Malaterra
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Malaterra

Come hanno avvelenato l'Italia

  1. 208 pagine
  2. Italian
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Malaterra

Come hanno avvelenato l'Italia

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Per decenni gli scarti delle attività industriali sono finiti nella terra che abitiamo. Il fumo delle ciminiere ha impestato l'aria; gli scarichi hanno avvelenato l'acqua. Conviviamo, e conviveremo a lungo, con la diossina nei giardini pubblici, il piombo nei terreni, il Pcb e gli idrocarburi nelle falde idriche. Marina Forti ci porta in alcuni dei luoghi più inquinati d'Italia e ce ne racconta la storia, le bonifiche mancate, la mobilitazione dei cittadini, l'emergere di una coscienza ambientalista, lo scontro tra le ragioni del lavoro e quelle della salute.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858134375
Argomento
Economics

1.
Acqua, fiori e diossine
dopo il miracolo italiano

A Brescia ci sono giardinetti dove i bambini non possono giocare. I cartelli sono chiari: non buttarsi sull’erba, non raccogliere fiori e foglie, non giocare con la terra e non scavarla. Il motivo è che i terreni sono contaminati da diossine e Pcb, policlorobifenili, sostanze estremamente tossiche e cancerogene disperse da una vecchia fabbrica chimica, la Caffaro. Ma quei cartelli sono là da anni, e c’è chi non ci fa neppure caso. A Taranto, invece, quando tira molto vento i bambini di certe zone non vanno a scuola. Li chiamano wind days: il vento solleva polvere dai mucchi di ferro e carbone accatastati nelle acciaierie Ilva, formando nuvole rossastre che avvolgono la città; allora scatta l’allerta e nei quartieri vicini allo stabilimento le scuole restano chiuse, per ordinanza del sindaco, per non esporre i bambini a un rischio sanitario eccessivo. A Portoscuso, in Sardegna, i bambini a scuola ci vanno, ma hanno il piombo nel sangue. Lo scoprirono i medici del lavoro durante un’indagine sugli alunni di prima media, sul finire degli anni Ottanta, e per gli abitanti del piccolo comune sardo fu uno shock: di colpo si resero conto di cosa volesse dire vivere a poche centinaia di metri dalle fabbriche di Portovesme, uno dei più grandi centri industriali dell’isola. Da allora l’attività industriale è crollata, ma resta l’inquinamento dei terreni e delle falde idriche; quanto al sangue dei bambini oggi non sappiamo, perché le ultime indagini sanitarie sono dei primi anni Duemila. Tra Priolo e Augusta, nella Sicilia orientale, gli abitanti vanno ad attingere acqua ai pozzi per annaffiare l’orto, ma tirano su gasolio: la falda idrica è coperta dai residui del vicino petrolchimico.
Casi simili sono frequenti un po’ ovunque in Italia: tanto che ci stiamo facendo l’abitudine. Per decenni i reflui delle attività industriali sono finiti nei terreni o nei corsi d’acqua, sono stati sepolti in discariche più o meno selvagge. Si sono accumulati nei terreni, hanno contaminato fiumi e falde idriche: così oggi conviviamo con la diossina, il piombo, il Pcb nei giardinetti o gli idrocarburi nelle falde, e quasi non ce ne rendiamo conto. A volte bidoni pieni di residui tossici riemergono per caso, magari dagli scavi per una nuova strada o per risistemare un argine. A volte scoppia un caso, quando si scopre che canali e acque di falda sono saturi di qualche veleno di cui avevamo perso la memoria. Un decano dell’ambientalismo italiano, il chimico e merceologo Giorgio Nebbia, sostiene che per studiare l’inquinamento non bastano la chimica, la biologia o l’ingegneria, è indispensabile anche la ricerca storica: «Solo la storia delle industrie e delle produzioni può indicare quali materie prime sono state usate, quali prodotti sono stati fabbricati, quali scorie sono state prodotte»1.
Negli anni Novanta in Italia molti siti industriali sono stati dichiarati “ad alto rischio di crisi ambientale”. Così la zona di Portovesme in Sardegna e quella di Augusta e Priolo in Sicilia, e poi Taranto con lo stabilimento Italsider (in seguito diventato Ilva). E il polo industriale di Porto Marghera di fronte a Venezia, e Piombino con le sue acciaierie. E l’elenco potrebbe continuare: uno dopo l’altro sono stati dichiarati “a rischio” stabilimenti chimici, poli petrolchimici, impianti siderurgici.
Eppure erano le industrie simbolo del “miracolo italiano” negli anni Sessanta del secolo scorso. Alcune sono anche più antiche, furono fondate all’inizio del Novecento con la prima industrializzazione italiana: come le acciaierie di Bagnoli, nate nel 1906; le fabbriche di esplosivi di Colleferro negli anni Dieci, o l’insediamento di Porto Marghera nel 1917, nell’era del capitalismo idroelettrico e del carbone. Tutto è accelerato poi nel secondo dopoguerra, quando l’Italia è entrata nell’era del petrolio e della motorizzazione di massa, con le raffinerie, l’industria petrolchimica, le plastiche. (Non che il carbone sia scomparso, ma da allora è rimasto confinato alla siderurgia e alle centrali elettriche.)
Certo è che queste industrie hanno trasformato un paese per lo più rurale e arretrato in una nazione industrializzata. Per alcuni decenni hanno dato lavoro a centinaia di migliaia di persone, sfornato operai specializzati, generato professionalità. Hanno creato benessere, non si può negare. Hanno anche impestato l’aria, i terreni, i fiumi, le falde idriche: ma negli anni della grande crescita economica pochi ci facevano caso. Magari abbiamo sentito un nonno raccontare «in quel fiume andavamo a pescare», una mamma dire «là c’era la spiaggia dove andavamo da bambini» – una spiaggia che non esiste più, perché il mare è stato interrato e sopra ci hanno costruito un’acciaieria (è successo negli anni Cinquanta a Cornigliano, alle porte di Genova). Ma erano cose dette così, con quel tono di nostalgia di chi evoca l’infanzia: perché in realtà l’inquinamento era visto più o meno come un male inevitabile e nessuno aveva da ridire. E si capisce, l’Italia usciva appena dalla povertà e dall’arretratezza, oltre che dalla guerra. «Finché il petrolchimico dava lavoro, l’inquinamento non lo sentivamo», ammette oggi un ex operaio del petrolchimico di Augusta. «Su tutto prevaleva la necessità del lavoro», riconosce un medico di Portoscuso.
Insomma: per decenni territorio, ambiente, risorse naturali – acqua, aria e tutto il resto – sono stati considerati beni a disposizione dello sviluppo industriale, «concessi all’industria in uso gratuito e senza alcun vincolo»2. Le opposizioni e i sindacati dei lavoratori criticavano altre questioni – salari troppo bassi, mancanza di servizi, costi sociali rovesciati sulla collettività, questioni che avevano a che vedere con i diritti del lavoro e la redistribuzione del reddito; le variabili dell’ambiente e della salute non erano ancora entrate nel discorso pubblico. I costi ambientali non sono stati inclusi nel conto. Finché è diventato impossibile continuare a ignorarli, e allora la crisi è scoppiata.

Una nuvola su Seveso e le prime leggi sull’ambiente

Il primo shock arriva nel 1976. Il 10 luglio, un sabato, una densa nuvola di fumo esce dallo stabilimento chimico Icmesa di Meda, una ventina di chilometri a nord di Milano, in una delle province più densamente industrializzate d’Italia. Sospinta dalla brezza la nuvola si sposta verso sud-est, investe la vicina Seveso, in parte i territori di Desio e Cesano Maderno, poi si disperde. Inutile cercarne notizia sui giornali del giorno dopo: oggi sappiamo che fu il più grave disastro dell’industria chimica civile in Europa, ma sul momento la cosa passò inosservata. Solo all’indomani dell’incidente i tecnici dell’impresa informano il sindaco di Seveso, e il giorno dopo avvertono l’ufficiale sanitario. Spiegano che si tratta di triclorofenolo, sostanza usata per i diserbanti; che un reattore chimico in fase di raffreddamento si è inspiegabilmente surriscaldato fino a esplodere. L’Icmesa apparteneva a una società svizzera, la Givaudan, che a sua volta faceva capo a Hoffmann-La Roche, una delle più note multinazionali della chimica farmaceutica.
In realtà, già il giorno dopo l’incidente i tecnici della Givaudan avevano capito che quella nuvola conteneva anche tetracloro-dibenzo-p-diossina, o Tcdd, la più pericolosa della famiglia delle diossine, ovvero uno dei più dannosi sottoprodotti della reazione chimica, sostanza nociva già in microgrammi: ma si guardarono ben dal dirlo. Erano “i giorni del silenzio”: nessuno sapeva, e chi sapeva, stava zitto.
Cinque giorni dopo l’incidente gli ufficiali sanitari accertano numerosi casi di intossicazione, che si manifestavano con febbre, bruciori sul corpo e grandi macchie rosse sul viso (si tratta di cloracne, ma i medici non lo sanno ancora). Il 16 luglio quindici bambini vengono ricoverati in ospedale, alcuni in condizioni gravi, e i medici non sanno che terapia applicare: ancora nessuno ha nominato la diossina. Il 17 luglio, ben sette giorni dopo il fatto, la notizia dell’incidente arriva finalmente sulle pagine dei quotidiani. Le prime ammissioni arrivano solo il 19 luglio, quando i responsabili dell’azienda ammettono che la situazione è molto grave perché in quei 400 chili di prodotti chimici volati in aria ci sono almeno 14 chili di diossina. Al di fuori degli esperti, però, tra i funzionari locali non molti sanno davvero cosa sia questa sostanza. Eppure nel mondo erano già noti altri incidenti con diffusione di diossine, e gli studi su questi casi erano ormai entrati nella letteratura scientifica mondiale (i tecnici intervenuti a Seveso se ne servirono poi per stimare il livello di pericolo e definire zone di sicurezza intorno all’area del disastro).
Intanto le piante intorno alla fabbrica sembrano bruciate da qualche acido, gli animali muoiono, aumentano i casi di intossicazione. Quindici giorni dopo l’incidente, la regione Lombardia istituisce una Commissione per dare pareri sugli aspetti sanitari di quello che ormai appare per ciò che è: un disastro gravissimo. Il 26 luglio, sedici giorni dopo l’incidente, a Seveso e Meda arriva l’esercito, con filo spinato e cavalli di frisia, per sgomberare la Zona A, la più contaminata. In seguito viene definita una Zona B, meno contaminata ma più ampia, dove è vietato consumare i prodotti degli orti. Più di 700 persone, cioè 204 famiglie, dovranno sfollare: mesi dopo non sanno ancora se e quando torneranno nelle proprie case (molti non ci torneranno mai).
«Si era creata un’atmosfera di paura e di rabbia, i cittadini erano furiosi», ricorda Gianni Tognoni, medico ed epidemiologo, allora ricercatore all’Istituto Mario Negri: in quel luglio 1976 era uno dei tecnici mandati a misurare la presenza di diossina nel territorio investito dalla nuvola dell’Icmesa. «L’Istituto aveva appena comprato uno spettrometro di massa, uno dei primi, e grazie a questo nei quattro o cinque giorni successivi all’esplosione abbiamo visto i picchi di diossina nel terreno». C’era un tale clima di rabbia, racconta, «che quando andavamo a prelevare i campioni ci mandavano i carabinieri di scorta»3.
Solo nel giugno del 1977, dopo quasi un anno di proteste, polemiche e rinvii, la regione Lombardia istituisce un Ufficio speciale per Seveso. La bonifica comincia infine nel 1981, e durerà diversi anni. È la prima volta in Italia che si pone il problema di ripulire una zona contaminata da inquinamento industriale. “Bonifica”, in questo caso, vorrà dire scavare e portare via il terreno contaminato per circa mezzo metro di profondità, ma fino a 90 centimetri nei punti più colpiti. Scartata l’idea di incenerirlo, quel terreno intriso di diossina verrà sepolto in due grandi vasche, ben isolate con diverse barriere di sicurezza e interrate in profondità. Là sono finiti anche gli animali morti, gli oggetti personali e i detriti delle case evacuate, tutto ciò che era stato contaminato dalla diossina. Parte del materiale più pericoloso sarà invece sigillato in 41 fusti, che Hoffmann-La Roche si era impegnata a prelevare e smaltire: i “bidoni di Seveso” sono rimasti in ballo per anni, prima trafugati illegalmente in Francia, poi segnalati in Italia, finalmente smaltiti in Germania4. La zona ripulita è stata infine ricoperta di terra buona portata da altrove. Sorvoliamo qui sulla vicenda legale: Hoffmann-La Roche fu costretta ad accettare la responsabilità per l’azienda “figlia”, ma poi se la cavò con un risarcimento, concordato con la regione Lombardia, che ha fatto decadere il procedimento penale.
Oggi chi va a Meda trova un bel parco, il Bosco delle querce: creato negli anni Ottanta, occupa 42 ettari di terreno bonificato della vecchia Zona A. È aperto al pubblico, salvo una zona “di rispetto” (dove sono interrate le vasche); ospita attività ricreative e culturali e anche un archivio5. Una zona verde nel cuore della Brianza, sul luogo del più grave disastro industriale avvenuto in Europa.
Il disastro di Seveso ha segnato una svolta per diversi aspetti. Uno riguarda l’informazione, la diffusione delle conoscenze. Nei primi anni Settanta alcuni medici del lavoro ed epidemiologi avevano cominciato a prestare attenzione alla salute e alla nocività nelle fabbriche. Una delle prime analisi puntuali su cosa era successo alla Icmesa di Meda, sulla produzione di triclorofenoli, le diossine e i dettagli del disastro, è stata quella del Gruppo di prevenzione e igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza (Varese), a cui avevano collaborato due professori di chimica dell’Università di Milano (fu pubblicata dalla rivista «Sapere», in un numero speciale su Seveso in cui si ricostruivano anche le omissioni e i silenzi nella gestione del disastro, le conseguenze sanitarie, le responsabilità6). Il gruppo di Castellanza nasceva da un lavoro comune tra lavoratori e “tecnici”, sindacalis...

Indice dei contenuti

  1. 1. Acqua, fiori e diossine dopo il miracolo italiano
  2. 2. «Zona inquinata soggetta a divieti»: il paradosso di Brescia
  3. 3. La città-fabbrica sul fiume Sacco
  4. 4. L’Ilva incombe su Taranto
  5. 5. Porto Marghera, il mostro nella laguna
  6. 6. Montichiari, la terra dei buchi
  7. 7. Sicilia, dagli agrumeti alle fabbriche
  8. 8. Respirare piombo a Portoscuso
  9. 9. Prima c’era Ferropoli, poi è rimasto il vuoto
  10. Conclusioni
  11. Ringraziamenti