Capitolo terzo
Analisi dell’opera
1. La Prima parte della «Crisi» (§§ 1-7). Il senso della crisi è la crisi del senso
Il titolo della Prima parte connette programmaticamente la crisi delle scienze alla «crisi di vita», definita «radicale», dell’umanità europea (§ 1). La prima essendo «espressione della seconda», ed essendo questa seconda il vero e proprio luogo la cui crisi va esaminata e compresa, la principale questione da porsi è come possa parlarsi di una crisi delle scienze «malgrado i loro continui successi» conoscitivi. Le scienze positive, dalla matematica pura alle scienze naturali esatte, hanno avuto un’evoluzione che nel caso di queste ultime ha consentito il superamento dell’irrigidimento che le minacciava «sotto il titolo di fisica classica», ma la sconfitta di quest’ultima non significa affatto che si possa guardare con sospetto alle «nozioni evidenti» che essa, insieme alla precedente matematica, aveva attinto. La scientificità «esatta» della fisica di un Newton, come di un Planck e di un Einstein, fino a tal punto è fuori discussione che «riadottando l’atteggiamento dei classici» è possibile comprendere che quelle scoperte, pur superate da altre e sgravate da oscurità, «sono valide per sempre». Anche alla psicologia, la scienza fondamentale esplicativa rispetto alle scienze concrete delle spirito, si deve riconoscere uguale validità. La protesta degli scienziati che esibiscono dunque l’evidente scientificità delle loro discipline, nonostante la costante trasformazione storica e futura dello stile scientifico, di contro alla non scientificità della filosofia, appare fondata. È proprio la filosofia, infatti, a pretendere di rilevare una crisi che le scienze non riconoscono.
Viene così posto (§ 2) il tema critico fondamentale del libro: è nello scarto tra lo sguardo filosofico rivolto alle scienze e la certezza di sé delle scienze che si aprono contestualmente lo spazio in cui una nuova filosofia rivendica la legittimità del proprio rilievo della crisi delle scienze, da un lato, e, dall’altro lato, lo spazio entro cui questa crisi acquisisce il senso che le scienze non vedono. In questo modo, inoltre, si apre anche la possibilità di una critica della scientificità che non intacchi «la legittimità delle operazioni metodiche» delle scienze positive.
La crisi rivela dunque fin dall’inizio la propria ispirazione programmatica: dare letteralmente voce alla crisi culturale e spirituale che aleggia in Europa e che al tempo stesso evoca e anticipa l’imminente catastrofe del mondo (la fine vera e propria di una ragione di ‘vita’ per esseri umani cui è venuta meno una vita di ragione), ma, anche, compiere questa operazione non sulla base di una denuncia dal prevalente rilievo morale. Se, come è evidente, cancellare la forte preoccupazione etica del libro equivarrebbe a negarne la stessa ragion d’essere, è pur vero che sono il modo e l’attuazione di tale ispirazione, di cui non va mai dimenticata la forza motrice (sempre peraltro visibile ed esibita), a costituire il motivo fondamentale della irriducibilità dell’opera ad ogni modello rintracciabile nella tradizione filosofica e il motivo di un fascino destinato a non estinguersi e ancora in attesa di un più profondo riconoscimento. L’istanza etica vi è infatti del tutto risolta nella costituzione del sapere fenomenologico. Quando, affrontando nell’importante § 54 «il problema di una scienza del mondo della vita», Husserl indicherà la via di una restituzione di senso alla doxa preteoretica quale condizione del prodursi di una conoscenza dei fenomeni irriducibile ad una teoria, il suo stesso sguardo – lo sguardo che parla dell’originario guardare come della fonte della verità fenomenologica – appare segnato dalla sensibilità etica, o anche critica, che gli è consustanziale.
È per questo motivo che fin dall’inizio le nozioni di «mutamento» dell’attitudine scientifica, di problematicità e crucialità della psicologia e, al centro di tutto, di «soggettività» indicano la strada che si intende percorrere e di cui è chiaramente anticipato il telos. In questo contesto, la psicologia e la crisi specifica che le viene riconosciuta assumono il ruolo nodale di luogo di ogni «enigmaticità» relativa alle scienze in generale, perché – osserva Husserl in un passaggio rapido che introduce, apparentemente senza un’esplicita giustificazione, all’ambito problematico profondo e cruciale delle conferenze da cui il libro prenderà vita – tutti gli enigmi «si riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia». Nella psicologia, dunque, come ambito dominato dalla soggettività, deve essere messo in evidenza il mistero del senso oscurato della scientificità delle scienze, e deve essere aperta, grazie ad un rivolgimento del modo del guardare, la via di una storicità futura che non si riduca ad una «catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni». È difficile definire altrimenti che come espressione di una preoccupazione ‘umanistica’ prima non udita e in quanto tale del tutto nuova nella sua volontà di restituire alla scienza un valore avvertito come screditato, la pagina (giustamente famosa) in cui Husserl spiega come si debba reagire al discredito, datato alla fine dell’Ottocento, caduto sul rapporto tra la scienza e il suo significato «per l’esperienza umana».
Nel periodo del Rinascimento, la ripresa del «modello esemplare» del filosofare antico e della stessa umanità antica è guidato (§ 3) dall’ideale dell’autonomia, che Husserl connette, secondo lo schema della radicale immanenza del valore etico nella forma del pensare, alla plasmazione filosofica dell’esistenza in base alla capacità di «dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione», che si estendono senza soluzione di continuità dall’ambito teoretico a quello pratico. Husserl non afferma che i due ambiti siano in sé indistinguibili, come accade nelle varie declinazioni dell’idealismo (ad esempio in quello di Fichte, da cui pure aveva tratto ispirazione per la sua concezione dell’etica nelle lezioni dedicategli nel corso del decennio della Grande Guerra). Proprio perché la dimensione pratica del fare (dell’agire in base a valutazioni emotivamente motivate) è una delle espressioni dell’intenzionalità, essa resta distinta dalla dimensione teoretica e giudicativa e nonostante tutti gli sforzi che Husserl compie, specie in un contesto dominato da questioni di fenomenologia etica, per distinguerle e collegarle, la sua strategia si presenta consapevolmente segnata da una duplicità non priva di tensione interna. Da un lato, la ragione, tutta la ragione fenomenologica, si presenta come essenzialmente pratica, mentre dall’altro lato non si cessa di ribadire l’«onnipervasività» e dunque, da questo punto di vista, la superiorità della ragione giudicativa.
Non deve meravigliare dunque che questo snodo tematico letteralmente fondativo dell’intera Crisi (del quale solo un’inaccettabile forzatura consentirebbe di parlare in termini di reductio all’etica dell’intera opera) venga presentato come l’atteggiamento platonico rinascimentale del ri-modellamento, ossia di una ripetizione e conferma del già avvenuto e sedimentato modellamento etico di se stessi e insieme del mondo politico e sociale «in base alla libera ragione». L’ideale dominante (da un lato le imprese di successo di «professionisti» della scienza estranei alla filosofia, dall’altro i sistemi filosofici in lotta tra loro) veniva oscuramente sentito come profondamente logorato, tanto più quando pretendeva di presentarsi come ovvio. Due grandi pensatori, Hume e Kant, tentarono di comprendere le ragioni del fallimento della scienza che la maggioranza tuttora non coglie, proprio in quanto presero le mosse dalla fatale separazione tra una metafisica messa in questione nella sua possibilità (§ 5) e la fattualità cui le scienze positive continuavano a restare legate.
La crisi della scienza moderna è dunque inscindibilmente filosofico-scientifica, in quanto ruota sulle conseguenze della separazione della filosofia dalle scienze di fatto, ossia sulla pretesa di isolare la ragione da quel che è. Il linguaggio husserliano non potrebbe essere più esplicitamente segnato da tracce metafisiche, e non solo nei termini del vocabolario usato, nel momento stesso in cui dall’interno della delineazione della crisi emerge la peculiarità della risposta fenomenologica. La fisionomia essenziale di quest’ultima risente fin dall’origine della forma che viene assegnata alla temporalità storica. La crucialità della famosa Appendice III al § 9, dedicata al tema dell’origine della geometria, risiede tra l’altro nel rilievo dato alla forma del tempo storico e a quella nozione di «storia apriori» che fornisce il modello per la comprensione della struttura definita «sorprendente» del tempo e quindi del senso della crisi. Utilizzando un linguaggio di cui sarebbe difficile negare la parentela con quello di Martin Heidegger, Husserl si chiede: «È possibile separare la ragione e l’essente, se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina quel che l’essere è?». Chiave di volta della tesi è appunto l’inseparabilità di ragione ed essere, ma in base al presupposto che la fattualità ontologica sia un affare cognitivo della ragione che conosce i fatti nel loro senso fenomenologico essenziale.
Il crollo della ragione che conferisce senso a tutte le cose, a tutto ciò che è essente, coincide con il crollo della fede dell’uomo in quel «se stesso» che opera alla ricerca della verità: non v’è margine residuo di fede in un uomo che non risolva se stesso in quella ricerca della verità che il crollo scettico della ragione dichiara impossibile. La ragione si rende essa stessa enigmatica in quanto oscura la distinzione classica tra episteme e doxa. Alla enigmaticità della ragione corrisponde «l’enigma di tutti gli enigmi», quello della connessione tra ragione ed essente in generale, in quanto la ragione è tale nesso. Il «diluvio scettico» che ci minaccia ruota pericolosamente sulla dissoluzione di ciò che non può e non deve sciogliersi: il nesso tra ragione e mondo. La fenomenologia trascendentale sorge dall’interno della crisi della filosofia e del mondo sovvertendone il procedere spontaneo, in quanto mostra e giustifica nelle forme prima inaudite della fenomenologia l’indissolubilità di tale nesso. L’ideale di una «filosofia universale» si pone come motivo conduttore teleologico per la «fondazione originaria dell’epoca moderna in filosofia», ma invece di realizzarsi finisce per dissolversi e nel dissolversi «motiva rivolgimenti rivoluzionari più o meno radicali».
Nell’indicare il proposito delle sue ricerche (§§ 6-7) Husserl rivolge, in piena coerenza con il taglio critico delle pagine introduttive della Crisi e in uno stile ‘polemico’ che non gli è consueto, un attacco alla «ragione pigra» che si piega all’irrazionalismo, sottraendosi alla «lotta per il chiarimento dei dati ultimi e dei fini e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veramente razionale». Il fine essenziale è quello di portare la ragione all’«auto comprensione», ossia al coglimento delle proprie possibilità, affinché la natura metafisica dell’uomo come animal rationale si mostri come l’entelechia dell’intera umanità pervenuta a se stessa. Servendosi di un linguaggio dalla potente ispirazione futurologica e teleologica, Husserl scrive che «la filosofia, la scienza, non sarebbero allora che il movimento storico della rivelazione della ragione universale, ‘innata’ come tale nell’umanità».
Il tono di Husserl si eleva a gradi imprevisti di pathos quando, confrontando il compito cui sente di essere chiamato con la falsa quotidianità dei doveri accademici a cui si torna, dopo la parentesi della segnalazione della crisi, come ai «nostri ‘problemi filosofici’», nega che ciò sia possibile. Non lo è se si riconosce la «miseria» in cui vivono nel presente i filosofi «non letterati» ormai caduti nella «contraddizione esistenziale» di non voler rinunciare alla «fede» nella possibilità della filosofia, senza sapere come realizzare tale fede. Lo spazio della fenomenologia si apre approfondendo il solco di una miseria, di una situazione di disdetta che non ha nulla a che fare con una crisi culturale qualunque. Il poter ricordare che, in quanto filosofi, siamo «funzionari dell’umanità» e che la responsabilità di ognuno di noi preso singolarmente coincide con la «responsabilità per il vero essere dell’umanità, orientato dall’unico telos della filosofia», ha in certo modo a che fare con una assunzione originaria, con una intuizione di base nella quale la fede nella filosofia è essa stessa filosofia in atto e ragione che rimonta la sua miseria nel presente. È per questo motivo che le pagine introduttive della Crisi si chiudono con un’evocazione dell’appartenenza all’origine operante nella «considerazione critica» della filosofia. Tale atteggiamento critico non spezza affatto la continuità di una storia, non introduce a una renovatio del termine in qualsiasi senso ‘rivoluzionaria’. Nell’operare della considerazione critico-fenomenologica l’«aderenza ultima e autentica alla propria origine», la Ursprungsechtheit, vincola la volontà attiva in quell’operare critico in una maniera che deve essere definita apodittica, ossia indicante la certezza non bisognosa di deduzioni con cui si impone la purezza della verità, colta da uno sguardo originario. Tutto in certo senso viene già detto, in queste prime intense pagine, di quanto si manifesta – nel ‘riempimento’ che inizia dalla Seconda parte – come una vicenda filosofica su cui incombe già un senso.
2. La Seconda parte della «Crisi» (§§ 8-27)
2.1. Obiettivismo e soggettivismo trascendentale. La matematizzazione galileiana della natura
I diciannove paragrafi delle Seconda parte (8-27) possono essere divisi in tre segmenti. Il primo, comprensivo del lungo e articolato paragrafo 9, dedicato alla questione della «matematizzazione galileiana della natura», giunge fino al paragrafo 15 incluso. Il secondo segmento (16-21) è dedicato al ruolo giocato da Cartesio nella sua collocazione ambivalente nell’obiettivismo e nel trascendentalismo destinato a «diromperlo», e alla famosa tesi del suo «auto-fraintendimento»; il terzo e ultimo insieme di paragrafi (22-27) conduce alla Terza parte, sulla psicologia di Locke, e, più ampiamente, alla scepsi di David Hume e al motivo trascendentale del razionalismo di Kant.
L’analisi dell’«origine della nuova idea dell’universalità della scienza nella riforma della matematica» e della «matematizzazione galileiana della natura» (§§ 8 e 9) viene condotta come svolgimento del compito della «Spiegazione dell’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale». Che cosa accade all’inizio dell’epoca moderna, quando si torna ad adottare l’idea antica? Ciò che la modernità esige è l’elaborazione di un «compito infinito», basato sulla geometria come scienza di uno spazio «ideale», universalmente a priori e unitario, ossia una teoria unitaria ed infinita, ma in sé conclusa. Tale teoria è chiamata a scoprire ciò che esiste idealiter nello spazio: nel suo procedere all’infinito essa mostra ciò che è già preliminarmente vero. A partire dalla modernità che rinnova l’antico, l’infinità del compito teoretico geometrico si realizza intensivamente (e in certo senso pre-fenomenologicamente) nel contesto di una «totalità infinita dell’essere» che viene percorsa e dominata da una scienza razionale. Quest’ultima scopre che il mondo infinito è abitato da «idealità», da oggettualità ideali che esigono di essere raggiunte da un pensiero sistematico (ossia non casuale nel suo procedere conoscitivo), il quale lascia che ogni oggetto attinga infinitamente il proprio «pieno essere-in-sé», ossia che appunto esibisca la propria idealità. Idealità apriorica infinita dell’oggetto geometrico e infinità del metodo del procedere infinito, che ‘segue’ il costituirsi dell’oggetto stesso ad idealità essenziale, sono due lati della stessa situazione moderna.
Se nel platonismo il reale partecipa all’ideale, con Galilei la natura viene matematizzata, ossia ‘idealizzata’ dalla nuova matematica. La realtà naturale diviene una «molteplicità matematica». È chiaro allora che il fulcro dell’analisi fenomenologica di quel che accade nella modernità è costituito dall’analisi della piena espansione e della radicalizzazione matematizzante che fa del mondo una rete di idealità. Che cosa comporta tale svolta teorica? Husserl (§ 9) scrive che Galilei sostiene una «ovvietà» di base, giustificativa del «nuovo senso dell’idea di una conoscenza matematica della natura», che richiede di essere ben illustrata. Esiste invece una «vera natura», le cui forme pure delineano la geometria pura e la matematica «della pura forma spazio-temporale».
Nell’Appendice I al § 9 Husserl rileva che nella concezione galileiana della natura la vecchia idea di una «regolamentazione universale degli eventi del mondo fisico» assume il senso nuovo legato alla tesi della dipendenza della natura da leggi causali esatte. Così la natura stessa si trasforma in un «universo calcolabile»: «L’antica idealizzazione – ampliata al di là della spazio-temporalità delle figure, fino a diventare una matematizzazione dei mutamenti – si connette con la matematizzazione delle stesse realtà idealizzate nella loro causalità». L’idealizzazione diviene matematizzazione dei mutamenti causali. All’interno di questa prospettiva si apre la questione della psicologia, che Husserl affronta nella Terza parte della Crisi, che è in certo senso tematicamente parallela al testo della prima Appendice. La natura è l’universo della causalità continua che abbraccia la spazio-temporalità idealizzata e matematizzata. Gli effetti si realizzano attraverso movimenti causali e quindi nella continuità, ma la vita psichica è soltanto compresente alla vita fisiologica o biofisica. «Ogni idea di continuità psichica che congiunga le anime tra loro in una continuità di tipo motivazionale è esclusa. La causalità fisica continua dei corpi propri media anche la causalità psichica».
L’Appendice I si conclude con il riferimento al tema di fondo che collega la parte iniziale della Crisi al tema della psicologia nella Terza parte. Quel che deve essere colpito dalla critica non è la concezione naturale del mondo nella vita quotidiana o nelle scienze esatte, m...