Clero criminale
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Clero criminale

L'onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell'Italia della Controriforma

  1. 248 pagine
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Clero criminale

L'onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell'Italia della Controriforma

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Per tutta l'età moderna la Chiesa cattolica difese a spada tratta il diritto degli ecclesiastici responsabili di crimini comuni di essere giudicati da suoi tribunali. Fecero eccezione solo i delitti più efferati, su cui lo Stato rivendicò precise competenze, sia pur tra mille difficoltà. È un problema storico mai studiato in profondità e questo libro intende colmare la lacuna, grazie all'esame di una ricchissima documentazione inedita, non solo di natura giudiziaria. Teatro della ricerca è l'Italia del Cinque-Seicento, alle prese con gli eccessi di varia natura di chierici, preti e frati delinquenti e con le scelte di giudici quasi sempre conniventi e interessati soprattutto a tutelare l'onore del clero e della Chiesa tutta. Il libro, che dà ampio spazio alla vita quotidiana, apre squarci sorprendenti su dimensioni della storia religiosa e civile della penisola pressoché sconosciute.Su www.laterza.it e su www.fedoa.unina.it (Archivio istituzionale della Università degli Studi Federico II) un'ampia selezione dei documenti presi in esame.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858108499

VI. Ipotesi sul Seicento

1. I primi segni di crisi, negli equilibri tra Stato e Chiesa nel Regno di Napoli, vennero nel 1599 dalla Calabria. Si scoprì che un folto gruppo di autorevoli ecclesiastici e laici, d’intesa con Tommaso Campanella e altri domenicani locali, tramava, forse col papa e col ‘Turco’, per cacciare gli spagnoli. Fu subito chiaro, però, che malgrado il rigore sbandierato dal viceré, le responsabilità di molti uomini di Chiesa avrebbero complicato l’azione repressiva. Il Sant’Ufficio mise subito sotto processo per delitti contro la fede gli ecclesiastici sospetti. Siccome il privilegio di foro non tutelava chi era accusato di lesa maestà ed era pressoché scontata una raffica di condanne a morte per tutti, sfruttare la preminenza assoluta della difesa dell’ortodossia su qualsiasi altra esigenza punitiva era l’unico modo per non finire sul patibolo. Alla fine, però, fu solo Tommaso Campanella a salvarsi, attraverso l’arma della follia, sia pur dopo pesantissime torture.
Al contrario, per i laici che usarono l’autoaccusa di eresia come àncora di salvezza, non ci fu speranza di essere trasferiti nelle carceri del Sant’Ufficio e di sfuggire così alla pena capitale. La morte raggiunse anche chi si aggrappò a un’incerta identità clericale. L’esasperazione del viceré e del Collaterale per quelle manovre strumentali trovò sfogo nel dicembre del 1599 nel rifiuto di consentire a un sedicente chierico sospettato di aver aderito alla congiura di provare la propria condizione, premessa indispensabile per ottenere la rimessione ai giudici ecclesiastici. A quel gesto fece anche seguito la scelta beffarda di giustiziarlo – affronto gravissimo per la Chiesa – con l’abito clericale addosso. Una sfida così temeraria non s’era mai vista in città, e non a caso Marco Antonio Genovese, che ebbe un ruolo importante in quei passaggi, ignorò l’episodio nel 1602, nella prima edizione della Praxis, e stravolse i fatti in quella del 1609272.
Di lì a poco, nel 1606, una situazione non meno incandescente indusse Paolo V a fulminare l’interdetto contro la Repubblica di Venezia. Lo scontro affondava le radici in una sequenza di tensioni che aveva punteggiato tutta l’età tridentina. La legge con cui nel 1605 fu esteso all’intero dominio il divieto di alienare beni di laici ad ecclesiastici, già in vigore nella sola Venezia, e la violazione, di poco successiva, del privilegio di foro vantato da due influenti uomini di Chiesa accusati di crimini comuni, erano state solo la classica goccia che fa traboccare il vaso. Tra l’altro, i due non erano esattamente esempi di integrità morale, ma neppure persone particolarmente pericolose per l’ordine pubblico. Fin dall’inizio, insomma, fu evidente che le questioni di principio avevano preso il sopravvento sulla portata degli eccessi lamentati, che si fronteggiavano due modi contrapposti di concepire i rapporti tra istituzioni ecclesiastiche e statali. Proprio per queste ragioni a Venezia si guardò con costante attenzione alle iniziative adottate dai viceré in materia di giurisdizione della Chiesa.
Prevalse però l’esigenza di trovare una via d’uscita, di allentare tensioni che a nessuno conveniva esasperare. Il compromesso raggiunto l’anno dopo, con la revoca dell’interdetto, la consegna dei due ecclesiastici contesi al re di Francia e la garanzia che l’applicazione delle leggi sgradite a Roma sarebbe stata poco puntuale, costituì l’inevitabile conclusione di uno scontro che ebbe un’eco enorme in Europa e pesò a lungo sul trattamento dei crimini comuni del clero nel territorio della Repubblica273. Sia nella Curia patriarcale, sia nella nunziatura di Venezia ci fu un calo nettissimo delle attività penali tra il 1606 e il 1620, segno probabile della scelta dei rispettivi tribunali di evitare sovraesposizioni e rischi agli uomini di Chiesa. Il dato appare particolarmente importante per il foro del legato papale, anche perché riguarda soprattutto le sue iniziative in materia criminale, non le cause civili e matrimoniali, che invece crollarono, come le altre, in Patriarcato. I nunzi potrebbero aver scelto di dare un freno alle attività giudiziarie più controverse, per prevenire altri scontri274.
In quegli anni andò forse allo stesso modo in tutta la Repubblica. La disciplina ecclesiastica, osservava il vescovo di Padova nei rendiconti al papa del 1613 e del 1622, non è più quella di prima: popolo e clero, e in particolare frati e monaci, si rivolgono al foro secolare, mentre quasi ovunque si impedisce ai laici di deporre nei tribunali della Chiesa275. Frequenti, inoltre, furono le dimostrazioni di forza contro gli ecclesiastici delinquenti da parte dei giudici di Stato, seguite in più di un caso da esecuzioni capitali pubbliche, praticate anche senza la degradazione preventiva: Sarpi ne scriveva compiaciuto ai corrispondenti stranieri. Non mancarono, infine, i contraccolpi dell’interdetto sulla vita interna delle Chiese venete: proprio a Venezia, nel 1619, un aspro scontro tra il patriarca Tiepolo e una pletora di confessori restii a sottoporsi all’esame d’idoneità, soprattutto ma non solo regolari, fu segnato anche da una pubblica ‘cospirazione’, cioè da un gioco di sponda degli interessati, non meglio noto, davanti al principe276.
La pesantezza di questi contraccolpi, confrontata con gli esiti del caso Campanella, molto meno traumatici per la Chiesa, fa riflettere. Certo, nel primo Seicento non mancarono nel Regno di Napoli episodi anche truculenti di violazione del privilegio di foro. Quando nel 1609 il vescovo di Mileto ‘osò’ diffidare il marche­se di S. Agata, capitano di guerra in Calabria, dal processare un ecclesiastico omicida, la reazione fu rabbiosa. Il messo diocesano fu fustigato pubblicamente, mentre il presunto delinquente fu strangolato in carcere, senza assistenza spirituale e senza degradazione, e poi squartato, con successiva esposizione dei quarti nella piazza di Seminara277. Ma nei tribunali vescovili meridionali, per quanto se ne sa, le cause penali non furono turbate più di tanto dalla congiura del 1599. Come spiegare questa divaricazione? La penisola era reduce da un trentennio cruciale, in cui la preponderanza delle magistrature secolari nel controllo dei crimini comuni del clero era stata ovunque nettamente ridimensionata a vantaggio della giurisdizione penale ecclesiastica. Che cosa successe agli inizi del Seicento? Il nuovo assetto cominciò a scricchiolare o la forza tranquilla della Chiesa superò senza problemi una crisi così grave? Un’ampia serie di fonti consente di approfondire la questione.
2. Un primo rilievo riguarda il Seicento nel suo insieme. Né la congiura di Calabria, né l’interdetto, né, molto più tardi, la cosiddetta svolta innocenziana – l’ascesa al pontificato, nel 1676, di Benedetto Odescalchi (Innocenzo XI), che tra i papi del secolo fu il più sensibile a un’autentica riforma della Chiesa – influirono più di tanto sul governo del clero delinquente in Italia. Restarono intatte le linee d’intervento postridentine. Il dato è particolarmente evidente nelle decisioni romane. Se c’è un filo rosso che unisce le direttive impartite ai nunzi, gli appunti mossi ai vescovi in sede di approvazione delle relazioni ad limina e le soluzioni date alle controversie che rimbalzano al centro da ogni angolo della penisola, è l’esigenza di tutelare sempre e comunque le istituzioni ecclesiastiche, non la volontà di contrastare adeguatamente i delitti degli uomini di Chiesa.
Per quanto abbiamo potuto verificare, nell’Italia del Seicento le due novità più importanti in materia di giurisdizione riguardano solo indirettamente i crimini comuni del clero. La prima, nel 1626, è la nascita, da una costola della Congregazione dei Vescovi e Regolari, di un nuovo dicastero a raggio d’azione universale, quello dell’Immunità, che però dedicò gran parte del suo tempo ai problemi giurisdizionali in Italia, Stato pontificio compreso, con un occhio di riguardo alla difesa del diritto d’asilo. L’istituzione dell’influente organismo chiudeva nel modo più intransigente una stagione di scontri che, avviata all’indomani del concilio di Trento, aveva trovato un primo punto di equilibrio nel 1591, con la bolla Cum alias di Gregorio XIV278. Tuttavia, malgrado l’ampiezza degli obiettivi che la sua denominazione lasciava presagire, esso si interessò poco di privilegio di foro. A Roma i crimini comuni degli ecclesiastici rimasero in larga misura appannaggio delle istituzioni che se ne occupavano tradizionalmente, in particolare della Congregazione dei Vescovi e Regolari e dell’uditore di Camera279. Non ebbe alcun peso sul clero delinquente, per quanto ci risulta, neppure la costituzione Universi agri dominici, con cui nel 1612 Paolo V cercò di porre un argine al diffuso disordine del sistema giudiziario romano. Malgrado l’ampiezza e la puntualità del documento, un vago richiamo all’obbligo di trattare le cause penali che coinvolgevano gli ecclesiastici secondo le regole dettate dal concilio di Trento è tutto ciò che se ne può ricavare al riguardo280.
Qualcosa potrebbe essere cambiato nel governo dei crimini comuni del clero in Italia, quantomeno sul versante centrale, solo verso la fine del secolo, grazie a una seconda, importante decisione. Ci riferiamo al decreto che nel 1693 modificò profondamente la Immensa Aeterni Dei, la costituzione con cui Sisto V aveva ridisegnato nel 1588 l’assetto della Curia romana. Dopo oltre un secolo in cui dicasteri come la Congregazione dei Vescovi e Regolari avevano liberamente operato in ambito giudiziario, ben al di là dei confini tracciati dalla riorganizzazione sistina, essi persero per sempre quelle facoltà. I cardinali che li guidavano furono costretti a circoscrivere le proprie attività di coordinamento all’ambito pastorale/religioso, senza intromettersi nel disbrigo dei processi, restituito alle istituzioni giudiziarie romane titolari di poteri d’appello.
Una sola deroga era ammessa, ma in subordine al consenso delle parti in causa. Se erano tutte d’accordo nel demandare loro la valutazione delle controversie, le Congregazioni cardinalizie prescelte dagli interessati conservavano il diritto di decidere. Anche in quel caso, però, i procedimenti dovevano essere istruiti presso i competenti tribunali romani. Accenni a specifiche tipologie processuali non ce n’erano. Il governo del clero delinquente faceva capolino solo in una precisazione finale, introdotta verosimilmente per evitare interpretazioni di comodo del decreto. Da quel momento qualsiasi processo penale affidato al vaglio di Congregazioni cardinalizie – anche contro laici e contumaci, in primo grado come in appello – doveva essere seguito, sentenza esclusa, da altri giudici centrali. Il nuovo criterio si applicava anche ai delitti commessi dai regolari al di fuori di conventi e monasteri. Così il secolo che si era aperto con due violenti conflitti di giurisdizione scoppiati negli Stati italiani più sensibili ai disordini del clero si chiudeva con un aggiustamento interno, deciso in piena autonomia a Roma, per appianare contraddizioni divenute forse insostenibili negli intricati assetti giudiziari della città del papa281. Osservata dalle periferie italiane, era una scelta che non modificava in modo apprezzabile equilibri consolidati, ritenuti con ogni probabilità ampiamente soddisfacenti anche dalle più alte autorità della Chiesa cattolica. È un dato che non sorprende, se si analizzano le linee di intervento cui si erano attenuti nel corso del Seicento gli organismi romani coinvolti a vario titolo nel governo dei tribunali penali ecclesiastici della penisola.
3. L’elemento che più colpisce è la netta sproporzione tra il crescente rilievo delle questioni connesse alla difesa della giurisdizione e della ‘libertà’ della Chiesa e il persistente disinteresse per il contenimento dei crimini comuni del clero. Una dura decisione notificata nel 1616 dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari al vescovo di Cremona esprime al meglio questa sensibilità. Paolo V, gli scrissero i cardinali, era rimasto molto ‘ammirato’ per la sciatteria con cui per oltre due anni aveva lasciato procedere i giudici secolari nella causa di un frate, poi giustiziato senza degradazione. Incredibilmente, di fronte a violazioni così plateali del privilegio di foro, non solo non aveva eseguito gli ordini ricevuti, ma aveva anche ammesso una richiesta di assoluzione da parte del magistrato responsabile dell’abuso. Quanto a quest’ultimo, nel frattempo scomunicato, «non ci manca altro se non d’intendere ch’Ella senza autorità apostolica habbia avuto ardire d’assolverlo», concludevano sferzanti, nell’intimargli di trasmettere subito gli atti in suo possesso, se non voleva sfidare la pazienza del papa. Quali crimini avesse commesso il religioso era per loro indifferente. Contava solo il rischio – da scongiurare subito – che l’episodio potesse essere invocato in futuro come precedente282.
Proprio in quegli anni, d’altra parte, gli stessi cardinali appaiono attentissimi a rafforzare la propria egemonia sulle altre istituzioni centrali coinvolte nei ricorsi ricevuti. Al vescovo di Veroli fanno presente di non eccedere nei distinguo, nel caso di un uomo assolto in foro interno dalla Penitenzieria apostolica; all’uditore di Camera e al suo luogotenente criminale ordinano più volte di smetterla con interventi che paralizzano la giustizia ecclesiastica. È evidente che mirano a conquistare la preminenza assoluta nel governo del contenzioso penale che dalla penisola si riversa su Roma283. Non diversamente, i colleghi della Congregazione del Concil...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Ringraziamenti
  3. I. Una ‘bottega di candele’, l’assalto a una canonica
  4. II. Un concilio in soffitta?
  5. III. Una giustizia di parte
  6. IV. Resistenze. Il clero delinquente contro i suoi giudici
  7. V. Verso la quaresima, lentamente. Preti, frati e chierici italiani di fine Cinquecento
  8. VI. Ipotesi sul Seicento