Aria di Russia
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Aria di Russia

Diario di un viaggio in Urss

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Aria di Russia

Diario di un viaggio in Urss

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«Debbo confessare che sono inconsciamente portato a guardare fuori, come se il socialismo dovesse apparire in modo inequivocabile sugli alberi e sui prati.»

«Finalmente vedo Lenin, prima di profilo, poi di fronte, poi di nuovo di profilo. È tutto vestito di nero, e il corpo è appiattito. Ha la giubba chiusa dei primi bolscevichi. La testa la fisso a lungo, per decidere se è una statua o un uomo vero: può sembrare assurdo, ma la cosa non appare affatto chiara. E non tanto perché il volto di Lenin, come le sue mani, sembra di cera, ma perché la domanda che mi sta più pressando dentro è questa: cosa aggiunge alla verità che è per noi Lenin vederne così il corpo? Lenin è somigliantissimo a quello che si vede nelle fotografie: la fissità e la mancanza di espressione hanno rinsecchito l'aspetto puramente morfologico, che è così molto vicino al vero, ma come in una copia mummificata. Una fotografia ha gli occhi vivi; qui c'è il corpo vero, ma gli occhi sono chiusi. Cosa vale di più?»È il 31 agosto del 1963. Claudio Pavone sale sul treno che lo porterà oltre la cortina di ferro. L'occasione del viaggio è un programma di scambio italo-sovietico per raccogliere informazioni sui documenti italiani presenti nei diversi archivi sovietici e, prima, la III Conferenza internazionale della Resistenza che si tiene a Karlovy Vary in Cecoslovacchia. Da Praga un treno lo condurrà attraverso la Polonia, le sconfinate pianure ucraine, fino a Mosca e poi a Leningrado e Kiev. Di questo viaggio Claudio Pavone tiene un diario in cui annota meticolosamente impressioni, incontri, discussioni, immagini restituendo intatto quel mondo sovietico, non più staliniano, ma non ancora attraversato dal disgelo di Chruščëv.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858125717
Nel 1963 fui invitato a partecipare a un programma di scambio italo-sovietico nel quadro di un accordo bilaterale che prevedeva il soggiorno di un archivista italiano in URSS per raccogliere informazioni sui documenti italiani presenti nei diversi archivi sovietici (il frutto di questo lavoro venne poi raccolto in una serie di contributi da me pubblicati fra il 1965 e il 1966 sulla «Rassegna degli Archivi di Stato») e il successivo soggiorno di alcuni archivisti sovietici in Italia. Il decennio 1958-1968 fu un periodo di intensificazione delle relazioni tra i due paesi, in un momento in cui, soprattutto dopo il XX Congresso del PCUS (1956), il segretario del partito Nikita Chruščëv aveva inaugurato una politica di cauto disgelo nelle relazioni della Russia con i paesi europei.
Il mio soggiorno in URSS durò quasi un mese (dal 7 settembre al 5 ottobre) e fu per me occasione di conoscere da vicino l’Unione Sovietica, soprattutto attraverso gli incontri con archivisti e storici, e di riflettere sulle contraddizioni di un paese allora in profonda trasformazione .
Decisi di arrivare in Russia in treno e così attraversai l’Europa passando per la Cecoslovacchia e la Polonia. L’occasione mi fu data dalla partecipazione al III Convegno internazionale di storia della Resistenza che si tenne a Karlovy Vary dal 2 al 4 settembre del 1963 e che vide una forte presenza degli storici italiani.
Quello che segue è il diario del mio viaggio oltre la cortina di ferro, dalla partenza da Roma il 31 agosto al mio rientro il 5 ottobre 1963.
Voglio riuscire a prendere appunti ordinati su questo mio viaggio. Dunque comincio dall’inizio. Dalla partenza da Roma.
31 agosto
Naturalmente (direbbe mia moglie) prendo il treno per miracolo; ma la colpa non è mia (un po’ anche mia), bensì del taxi che non arriva. Mi ritrovo in mezzo a via Pereira con la terribile valigia blu, la valigetta e la borsa (che è riuscita ad essere a sua volta pesante), attorniato da Sergio e famiglia solidali, ma impotenti, mentre attendo con crescente nervosismo il taxi. Decido allora di ricorrere a Paola: chiamo al citofono e le ingiungo di accompagnarmi subito alla stazione. È discinta, e mentre sta vestendosi catturo per fortuna un taxi vagante, che con una gran corsa mi permette di non perdere il treno. Il Giampi1 già cominciava ad insospettirsi.
Treno pieno. Signorina Tedesco che non si trova. Parliamo col Giampi di politica, di Piovene (io contro, lui pro), perfino di donne (è una delle prime volte, se non la prima, che riesco a fare con lui un discorso su tale argomento di carattere piuttosto personale). Breve discesa a Venezia. Mentre Giampi ordina qualcosa alla tavola calda, io, per cercare una farmacia, debbo uscire un po’ dalla stazione: prevista, ma sempre meravigliosa, visione del movimento di gente, di acqua e di luci, della sensualità e del calore di Venezia (Giampi si meraviglierà poi che io consideri Venezia sensuale, ma finirà col convenire). Fra turismo e balnearità, sembra una gran folla di gente su una spiaggia notturna; e come in tutte le città marittime, colpiscono le molte donne che sembra siano sempre in tenuta da mare.
Dopo Venezia si comincia sul treno a sentire odore di «cruccagna». Ci sono un vagone intero e vari scompartimenti occupati da comitive di turisti austriaci. «Riservato», mi dice infatti con aspro cipiglio una teutone, quando mi vede entrare nel suo vagone nel corso della mia solita passeggiata esplorativa del treno.
A Tarvisio incontriamo Frassati2, che è salito a Udine e che viene anche lui a Karlovy Vary. Gli presento Carocci, il quale mi chiede se Frassati è comunista, visto che l’hanno messo nella delegazione dell’Istituto Gramsci. Gli rispondo che non è iscritto e che è più o meno come me. Dice che è stato un errore far eleggere deputato il proprio fratello3 anziché lui.
La visita doganale e di passaporto è abbastanza rapida e blanda (debbo dire che le troverò tutte così, nelle molte frontiere da passare per arrivare a Mosca: mai nessuno mi farà aprire le valigie). Cinque o sei soldati (o guardie) austriaci che vedo passare sul marciapiede della stazione mi fanno però subito una pessima impressione: un tedesco in divisa provoca ormai in me un vero e proprio riflesso condizionato. Faccio notare a Frassati che il colore verdastro delle divise mostra che usciamo dai paesi della NATO. «Questi», risponde Frassati, «sono rimasti alla Wehrmacht». E certo la mattina dopo, quando in treno ne vedo molti in divisa, mezzi addormentati sulle panche, l’impressione sgradevole torna con insistenza.
Le vetture austriache sono però molto comode e la notte in tre in uno scompartimento di prima, allungando i sedili, si sta davvero bene. Fa freddo e bisogna coprirsi. Frassati russa.
1° settembre
La mattina ci svegliamo verso il Semmering (ricordo che avevamo pensato di venirci in viaggio di nozze, ma l’albergo che ci avevano raccomandato era chiuso). Sembra davvero un bel posto. Vi sono fiocchi di nuvole tipicamente di montagna, abeti, si vedono alberghi. Il treno scende, aggirandosi per le strette gole boscose con volute fatte soprattutto di gallerie e di ponti, con rapidi e bellissimi squarci panoramici. In pianura, a Wiener Neustadt, troviamo che è proprio brutto tempo. Ho le prime sensazioni di squallore, che ritroverò spesso durante il viaggio. Qui si tratta soprattutto di grigiore di aria.
Il treno ha più di un’ora di ritardo e rischiamo di perdere la coincidenza per Praga; Frassati ci dice che c’è solo questo treno. Ci precipitiamo a terra, Carocci ed io trasportando a fatica il valigione. Wien Südbahnhof sembra una bella e accogliente stazione. Ma non ho il tempo di guardare troppo attorno. Ci infiliamo in un taxi (ce ne sono sì e no tre o quattro) e incitiamo come possiamo l’autista a correre verso il Franz-Josephs-Bahnhof. Attraversiamo una città quasi totalmente deserta. È vero che si tratta di domenica mattina alle 8, ma l’impressione di vuoto e di solitudine, di vecchiaia, è ugualmente forte. L’autista ci indica il Ring, che attraversiamo e che è a sua volta deserto. Forse sappiamo già che Vienna è una città in decadenza e perciò siamo preparati a vedere abbandono anche dove non c’è. Ma l’immagine che ne rimane è questa, rafforzata del resto dal Franz-Josephs-Bahnhof. Il quale da fuori sembra uscito dal negozio di un robivecchi amante di qualcosa che assomiglia al neoclassico e dall’interno fa venire in mente le stampe delle prime ferrovie. Pochissimi binari, direi non più di quattro o sei; una strana tettoia a cuspide; un atrio minuscolo; fumo e nebbia, comunque poca luce. Da un binario all’estremità sinistra è in partenza il «Vindobona». Nonostante il nome aulico e il fatto che vada fino a Berlino, sembra un modesto trenino delle vicinali, grigiastro e, almeno di fuori, sporchetto. Sul marciapiede strettissimo si accalca molta gente, non capisco se tutti viaggiatori o anche parenti e amici. Il treno appare già pieno. Ma, quel che è peggio, non ci vogliono far salire perché non abbiamo la prenotazione. Bestemmie all’indirizzo dell’Italtourist (Frassati per la sede di Milano) che non ci ha avvertito.
Mancano pochi minuti e un tentativo di fare in extremis la prenotazione non riesce perché è tutto esaurito. Frassati e Carocci vanno ad implorare il capostazione e io rimango vicino allo sportello che sta per chiudersi da un momento all’altro, a guardia delle valigie. Finalmente i due amici ricompaiono col capostazione che dice al cerbero di guardia di farci salire (il tedesco del Giampi e le parole «congresso internazionale» hanno scosso anche l’asburgico attaccamento ai regolamenti). Non sappiamo se dobbiamo dar mance (è questo un dubbio destinato a ricomparire più volte: vuoi per tema che ci scambino per i soliti italiani convinti che con le mance e la corruzione si ottiene tutto, vuoi, dopo, per paura di offendere la moralità socialista). Chiediamo: «pagare?». Ci rispondono con energici gesti di diniego. In fondo, avremmo dovuto pagare la prenotazione non fatta, ma così risparmiamo anche quella.
Per non stare in piedi, ce ne andiamo al ristorante. Parliamo di politica: Frassati si conferma «baffonista». Ci racconta vari episodi interessanti di vita politica e della sua candidatura a Novara, sfumata all’ultimo momento per beghe di partito. È convinto che la Camera verrà sciolta e che verranno fatte nuove elezioni. Dice che Secchia4 nell’ultimo Comitato centrale ha fatto un intervento molto critico, sostenendo che il partito italiano non deve limitarsi a dar ragione a posteriori a Chruščëv, ma deve cercare di ridurre la tensione tra PCUS e Partito comunista cinese avendo di mira innanzi tutto l’unità del movimento comunista internazionale. Togliatti ha ribattuto a lungo (aveva prima detto che non sarebbe intervenuto nel dibattito) e molto polemicamente. Cerco di introdurre il discorso su quello che la polemica con la Cina rivela di ambiguità nella linea del PCI: e fin qui Frassati partecipa. Ma mi sembra che non segua più quando voglio allargare il discorso a ciò che oggi deve intendersi per contenuto universale del socialismo, alla possibilità che alla coesistenza corrisponda un reale avvicinamento di sistema sociale e di vita fra URSS e USA, e così via.
Il treno costeggia in qualche punto il Danubio e attraversa campagne molto verdi. Quando arriviamo al confine, a Gmünd, scopriamo che, avendo il biglietto di prima, possiamo andare a sederci in prima, dove ci sono posti liberi. La cosa era ovvia, ma noi non ce ne eravamo accorti: ci aiuta una robustissima ferroviera cecoslovacca in divisa azzurrina, prima donna socialista in cui mi imbatto nel mio lungo viaggio, e che mi dà l’impressione di una grande mole alleggerita, nei limiti del possibile, dalla cortesia.
Non mi sembra che i controlli cecoslovacchi siano molto più severi di quelli italiani o austriaci. Ritirano i passaporti, che restituiranno poi, e fanno riempire un modulo per la valuta. Dopo un po’ il treno lascia Gmünd e si avvia a varcare la cortina di ferro. Guardo dal finestrino ma, forse perché debbo a un certo punto rispondere a una domanda non ricordo più se di Frassati o del Giampi volgendo lo sguardo verso di loro, non vedo reticolati o altri sbarramenti. Del resto il treno si ferma quasi subito nella prima stazione cecoslovacca, České Velenice, anch’essa piccola e modesta. Fine dei controlli e partenza. Fino a Praga il treno fermerà solo a Tabor, quella della battaglia degli hussiti.
Debbo confessare che sono inconsciamente portato a guardare fuori, come se il socialismo dovesse apparire in modo inequivocabile sugli alberi e sui prati. Si tratta in real­tà di una campagna bella, verde, punteggiata di boschi e boschetti, a un certo punto con molti piccoli laghi o stagni. Poche case, poche strade, pochissime automobili. Non troppo spesso qualche fabbrica. Giustamente Manacorda5 dirà poi che, essendo venuto da San Candido a Karlovy Vary, ha avuto l’impressione di viaggiare sempre nello stesso paese: l’impero asburgico. E certo, non solo il paesaggio ma anche gli uomini mi sembrerà che in Cecoslovacchia siano un misto di tedesco e di slavo, con una urbanità (nel senso letterale di spirito cittadino) che addolcisce l’aspetto tedesco e occidentalizza quello slavo.
Il treno raggiunge la periferia di Praga con qualche minuto di anticipo. «C’era un certo regime che faceva viaggiare i treni in orario», dice Frassati, «ma il socialismo li fa arrivare addirittura in anticipo». «Si vede», dico io, «che il macchinista ha superato la norma, e ha realizzato il piano al 105%». Ma proprio in quel momento il treno si ferma già in piena città, all’imbocco di una galleria oltre la quale c’è la stazione, e non accenna a riprendere la corsa. «Evidentemente», dice Giampi, «il macchinista è un dogmatico settario, e ora lo devono star facendo rientrare nella legalità socialista». «Voi ci scherzate con queste cose, ma sono cose serie», ci rimprovera Frassati con benevola serietà.
Vedo dal finestrino case vecchie e case nuove; fra l’altro una brutta chiesa moderna in cemento armato, che cerco di far notare a Giuntella6 (che abbiamo incontrato sul treno) per meglio disporlo nei riguardi della repubblica socialista. Finalmente il treno attraversa la galleria e poco dopo si ferma alla stazione principale di Praga, che è stile Ottocento, con alte tettoie di ferro e vetro. Scendiamo fra una discreta folla. Frassati e Giampi vanno alla ricerca della segreteria del congresso che dovrebbe funzionare alla stazione, ma trovano soltanto Manacorda che si aggira a sua volta senza fortuna con lo stesso obiettivo. Strasciniamo le valigie per i sottopassaggi e arriviamo a un ufficio informazioni: anche qui nessuno sa nulla. Comincia una lunga attesa, intervallata da vane telefonate dell’ufficio informazioni all’aeroporto, da altrettanto inutili telefonate di Frassati a suoi introvabili amici, eccetera. Siamo arrivati alle 13, sono le 15, abbiamo fame. Manacorda sostiene che devono aver organizzato tutto a puntino, ma dimenticando che il 1° era domenica: quindi ognuno degli uomini dell’organizzazione se n’è andato a passare la festa per i fatti suoi. Manacorda parla volentieri con accento critico del ritardo dei dirigenti cecoslovacchi a dare avvio alla destalinizzazione. Si slancerà perfino a raccontare barzellette antistaliniste che forse avrebbe fatto meglio a risparmiarsi. Giuntella cerca di rendersi utile informandosi se ci sono treni per Karlovy Vary; e, di fronte alla disorganizzazione palese, assume, nei confronti di Manacorda, di Frassati e un po’ anche di Giampi e me, l’aria vagamente imbarazzata di coloro cui capita di assistere a pasticci delle famiglie altrui. Io comunque approfitto della lunga sosta per osservare la gente e per fare qualche puntata fuori della stazione. Guardo fisso uomini e donne, che vanno e vengono numerosi, come se così potessi leggere loro dentro. E dentro, che mai avranno? Cosa avranno pensato quando Masaryk si è «suicidato», quando impiccavano Slánský e gli altri? E ora sono distesi o compressi, stanchi o orgogliosi? Come si fa a chiederglielo? «Che guaio, la torre di Babele», dico a Manacorda, che mi guarda un po’ stupito. Questi sono uomini come noi, e basta la lingua diversa a renderli così lontani. Come fare a sceverare quanto di questa lontananza è dovuto alla lingua e quanto al socialismo? La gente è vestita a sufficienza, ma male: è socialismo o cattivo gusto? Ancora non so dare una risposta. C’è molta gente in divisa, e molte donne ferroviere (accanto al treno avevo vista una corpacciuta capostazione in berretto rosso).
Verso le 15,30 decidiamo di andare a cambiare dei soldi e a mangiare, poi si vedrà. Trovare da cambiare non è facile, e ci rimandano da un albergo all’altro. Questa parte della città vicina a...

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  1. 31 agosto