La democrazia di Pericle
di Luciano Canfora
Incomincerò con un sogno. Quando Agariste, la madre di Pericle – donna di alto rango nell’Atene dell’alto V secolo –, stava per partorirlo «ebbe una visione nel sonno, e le parve di dare alla luce un leone»; pochi giorni dopo nacque Pericle, racconta Erodoto nel libro VI (131) delle Storie. La menzione di questo animale, il leone, è gravida di significati che vedremo in seguito, ma dirò subito che è l’animale di riferimento della tirannide.
La fonte che ne parla, Erodoto, non potrebbe essere più favorevole a Pericle; tuttavia segnala, quasi come un segno della storia successiva di questo straordinario, gigantesco personaggio, quella scena archetipica. E dirò anche subito – quasi per chiudere in un arco la vita, l’opera, la traiettoria di quest’uomo – della sua tragica fine. Egli scomparve nel pieno del contagio pestilenziale in Atene, nel 429 a.C. Era già molto avanti negli anni (nacque probabilmente poco dopo l’anno 500 a.C.), quindi la sua vita occupa il V secolo, uno dei secoli decisivi della storia antica, quasi per intero: si apre sotto il segno di quel leone e si chiude in una scena di tragedia, quella della città che egli ha portato alla guerra e che quasi alle sue fasi iniziali lo vede uscire di scena.
Il contagio pestilenziale fu talmente sconvolgente per la città che lo storico – ammiratore di Pericle – che ha raccontato quelle vicende, Tucidide, ha ritenuto di dedicare pagine e pagine alla descrizione della pestilenza e dei sintomi del contagio, «perché, se un domani ritornerà, si sappia come si presenta questo malanno» (II, 48, 3); e descrive la città in preda alla devastazione morale e materiale: cumuli di cadaveri bruciati per le strade, degrado morale, crollo dei freni che regolano, per così dire, e guidano l’esistenza.
In questa scena tremenda, Pericle scompare. Ha portato la città alla guerra, e la guerra ha potenziato il contagio, perché la tattica da lui suggerita era di chiudersi dentro le mura: gli Spartani devastino pure le campagne – egli diceva –, poi se ne andranno: Atene domina il mare e quindi è una potenza invincibile (I, 142-143). In ciò consiste l’architrave della sua strategia, impopolare soprattutto presso i contadini che vedono i loro beni in così grave pericolo. Pericle esce di scena in una situazione di tragedia per la città.
Su di lui, appena scomparso, lo storico che ha dedicato alla sua vicenda e soprattutto alla guerra da lui voluta un libro che ancora oggi leggiamo con enorme interesse, Tucidide ateniese, alquanto più giovane di lui, formula un giudizio dal quale prenderò le mosse per ricostruire il ruolo di questo personaggio.
Per tutto il tempo che fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione, garantì la sicurezza della città, la quale sotto di lui raggiunse il massimo splendore. Dopo lo scoppio della guerra visse ancora per due anni e sei mesi, e solo dopo la sua morte le previsioni da lui formulate circa la guerra vennero comprese appieno. Giacché agli Ateniesi aveva sempre detto che se fossero rimasti con i nervi saldi, se avessero provveduto alla flotta e non avessero tentato di accrescere l’impero con la guerra, non avrebbero corso rischi. Ma quelli, dopo la sua morte, fecero tutto il contrario. Nel governo della città presero per ambizioni personali altre iniziative che apparivano del tutto estranee alla guerra ed ebbero un esito negativo per se stessi e per gli alleati (II, 65, 5-7).
E poi sèguita spiegando perché Pericle riusciva a guidare la città mentre gli altri, quelli venuti dopo di lui, non ne furono capaci.
La ragione era che egli era personaggio potente, per prestigio e lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile, reggeva saldamente il popolo senza però violare la libertà e non si faceva guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui, poiché non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per compiacere l’uditorio. Il suo potere si fondava sulla considerazione di cui godeva. Quando si accorgeva che quelli – l’Assemblea – si abbandonavano a sconsiderata baldanza, li colpiva con le sue parole, portandoli allo sgomento, per ricondurli poi ad uno stato d’animo di rinnovato coraggio, se li vedeva in preda ad una paura irrazionale. Di nome, a parole – dice Tucidide – era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino (II, 65, 8-9).
Dice: archè tu pròtu andròs, «del primo». E an...