1. Prima e dopo la riforma del 3+2
1. La riforma del 3+2: perché e come ci si è arrivati
La riforma cosiddetta «del 3+2» viene introdotta a partire dall’anno accademico 2000-01. Essa ha portato cambiamenti importanti nel sistema universitario italiano per adeguarlo al modello prevalente di istruzione superiore europea, organizzato su due livelli principali di studio: laurea triennale (bachelor) e laurea magistrale (master), ai quali può seguire un ulteriore livello dottorale (diploma di specializzazione o dottorato di ricerca).
La riforma nasce, infatti, sulla scia dell’iniziativa convenzionalmente chiamata «processo di Bologna», intrapresa da alcuni ministri dell’istruzione, fra cui Luigi Berlinguer, per favorire la mobilità degli studenti e garantire la mutua riconoscibilità dei titoli universitari nello spazio europeo.
Fra i paesi promotori del processo di Bologna, l’Italia è stata la prima nazione a metterlo in pratica. Questa insolita reattività appariva dettata dalla volontà di affrontare alcuni problemi che caratterizzavano il nostro sistema di educazione terziaria, la cui soluzione era urgente e sollecitata anche da obiettivi di convergenza con l’Europa non espressamente esposti nella Dichiarazione di Bologna.
Negli anni precedenti la riforma, l’università italiana aveva:
1) un numero di laureati fra i più bassi in Europa e nei paesi sviluppati. Nel 2000 in Italia la percentuale di laureati nella popolazione fra i 25 e i 64 anni d’età era soltanto del 9%, un solo punto percentuale sopra la Turchia. La media dell’Unione Europea in quell’anno era del 19% (con la Francia al 22, la Germania al 23, il Regno Unito al 26 e i paesi scandinavi poco sotto o poco sopra al 30%). La media dei paesi Ocse era del 22%, con gli Stati Uniti che vantavano una percentuale di laureati in età lavorativa all’incirca quadrupla rispetto all’Italia (36%). Anche per quanto riguarda i più giovani (25-34 anni), la situazione italiana, rispetto agli altri paesi europei, era del tutto insoddisfacente: la percentuale di laureati nel nostro Paese era stimata dall’Ocse al 19%, contro il 22 della Germania, il 35 della Francia e il 38% di Svezia, Finlandia e Norvegia;
2) alti tassi di abbandono universitario, con circa il 50% degli iscritti che non riuscivano a conseguire un titolo di studio. Un quarto degli immatricolati non sosteneva alcun esame durante il primo anno di corso e analoga era la quota degli studenti che abbandonavano tra il primo e il secondo anno;
3) una durata effettiva degli studi molto superiore a quella prevista dagli ordinamenti. Nel 1999 l’età media dei laureati era pari a 27,6 anni e i fuori corso ammontavano al 45% degli iscritti. A sette anni dall’immatricolazione, solo quattro studenti su dieci avevano raggiunto la laurea, mentre appena quattro studenti su cento la conseguivano entro la durata formalmente prevista;
4) un’articolazione dei corsi poco flessibile: l’attribuzione di valore legale alle lauree faceva sì che il numero degli esami e la denominazione di quelli fondamentali fossero regolamentati allo stesso modo per tutte le università;
5) un sistema didattico ritenuto inadeguato a fornire la preparazione per il mondo del lavoro: in particolare, una didattica esclusivamente frontale permetteva di trasferire conoscenze, ma non favoriva lo sviluppo di competenze per il mondo del lavoro, quali il lavoro di squadra, l’organizzazione per progetti ecc.
La riforma del 3+2 è avviata dal D.M. 509/1999 (Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei) e completata alcuni anni dopo dal D.M. 270/2004 (Modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei). Tre sono state le innovazioni principali. La prima, da cui la riforma prende il nome, ha introdotto due livelli di laurea differenziati, inizialmente concepiti come sequenziali: triennale e magistrale (due anni). Nel 2004 questi sono resi indipendenti, così da assicurare ai laureati triennali la possibilità di muoversi verso discipline diverse. Con l’introduzione del livello triennale la durata formale necessaria a raggiungere la laurea si accorcia di un anno, con un’evidente riduzione potenziale dei costi diretti e indiretti dell’investimento in istruzione universitaria. La seconda innovazione ha riguardato il riordino dei corsi di laurea, raggruppati in classi omogenee, ma molto numerose: il decreto del 1999 prevede 50 classi di laurea triennale (ridotte a 46 nel 2004) e ben 109 classi di laurea specialistica (ridotte a 107 classi di laurea magistrale nel 2004). Per ciascuna di esse il ministero definisce circa la metà dei contenuti formativi (non individuando gli insegnamenti, ma limitandosi a indicare il settore scientifico-disciplinare di riferimento) e lascia all’autonomia progettuale degli atenei di definire su proposta delle singole facoltà i contenuti complementari e, fra questi, anche le attività extracurriculari. La terza innovazione, infine, ha sancito definitivamente il sistema dei crediti come misura dell’impegno richiesto per arrivare alla laurea: ogni credito corrisponde a 25 ore di impegno degli studenti, da suddividersi tra lavoro in aula e studio individuale, lasciando qualche margine di autonomia alle facoltà nella definizione della ripartizione del tempo tra queste due attività. Si intende così ridurre il carico complessivo per conseguire la laurea, sempre con l’obiettivo di diminuire tempi e costi dell’investimento in istruzione. Il sistema dei crediti introduce un criterio di quantificazione puntuale del lavoro complessivo richiesto per superare gli esami universitari. In precedenza, invece, non esistevano di fatto vincoli al carico di lavoro che i docenti universitari potevano imporre.
Fin dall’origine, la riforma del 3+2 si propone innanzitutto: a) di favorire la prosecuzione degli studi dei diplomati, aumentando così il numero degli immatricolati, b) di ridurre la dispersione universitaria e i tempi di conseguimento della laurea, per c) accrescere il numero complessivo di laureati e diminuirne l’età media.
Nelle intenzioni dei promotori, questi espliciti obiettivi interpretavano non solo un’esigenza di efficienza produttiva del sistema universitario, ma anche una domanda di equità: ridurre le disuguaglianze nell’istruzione terziaria, allargandone la base sociale. Nel vecchio ordinamento, infatti, gli studenti di bassa estrazione sociale avevano tassi d’immatricolazione inferiori alla media e tassi d’abbandono più elevati. Ci si aspettava, dunque, che soprattutto costoro potessero trarre vantaggio dalla riforma, quanto meno dal punto di vista delle opportunità di accesso. La riduzione dei costi e dei rischi dell’investimento nell’istruzione universitaria avrebbe, cioè, favorito gli studenti con minori possibilità economiche e con maggiore avversione al rischio. Di conseguenza, aumentare per tutti le opportunità di conseguire la laurea avrebbe dovuto portare a una redistribuzione dei titoli universitari tra le fasce sociali, a favore di quelle meno avvantaggiate.
Per l’Italia la riforma del 3+2 rappresenta il punto di arrivo di un processo che ha avuto una lunga gestazione nel corso dei due decenni precedenti, durante i quali si era cercato di coniugare due obiettivi potenzialmente in contraddizione: la crescente domanda di apertura all’università, espressa da gruppi sociali fino ad allora sostanzialmente rimasti esclusi dall’istruzione superiore, e il ruolo di selezione sociale delle élite, che storicamente l’università ha svolto nei diversi contesti nazionali.
In effetti, l’università italiana alla vigilia della riforma si trova in mezzo al guado.
Il decennio che ha preceduto la riforma ha visto l’attuazione del principio di autonomia gestionale, che dava finalmente seguito al dettato costituzionale. ...