Dalla struttura alla funzione
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Nuovi studi di teoria del diritto

  1. 272 pagine
  2. Italian
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Nuovi studi di teoria del diritto

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«Gli scritti di teoria del diritto qui riuniti sono tutti percorsi o toccati da un tema dominante, che è quello della funzione 'promozionale' del diritto. Si tratta di un tema il cui rilevamento e la cui discussione io considero fondamentali per adeguare la teoria generale del diritto alle trasformazioni della società contemporanea e alla crescita dello stato sociale. Questo adeguamento è diventato necessario per chi voglia comprendere la metamorfosi del diritto da strumento di 'controllo sociale' in strumento di 'direzione sociale', insomma per colmare il divario fra la teoria generale del diritto qual è e la stessa teoria quale dovrebbe essere in un universo sociale continuamente in movimento.»

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858114193
Argomento
Filosofia

X. Tullio Ascarelli

1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera

L’ultimo scritto di Tullio Ascarelli prima della morte, avvenuta prematuramente il 20 novembre 1959, fu l’ampia Introduzione a un’edizione di testi rari di Hobbes e di Leibniz1. Il libro apparve postumo, curato e annotato da Giorgio Bernini e Domenico Maffei, con una presentazione del discepolo Michele Giannotta. Era il primo volume di una collana di «Testi per la storia del pensiero giuridico», che, ideata da tempo, era stata negli ultimi anni oggetto di ripensamenti e cure costanti.
Il nostro comune interesse per il pensiero giuridico di Hobbes, e specialmente per il Dialogo sul diritto comune, alla pubblicazione del quale attendevamo contemporaneamente all’insaputa l’uno dell’altro, era stato all’origine di uno scambio epistolare avvenuto nei primi mesi del ’59. Il pensiero della collana, che egli aveva concepita come strumento di rottura e di apertura verso la dottrina giuridica, generalmente incuriosa della propria storia, e mezzo di rinnovata diffusione delle idee, che più gli stavano a cuore, sulla natura e sulla funzione della scienza giuridica, era, in quelle lettere, preminente. Il 10 febbraio mi scriveva: «... io sono assai convinto della necessità di un’apertura di finestre culturali nel mondo del diritto». Quindi abbozzava quasi un programma di lavoro: «...con tanti studi sul “mos gallicus” nessuno ha rilevato il rapporto con la posizione dei culti di Ottomano, ecc., con Ockham, e col nominalismo; nello studiare l’interpretazione del ’500 e poi Ramus si è dimenticato che al contrasto con Ramus è intesa la “Nova Methodus” di Leibniz; con tutto quello che Domat rappresenta per la codificazione napoleonica e nostra non si è indicato quanto sulle sue tesi... abbia potuto influire il suo legame col mondo di Port Royal». Subito dopo, con una impennata verso i principi, di cui s’era fatto negli ultimi anni assertore, propugnatore, divulgatore, scopriva il fondo del suo pensiero, la reale intenzione che lo muoveva nell’intrapresa: «...i giuristi immaginano di lavorare su un piano meramente tecnico scissi dall’opera del legislatore e dallo sviluppo della storia e a loro volta vengono così considerati. Così l’attività del giurista diventa un po’ sempre un’arte di azzeccagarbugli, mentre forse le varie correnti di pensiero e le varie ideologie poi operano proprio attraverso tutti gli schemi del lavoro del giurista». Chi abbia qualche familiarità con le opere di Ascarelli, troverà in queste poche battute alcuni tratti essenziali e originali della sua personalità di studioso – indocilità verso le idee tramandate, amore dell’avventura intellettuale, bisogno di muoversi in spazi sempre più larghi – e del suo pensiero – storicismo e realismo congiunti insieme, che confluiscono nella concezione della indistinzione tra diritto e scienza giuridica.
Come ultimo scritto, la lunga Introduzione ai testi di Hobbes e di Leibniz assume un significato singolarissimo nell’evoluzione di un pensiero che si era mosso ininterrottamente in un’unica direzione. Dopo tante allusioni e riferimenti e straripamenti verso la storia del pensiero giuridico, e dopo tante schermaglie, quasi sempre occasionali, con le correnti del pensiero giuridico contemporaneo, negli scritti degli ultimi dieci anni, Ascarelli affrontava in questa Introduzione, per la prima volta direttamente, un tema storico e filosofico insieme. Essa costituì certamente il punto di arrivo di un lungo travaglio e insieme una prova del fuoco: se la sua vita non fosse stata recisa troppo presto, sarebbe stata probabilmente anche un punto di partenza. Il filo rosso, che aveva legato tutte insieme le sue opere da quelle giovanili a quelle della maturità, sempre più forte, teso e visibile negli scritti dell’ultimo decennio, era stata l’idea della natura creatrice e non soltanto ricreatrice, assiologica e non soltanto logica, innovativa e non soltanto dichiarativa, dell’opera dei giuristi. Eppure, nonostante la parte di protagonisti che essi hanno assolto nella elaborazione secolare del patrimonio di regole giuridiche di cui dispone oggi la società moderna per risolvere gli infiniti problemi di convivenza e di organizzazione che un’economia sempre più complessa, traffici sempre più intensi, sollevano, i giuristi tendono, per lunga e consolidata tradizione, a considerare la loro opera come un monumento di rigore logico e di costruzione sistematica: non si ricorderà mai abbastanza il grande Savigny che ammirava i giuristi romani perché «calcolavano» coi loro concetti. Ragione di sorpresa e occasione di continue riflessioni fu per Ascarelli l’osservazione del perenne divario tra quello che i giuristi effettivamente fanno e quel che spesso credono o pretendono e dicono di fare. Non si faceva in tempo a scoprire il terreno reale su cui si muoveva il pensiero giuridico di tutte le età che una nuova ondata di metodologica presunzione lo ricopriva: gli ultimi strali di Ascarelli erano rivolti al neopositivismo che cercava di mettere una fronda al vecchio, ormai devastato albero del logicismo giuridico. Pertanto, uno dei compiti fondamentali della storia del pensiero giuridico doveva essere quello di dar conto delle ragioni della divergenza tra il metodo effettivamente praticato e la metodologia proposta e proclamata. Ascarelli, da buon storicista, sapeva che le metodologie non nascono improvvise nel cervello di un pensatore, perché sono il prodotto di situazioni storiche concrete, in particolare, trattandosi di teorie sul metodo della scienza giuridica, delle condizioni di sviluppo di una determinata società, coi suoi conflitti d’interesse e con le concezioni generali che ne derivano sulla funzione del diritto. Perciò, allo scopo di veder chiaro in quella divergenza era necessario collocare l’eterna aspirazione del giurista a far dell’arte sua una scienza, addirittura una scienza esatta, nel contesto storico in cui la giurisprudenza opera, individuare i nessi tra l’ideologia della giurisprudenza come scienza e la realtà storica da cui scaturiva, insomma avvicinarsi allo studio della storia della giurisprudenza – impresa affascinante e sterminata – con lo sguardo rivolto alla sua funzione reale piuttosto che non a quella di volta in volta proclamata.
La pubblicazione di alcuni testi scelti di Hobbes e di Leibniz mirava precisamente a questo scopo. Può apparir strano il connubio tra due pensatori che sono di solito considerati su opposte sponde rispetto alla fondazione ultima del diritto, l’uno volontarista, l’altro razionalista, o, se si vuole, giusnaturalista nel senso più rigoroso della parola, nemico dichiarato dei volontaristi, e di Hobbes in ispecie. Ma nel programma di ricerche e nell’intenzione polemica di Ascarelli essi erano strettamente congiunti dalla comune concezione dell’interpretazione giuridica come opera non innovativa ma dichiarativa: potevano quindi essere considerati come autorevoli progenitori della concezione «dogmatica» della giurisprudenza, che aveva rappresentato una parte tanto cospicua nella storia del pensiero giuridico del secolo scorso, responsabili artefici di uno dei dogmi fondamentali del positivismo giuridico. Anche se l’espressione «positivismo giuridico» non è abituale nel linguaggio di Ascarelli per indicare quella teoria e quell’ideologia del diritto, di cui la concezione dichiarativa dell’interpretazione è stata uno dei maggiori caposaldi, credo si possa annoverare questa proposta ascarelliana di rileggere Hobbes e Leibniz in una stessa chiave tra le testimonianze di un recente diffuso interesse per le fonti del positivismo giuridico: solo questa collocazione, del resto, può offrire il giusto angolo per giudicare un’opera, che è stata l’ultimo messaggio di un autore estremamente sensibile nell’individuare i punti nodali di un processo storico, e sarebbe dovuto essere l’inizio di un ripensamento insieme puntuale e globale di un indirizzo di pensiero giunto al momento del rendiconto risolutivo.
Ascarelli sapeva benissimo che Leibniz era, a parole, antihobbesiano: ma gli premeva dimostrare che la teoria dell’interpretazione, che lo accomunava ad Hobbes, doveva avere (e aveva) un’unica radice, cioè l’esigenza della certezza elevata a supremo valore dell’esperienza giuridica. E così raggiungeva anche un altro scopo: far vedere che dietro la teoria più astratta e apparentemente innocua si nascondeva un’ideologia, e compito dello storico è di snidarla. Peraltro, nonostante l’identità dell’ispirazione, le teorie di Hobbes e di Leibniz non potevano essere confuse l’una con l’altra: la medaglia che essi volevano coniare era la stessa ma ognuno ne aveva riprodotto una sola faccia. Fuor di metafora, i loro sforzi sistematici corrispondevano a due momenti diversi dell’ideale della certezza: quelli di Hobbes al momento della posizione d’un ordinamento, quelli di Leibniz al momento dell’applicazione di un ordinamento già posto (che era per lui, una volta per sempre, il diritto romano). Con le parole di Ascarelli: «La certezza di Hobbes è la certezza di una soluzione, e la sicurezza di una convivenza; quella di Leibniz la certezza di un’argomentazione»2. Il rilievo dato a questa distinzione può spiegare come mai Ascarelli assuma di fronte ai due autori, anche se in forma non del tutto esplicita, due atteggiamenti diversi, di simpatia e in parte di adesione rispetto a Hobbes, di critica, o per lo meno di freddo distacco, di fronte a Leibniz. Verso quest’ultimo non si stanca mai di ripetere che l’assegnare al giurista un compito meramente dichiarativo, logico, e al massimo sistematico, è prova di spirito conservatore, è la manifestazione di una concezione passiva, servile, della giurisprudenza, di una visione statica della formazione del diritto, che i giuristi e i principi romani hanno una volta per tutte elaborato, onde non resta che continuarne l’opera in un rinnovato spirito di rigida fedeltà. Di Hobbes, invece, è un fervido ammiratore: una curiosa nota autobiografica suggerisce, di questa sua ammirazione, una spiegazione psicologica. Citando il libro su Hobbes di Leo Strauss, osserva: «Sembra che coloro che hanno percorso le vie dell’esilio [...] subiscano l’attrazione di Hobbes e forse proprio per il coraggio della sua durezza e insieme per l’eticità che proprio la sua durezza finisce per reintrodurre»3. A giudicar dalla rinascita hobbesiana di questi ultimi anni, dopo il crollo di tanti Leviatani, dalla difesa che del suo pensiero politico è stata fatta da autori non certo sospetti di indulgenza verso il dispotismo, la posizione di Ascarelli non è affatto eccezionale: il fascino perenne di Hobbes deriva dal realismo senza illusione dei suoi principi unito all’asciutto rigore dei suoi ragionamenti. Questa ammirazione peraltro non basta a spiegare come mai un critico così convinto e perseverante di uno dei dogmi più celebri del positivismo giuridico, come Ascarelli, fosse andato a scegliere come testo da consigliare ai giuristi per una lettura liberatrice proprio uno dei documenti più impressionanti, ancorché quasi sconosciuto, della preistoria del positivismo giuridico, il famoso Dialogo sul diritto comune, quel dialogo, tanto per intenderci, in cui, sin dalle prime battute, il Filosofo getta in faccia al Legista, portavoce di sir Edward Coke, la sfida: «Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge»4.
Ascarelli vede nel pensiero di Hobbes due aspetti, uno regressivo, l’altro progressivo: il primo consiste nella teoria dichiarativa dell’interpretazione, ovvero nell’attribuzione al giudice di una parte sostanzialmente passiva nel processo di creazione del diritto, il secondo nella rivalutazione della ragione naturale di ogni singolo individuo, contro la ragione artificiale della corporazione dei legisti, esaltata dai fautori della common law. Ma qual era poi la funzione reale della ragione naturale nella creazione del diritto? Se Ascarelli avesse tratto tutte le conseguenze dai principi hobbesiani, si sarebbe reso conto che nello stato la ragione naturale dei singoli individui viene soppressa e superata nella ragione anch’essa artificiale, perché prodotta da un accordo, del sovrano. Che era poi lo stato, secondo la più genuina esperienza hobbesiana, se non un «homo artificialis» che si ergeva con la sua potenza unificatrice sulla impotenza dissociante dell’«homo naturalis»? La divergenza tra Coke e Hobbes derivava dal contrasto tra la ragione artificiale della corporazione dei giuristi e la ragione anch’essa artificiale del sovrano. La ragione naturale era stata, in entrambe le teorie, cacciata fuori della porta, e poiché la ragione naturale è l’organo del diritto naturale, quel che in definitiva l’una e l’altra posizione avevano espunto dal sistema era proprio il diritto naturale. Nella riduzione hobbesiana del diritto a calcolo utilitario Ascarelli vedeva, per contraccolpo, l’affermazione di un’etica della coscienza e quindi la liberazione dell’etica dall’abbraccio mortale col diritto. Hobbes, così interpretato, diventava il campione di quella separazione tra morale e diritto che sarebbe ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione (di Mario G. Losano)
  2. Premessa
  3. I. La funzione promozionale del diritto
  4. II. Le sanzioni positive
  5. III. Diritto e scienze sociali
  6. IV. Verso una teoria funzionalistica del diritto
  7. V. L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi
  8. VI. Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto
  9. VII. La grande dicotomia
  10. VIII. Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano
  11. IX. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen
  12. X. Tullio Ascarelli