a dare la percezione che il mondo naturale era un contenitore ricchissimo di molteplici e rari fenomeni, un deposito e scrigno di segreti, che aspettavano di essere interpretati da coloro che possedevano la chiave per decodificare la natura. Astrologi, alchimisti, cosmografi, maghi naturali e praticanti eterodossi della medicina facevano a gara nell’offrire spiegazioni su come l’immensa varietà della natura potesse essere ridotta a princìpi fisici ordinati, o almeno nel dimostrare che essa si prestava a essere sottoposta a indagine empirica. Alcuni di loro individuavano quei princìpi in forze più alte della stessa natura: una potenza magica immanente, qualcosa come uno spirito nascosto nei processi terreni, o convogliati dal calore e dal movimento celeste. E inoltre, al pari di molti filosofi, ce l’avevano con Aristotele, e lo criticavano apertamente soprattutto perché giudicavano le sue idee sulla materia troppo astratte. Essi avvolgevano le loro dottrine e intuizioni in un’aura di mistero arcano per proteggerle dai molti critici e promuovere la loro reputazione di eccezionale sapienza e potere. Ma c’era al contempo il riconoscimento contrario, e cioè che la conoscenza umana aveva i suoi limiti, e quindi che la penetrazione nei segreti della natura non poteva mai essere impresa di un singolo individuo, ma doveva essere raggiunta attraverso uno sforzo cooperativo di molti indagatori, attenti agli aspetti pratici della conoscenza e alle possibili varianti della sua interpretazione.
In nessun campo l’impatto di questi cambiamenti nell’idea di cristianità come realtà unitaria fu più profondo che nell’ambito della cosmologia. L’universo eliocentrico copernicano dovette molto al ritorno di cosmologie alternative dell’Antichità classica che sfidavano il consenso aristotelico. Se la terra, dunque, era semplicemente un pianeta che, come gli altri, girava intorno al sole, allora l’universo diventava terribilmente grande a confronto con la terra – «immenso», come diceva Copernico –, e ciò perché bisognava pensare a una distanza enorme fra l’orbita di Saturno e la sfera delle stelle. Una volta che la terra diveniva uno dei pianeti, tutti i processi di generazione e corruzione che Aristotele aveva spiegato come basati su ciò che accadeva nel mondo naturale e sulla terra, potevano essere spiegati più plausibilmente in termini di influenza del sole, o di movimento della terra e di posizione rispetto al sole e agli altri pianeti. La cristianità si trovava completamente a suo agio quando era racchiusa come in un bozzolo nei cerchi concentrici di un universo geocentrico e antropomorfico. Gettata in un universo eliocentrico, cessava di costituire il cuore dell’ordine delle cose creato.
Il medico chimico – brillante promotore di sé stesso – Paracelso (Theophrastus Bombastus von Hohenheim), il mago e astrologo John Dee, il teologo e cosmografo Giordano Bruno, i filosofi naturali Francesco Patrizi e Galileo Galilei furono fra quelli guardati con sospetto, in misura diversa, per le loro concezioni eliocentriche dai «guardiani» della cristianità, l’Inquisizione e il papato. Nel febbraio 1600, Bruno fu condannato al rogo e arso vivo a Roma. Un anno dopo, il frate domenicano Tommaso Campanella fu brutalmente torturato per quaranta ore nel Castel Nuovo (Maschio Angioino) di Napoli per il suo coinvolgimento in una rivolta popolare. Dovette poi passare il successivo quarto di secolo da prigioniero in quel luogo, a combattere contro le «radici infette» della filosofia aristotelica pagana. Egli sognava la trasformazione radicale di un mondo a cui sentiva ormai di non appartenere più veramente. Il problema per i pensatori radicali in questo periodo fu che le circostanze del momento, e la casualità del luogo in cui toccava loro di vivere, erano decisive per il destino delle loro idee, se e in quale misura sarebbero apparse come provocatorie: ed è per questo che non ci fu una «fine» del Rinascimento, ma piuttosto una persistente rinegoziazione del suo potenziale nel demolire le vecchie certezze in nuovi contesti.

La Riforma protestante

Al centro del movimento per il cambiamento religioso fu la Riforma protestante, una frattura nel cristianesimo romano altrettanto spettacolare e altrettanto permanente di quella che si verificò nell’XI secolo fra Chiesa orientale e Chiesa occidentale. Ciò che la rese più penosa e complicata fu il fatto che il cristianesimo occidentale si spaccò in maniera violenta. Martin Lutero era convinto che la cristianità stesse andando alla deriva e in rovina a causa di quegli «zoticoni e puttane» di Roma. Nel maggio 1520 un francescano di Lipsia, Augustin von Alveld, pubblicò un pamphlet in tedesco in cui si sosteneva che il papa di Roma aveva autorità sulla cristianità per diritto divino. Lutero replicò all’«asino di Lipsia» e ai suoi «fradici argomenti» affermando che il papa e i suoi «romanisti» avevano trasformato il papato nella «puttana scarlatta di Babilonia», e che quell’Anticristo del papa era la causa principale delle sventure della cristianità. Il suo studio della Scrittura e della storia della Chiesa lo aveva portato a una posizione polemica su quale fosse la verità di Dio e su come dovesse essere provata. «Con la sola fede» (sola fide) era la ridefinizione di Lutero, e «con la sola Scrittura» (sola scriptura) era il suo modo di convalidarla. L’autorità papale era di origine umana e non divina, e l’autorità ultima poggiava non sui papi o sui concili o sui padri della Chiesa, ma sulla Bibbia. Questo era il modo in cui – diceva Lutero – il cristianesimo poteva ritornare alle sue radici, al vangelo di Cristo. La Bibbia era la registrazione della promessa fatta da Dio all’umanità fin dall’inizio del mondo, rinnovata nel Vecchio Testamento e compiuta in Cristo. Niente era più «letteralmente» vero che questa promessa, dal momento che è a Dio stesso che noi dobbiamo credere nella fede.
Da questa affermazione di una verità riduzionista e forte derivava molto altro, fra cui una insanabile rottura con la Chiesa di Roma e una gigantesca divisione «protestante» di opinione teologica su quanto dovesse essere presa alla lettera. Lutero usava il termine «cristianità» in maniera intercambiabile con «Chiesa» e «comunità cristiana». Tutti questi termini stavano a indicare una comunità virtuale, la comunione dei santi cui Cristo faceva riferimento quando diceva: «Il mio regno non è di questo mondo». Era una «schifosa menzogna» affermare che la cristianità si concentrasse a Roma, o da qualsiasi altra parte. La vera Chiesa non aveva forme esteriori, paramenti, preghiere speciali, vescovi o edifici. Il paesaggio del sacro si restringeva drasticamente. Per Lutero, era la fede soltanto che faceva di tutti i credenti dei veri sacerdoti, e trasformava il modo in cui ognuno si trovava ad abitare in un ordine cristiano.
Lutero riuscì molto bene a mobilitare i preesistenti e disparati risentimenti locali, soprattutto in Germania, contro la Chiesa di Roma. Se quest’ultima era la radice della cancrena della cristianità, gli altri dovevano farsi carico di intervenire e rimuovere la corruzione. Il popolo cristiano doveva comportarsi come un figlio con i genitori impazziti, o come una persona che, vedendo una casa in fiamme, ha il dovere civile di dare l’allarme e spegnere le fiamme. Questa era, in particolare, responsabilità dei re, principi e nobili. Loro compito era di «impedire la blasfemia e il vilipendio del nome divino». Lo scopo di Lutero era di rafforzare la cristianità, non di distruggerla o sostituirla. Ma, operando un trasferimento radicale delle fonti dell’autorità e della legittimità all’interno della cristianità, aprì la porta al decadimento della comunità di fede colpendola al cuore nella sua unità. Nel 1520, Lutero fu inequivocabile. Nessuna autorità universale era conferita ad alcuno. La verità era che tutti i cristiani erano membri in posizione uguale nell’ordine cristiano, con un battesimo, un vangelo e una fede. Queste cose da sole creavano «un popolo spirituale e cristiano». Non c’era differenza fra laici e preti, o fra principi e popolo, nel loro status di cristiani. Per quanto straordinariamente riduttive fossero queste proposizioni, esse sollevavano nella pratica più interrogativi di quanti ne risolvessero. In concreto, come doveva organizzarsi il popolo cristiano? Che cosa doveva fare per darsi pastori adeguati, e quali erano i doveri e le responsabilità di questi ultimi? Come doveva operare il popolo se i suoi pastori o governanti venivano meno ai loro doveri cristiani? Qual era il ruolo del sovrano in simili circostanze? Che cosa dovevano fare i cristiani se il principe o il magistrato era inadempiente nelle sue responsabilità cristiane? A chi competeva di dichiarare e imporre l’unità della vera fede? Chi aveva il compito di difendere la cristianità?
Al di sotto delle divisioni teologiche che si aprirono all’interno della Riforma protestante, c’era una trasformazione della natura e del modo di manifestarsi del potere sacro. Uno dei cambiamenti fondamentali riguardava la relazione fra le istituzioni ecclesiastiche e lo Stato. Apparentemente Lutero e gli altri riformatori protestanti mantenevano le istituzioni bicefale – teoricamente separate – civile ed ecclesiastica della cristianità. Ma nella realtà le pressioni del cambiamento religioso ne modificarono il rapporto, accentuando una inquieta frizione fra le due. Pur dando mostra di conservare i «due regimi» della Chiesa e dello Stato, Lutero allargava il raggio d’azione del secondo e castrava la prima. La rinegoziazione del potere contribuì a dare una percezione diversa di che cosa, nell’Europa protestante, fosse la verità religiosa. Che divenne una verità manifestata da Dio, quale era garantita dalle Scritture, incorporata nei credi: affermazioni cui gli individui aderivano, e in base alle quali vivevano in comunità configurate confessionalmente, dove gli strumenti dell’autorità pubblica strutturavano e controllavano la vita e i comportamenti delle persone. Era affievolito il senso della partecipazione dell’uomo all’opera divina di redenzione della sua creazione. Dio aveva stabilito un mondo della natura in cui i peccati degli uomini erano parte della vita, che doveva essere regolata, controllata e limitata. Questi limiti erano presidiati dal potere statale, a sua volta costruito intorno a un’immaginazione teo-politica in cui il potere di Dio era il modello di quello dello stesso Stato: entrambi onnipotenti e irresistibili.

La Chiesa cattolica romana

In che posizione tutto ciò lasciava la Chiesa di Roma? Essa non rinunciò alle sue pretese di essere capo spirituale della cristianità. Ma rimaneva da stabilire che cosa ciò potesse significare ora che l’Europa protestante aveva respinto quelle pretese. Inizialmente, i suoi sforzi si concentrarono sulla zona centrale dell’Europa latina. Anche se alla fine produssero un sistematico rifiuto del protestantesimo nel concilio di Trento (1545-63), e si identificarono praticamente con la potenza della monarchia asburgica spagnola e i suoi conflitti (in particolare quelli con gli ottomani), quegli sforzi non persero mai il loro collegamento con un rilancio spirituale e religioso che riagganciò la Chiesa di Roma alle radici locali da cui la retorica protestante aveva cercato di staccarla. L’unità cattolica fu espressa, come il protestantesimo, in termini confessionali. La sua organizzazione rimaneva teocratica e burocratica, ma questa realtà fu oscurata dalla rinascita di ordini religiosi, sia con nuove fondazioni (gesuiti, cappuccini...) sia con il rifiorire di ordini più vecchi (francescani, domenicani...), recentemente rivitalizzati dalle sfide che stavano davanti al cristianesimo. L’unità organizzativa divenne il punto di forza nella polemica contro le divisioni teologiche protestanti e quella che i suoi difensori percepivano come l’incoerenza protestante sul tema dell’autorità.
Alla fine, il rinnovamento della Chiesa di Roma dipese da una rinegoziazione del rapporto fra la gerarchia ecclesiastica e la comunità dei fedeli. Al centro di questa rinegoziazione ci fu l’obiettivo di aiutare gli esseri umani ad accedere alla potenza divina e alla redenzione, cercando tuttavia di tenere lontane quelle che la gerarchia considerava come le escrescenze «superstiziose» introdotte nel panorama sacro nei secoli precedenti o i residui di culti e credenze «pagane» fra quelli convertiti di recente al cristianesimo nel mondo più ampio. Queste ultime divennero il punto focale dello straordinario impegno missionario ed ecclesiastico in un emergente «territorio spirituale» colon...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Il crollo della cristianità occidentale
  3. Parte prima. Dall’«età dell’argento» al «secolo di ferro»
  4. 2. Ripopolamento umano
  5. 3. Mondo urbano e mondo rurale
  6. 4. Tesoro e transazione
  7. 5. Affari di nobili
  8. Parte seconda. Afferrare il mondo
  9. 6. L’Europa nel mondo
  10. 7. Osservazione della terra e del cielo
  11. 8. Reti di contatti
  12. Parte terza. Cristianità tormentata
  13. 9. Politica e impero nell’età di Carlo V
  14. 10. Scisma
  15. 11. Reazioni, repressioni, riforma
  16. Parte quarta. Stati cristiani in conflitto
  17. 12. Conflitti nel nome di Dio
  18. 13. Vivere con le divisioni religiose
  19. 14. Le Chiese e il mondo
  20. 15. Il tramonto della crociata
  21. Parte quinta. Stati cristiani nel disordine
  22. 16. Le competenze dello Stato
  23. 17. Scontro di Stati
  24. 18. Guerra a tutto campo
  25. 19. Tempi torbidi a est e a ovest
  26. Conclusione. Il parossismo dell’Europa
  27. Cartine
  28. Immagini
  29. Altre letture
  30. Ringraziamenti
  31. Referenze iconografiche
  32. Indice delle cartine e delle genealogie