1.
Da «Diritto ecclesiastico»
a «Diritto e religione»
1. Di che cosa parliamo
Lo studio di ogni disciplina necessita una preliminare identificazione dell’oggetto che le è proprio e l’uso di una terminologia condivisa. Questo libro tratta delle relazioni fra diritto e religione, tema che in Italia è tradizionalmente riferito al cosiddetto «diritto ecclesiastico»: espressione che si presta ad una serie di equivoci, in quanto si confonde facilmente col diritto canonico, che è il diritto della Chiesa cattolica, mentre l’espressione «diritto ecclesiastico» si riferisce alle sole norme statali e contrassegna un ambito diverso sia dal diritto canonico sia dagli altri diritti confessionali (come quello indù, ebraico, islamico, buddista, ecc.).
Questo libro ha l’ambizione di trattare le basi dello studio del diritto ecclesiastico e proporne alcune prospettive di sviluppo. Si tratta di una disciplina abbastanza recente, nata nell’Ottocento pressoché contemporaneamente in Italia e in Germania: ossia due contesti europei contraddistinti da una marcata presenza cristiana (cattolica la prima, protestante l’altra). All’inizio gli ecclesiasticisti erano cultori di altre branche del diritto: talvolta specialisti del diritto privato (come Nicola Coviello, 1867-1913), altre volte storici del diritto. Gli iniziatori del diritto ecclesiastico sono stati Francesco Ruffini (1863-1934) e Francesco Scaduto (1858-1942). Il primo, che tradusse il Trattato di diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico del collega tedesco Emil Albert Friedberg (1837-1910), fu ministro della Pubblica istruzione e uno dei diciotto professori universitari che nel 1931 rifiutò di giurare fedeltà al regime fascista. La scuola di Ruffini – considerato «maestro di libertà» – ha visto allievi quali Piero Gobetti (1901-1926), Norberto Bobbio (1909-2004), Alessandro Galante Garrone (1909-2003), Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), quest’ultimo a sua volta indiscusso maestro del diritto ecclesiastico italiano.
In Italia la nascita del diritto ecclesiastico coincide col progetto di unificazione dello Stato, che portò anche una parte dei cattolici a combattere contro la Chiesa, che in una larga porzione della penisola esercitava un vero e proprio potere temporale. Quando nel 1861 l’Italia divenne uno Stato unitario, restava da conquistare ancora Roma: perciò il conflitto con la Chiesa perdurò fino al 20 settembre 1870, quando l’ingresso a Roma delle truppe italiane provocò la debellatio dello Stato pontificio. Il papa – che nel 1855 aveva già scomunicato Cavour e il re Vittorio Emanuele e nel 1868 aveva dichiarato «non conveniente» (non expedit) la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana – attestò di trovarsi «pienamente sotto dominazione e podestà nemica». Con l’enciclica Respicientes ea (1° novembre 1870) definì «ingiusta, violenta, vana e nulla» l’usurpazione italiana, e dichiarò che
tutti coloro che si distinguono per qualche dignità, anche degna di particolare menzione, che abbiano perpetrato l’invasione, l’usurpazione o l’occupazione di qualunque provincia del Nostro dominio e di quest’alma Città, e così pure i loro mandanti, fautori, collaboratori, consiglieri, seguaci o chiunque altro procuri con qualunque pretesto, in qualsiasi modo, o operi per se stesso l’esecuzione delle suddette scelleratezze, incorrono nella scomunica maggiore e nelle altre censure e pene ecclesiastiche inflitte dai Sacri Canoni.
Questa reazione contribuì ad accelerare il processo di secolarizzazione del diritto che era già stato avviato col codice civile del 1865 e con altre misure che attribuirono allo Stato compiti prima esercitati dalla Chiesa, quali l’istruzione, l’assistenza sanitaria e sociale, la disciplina del matrimonio. Molti beni appartenenti agli enti ecclesiastici furono peraltro incamerati nel demanio pubblico; alcuni enti ecclesiastici furono soppressi e quelli conservati furono assoggettati ad una tassa speciale.
L’insieme di queste norme dette luogo al cosiddetto «diritto ecclesiastico civile» – chiamato anche «diritto pubblico dei culti» – o più brevemente «diritto ecclesiastico», che è quindi cosa molto diversa dal diritto canonico. Anzi, costituisce quasi un settore contrapposto rispetto a quello degli ordinamenti confessionali, sicché la produzione di norme di diritto ecclesiastico si presenta per certi versi come una vera e propria apposizione di confini da parte dello Stato verso le Chiese.
L’origine liberale e articolata della disciplina rende ragione della sua perdurante apertura interdisciplinare e della freschezza con cui i suoi cultori sono in grado di leggere i segni dei tempi e mettere in reciproca relazione diritto, storia e politica. Gli ecclesiasticisti sono metodologicamente preparati a coniugare la storia degli avvenimenti con la storia delle idee, e quindi possono aiutare a trovare soluzioni giuridiche in grado di rispondere ai bisogni umani, intesi nella loro complessa articolazione fra esigenze del corpo, della ragione e dello spirito.
Perciò questa materia non si riferisce ad uno specifico settore dell’ordinamento; essa interviene ogni volta che lo spazio giuridico si incontra con fattispecie spiritualmente significative. Non è un compito facile, in quanto la sfera della spiritualità appare in sé stessa evanescente e comunque poco accessibile allo studioso del diritto. Per poterla comprendere e collegare alla sfera dell’apprezzamento giuridico bisogna faticare e servirsi di conoscenze plurali. Tale fatica è però ripagata dalla ricchezza di stimoli che provengono dalla ricerca di fattispecie complesse e mai uguali a sé stesse, come quelle che coinvolgono aspetti etici e religiosi, variamente intrecciati con la storia e la cultura di ciascun popolo.
Lo studio del diritto ecclesiastico affascina proprio perché mette continuamente di fronte alle polarità fra diritto ed etica, fra legge e coscienza, fra cultura e religione. In modo particolare espone la tensione, che molti avvertono come un conflitto di lealtà, fra il dovere di obbedire alla propria coscienza – talvolta orientata dal rispetto di norme religiose – e l’obbligo di obbedienza alla legge. Questa dimensione conflittuale costituisce un po’ il sale della nostra materia, perché, seppure in molti casi gli imperativi di coscienza coincidono con quelli giuridici, sovente sono in opposizione.
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