Michelangelo
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Michelangelo

Una vita inquieta

  1. 494 pagine
  2. Italian
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Michelangelo

Una vita inquieta

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Questo libro è un'occasione preziosa per conoscere Michelangelo senza le incrostazioni del tempo: quest'uomo ossessionato dall'arte, a volte selvatico, senz'altro fragile, comunque unico. Forcellino conosce anche i millimetri del marmo con cui ha lottato l'artista e ci riporta sulle impalcature, ci fa riascoltare il lavoro dello scalpello.

Armando Torno, "Corriere della Sera"

Pochi sono i biografi italiani capaci di raccontare con passione di romanziere e precisione di studioso come Forcellino. Il suo Michelangelo racconta la vita di un artista che pagò un prezzo altissimo alla creatività che lo rese più celebre di un re.

Brunella Schisa, "il Venerdì di Repubblica"

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858101698
Argomento
Arte

La primavera del genio

Attacchi di panico

La sera del 5 aprile 1492, mentre una paurosa tempesta tormentava il cielo di Firenze, un fulmine colpì la lanterna di Santa Maria del Fiore, scaraventandone a terra una buona parte. Appena fuori città, nella sua casa di Careggi, Lorenzo il Magnifico osservava angosciato la tempesta e si abbandonava ai presentimenti più cupi. Da molti mesi era costretto a letto da una malattia insidiosa, che si era presentata inizialmente come un lieve disturbo e aveva ingannato i medici, che l’avevano sottovalutata. La sua vita era stata così eccezionale che Lorenzo si convinse che anche la sua morte avrebbe avuto un carattere fuori dall’ordinario e si sarebbe annunziata con segni premonitori rivolti al mondo intero1. Quando gli raccontarono della saetta che aveva fracassato la lanterna di Santa Maria del Fiore, chiese subito da che parte erano caduti i massi. Dal momento che erano caduti dal lato di casa sua, non ebbe dubbi nel presagire la propria fine. Vide bene, perché tre sere dopo quella saetta, l’8 aprile del 1492, morì nel suo letto di malato lasciando la famiglia e la città in mano al figlio Piero, troppo giovane e troppo sventato per governare.
Il ventenne Piero mostrò subito di non essere all’altezza del compito assegnatogli dal destino e rese ben presto palese quanto il padre aveva invece accuratamente simulato: l’arroganza e l’illegalità della tirannia dei Medici. Le cronache lo dipingono vizioso e dissoluto, ma è difficile precisare di quali vizi si compiacesse, perché per ancora due secoli la storia ufficiale di Firenze sarebbe stata scritta dalla stessa famiglia che aveva ucciso la Repubblica. Certamente fu prepotente come pochi, assassinò uomini con leggerezza colpendoli vigliaccamente di notte, ed ebbe la sfacciataggine di mostrarsi per le strade a giocare al pallone mentre la città a lui affidata attraversava la sua crisi più nera.
A lui Michelangelo fu legatissimo negli anni immediatamente successivi alla morte di Lorenzo, al punto che quando la posizione di Piero divenne precaria pensò bene di scappar via dalla città prima ancora del crollo definitivo: quasi che fosse stato un suo ministro e non un giovane artista che frequentava la sua corte. Come per molti altri rapporti della sua vita, Michelangelo cercherà in seguito di nascondere la profondità reale di quel sentimento e di quel tradimento. Ma della relazione tra i due sono rimaste tracce più che significative.
Il 20 gennaio del 1494, giorno di San Sebastiano martire, verso sera cominciò a nevicare su Firenze. Un vento sostenuto spingeva la neve ovunque, in ogni buco e in ogni fessura, tanto che dopo ventiquattro ore di ininterrotta tormenta la città fu sommersa da una coltre altissima e molti faticarono a liberare le case malamente sigillate. Per le strade non passavano né uomini né animali e le botteghe non potevano aprire i battenti. A memoria d’uomo non si ricordava una nevicata del genere e i ragazzi ne approfittarono per fare i pupazzi che la moda e la tradizione volevano a forma di leoni.
Piero de’ Medici però non si poteva accontentare dei leoni di neve fabbricati dagli altri ragazzi. Voleva un pupazzo eccezionale, degno del suo grado principesco. E mandò a chiamare Michelangelo, che dopo la morte di Lorenzo era ritornato a casa del padre Ludovico, a cui Lorenzo per amore del ragazzo aveva assegnato un piccolo ufficio alla dogana. Il giovane artista arrivò, pronto a eseguire i desideri del nuovo padrone. E fece con la neve un Ercole tanto bello quanto effimero, per la gioia della piccola corte di Piero. Le cronache per fortuna ci assicurano che la scultura non durò un baleno e che la neve in città non si sciolse per almeno otto giorni: il tempo di fare apprezzare a tutta Firenze la nuova opera di Michelangelo2. Anche in quel caso la mente frivola di Piero non aveva concepito nulla di più duraturo di una scultura di neve e perfino per un desiderio così futile il giovane tiranno aveva voluto l’impegno del suo servo migliore. Da quel momento Michelangelo ritornò a frequentare casa Medici e il giardino di San Marco. Per i fiorentini fu in quegli anni l’«ischultore dal giardino».
Il sodalizio tra i due durò almeno fino all’ottobre del 1494, quando Michelangelo, preso dal panico, lasciò Firenze senza dire nulla a Piero e si diresse verso città che in quel momento dovevano apparirgli più sicure: la Bologna dei Bentivoglio, da sempre amici dei Medici, e la Venezia della Repubblica aristocratica. Fu forse quello il primo attacco di panico nella vita dell’artista, sopraggiunto alla giovane età di diciannove anni.
A due anni e mezzo dalla morte di Lorenzo, quella fuga segna il culmine del periodo più oscuro della vita di Michelangelo, non solo per la rarità dei documenti rimastici, ma per il legame dell’artista con un ambiente che tutti allora e dopo considereranno malvagio e vizioso. La morte di Lorenzo aveva lasciato la città sull’orlo di una crisi difficilissima, resa ancora più acuta dal fatto di trovarsi coinvolta nel conflitto che opponeva il papa al re di Francia. Piero, giovane e troppo preso dal soddisfacimento dei propri vizi, non seppe essere all’altezza della situazione e si attirò ben presto l’odio degli stessi amici del padre, che inutilmente si erano sforzati di aiutarlo nel governo della città. Nell’estate del 1494, la presenza in Italia del re di Francia e le sue mire espansionistiche posero la città, come molti altri Stati italiani, di fronte a scelte ardue. Fu allora che Piero rifiutò l’aiuto e i consigli che molti volevano offrirgli per il bene della casa e della città. Reso cieco dalla propria arroganza, Piero ebbe la sfacciataggine di recarsi a contrattare di persona con il re di Francia senza neppure avvertire la Signoria delle decisioni prese, cancellando così di fatto le deboli apparenze che avevano permesso ai fiorentini di sentirsi ancora titolari del proprio Stato sotto la tirannia del padre Lorenzo. La gravità del gesto e della situazione che si era determinata a Firenze produssero una sollevazione popolare che il 9 novembre 1494 mise in fuga Piero e i suoi intimi.
Ma Michelangelo non aveva atteso l’evoluzione degli eventi. Prima ancora che la città si ribellasse, aveva lasciato di nascosto la corte di Piero ed era scappato il più lontano possibile dal suo amico e padrone. La fuga, di pubblico dominio, fu registrata in una corrispondenza del 14 ottobre 1494 e fu forse il primo colpo inferto all’orgoglio del giovane tiranno3. Un artista neppure ventenne che si sente a tal punto coinvolto con il tiranno da temere conseguenze per sé dalla caduta del suo governo è fatto troppo insolito per non lasciar supporre che la corte di Piero, composta principalmente di giovanissimi, non si fosse trasformata in una consorteria prepotente e depravata, accomunata da un innaturale potere e da una sconfinata disponibilità finanziaria. Questo ambiguo delirio giovanile, presto sfociato in tragedia, si manifesta nelle tracce documentarie che raccontano dell’eccessiva benevolenza accordata da Piero a un bellissimo staffiere spagnolo, che oltre alla bellezza poteva vantare come unica qualità la portentosa velocità nelle corse. In questa comunità di eccentrici, raccolta intorno a un tiranno dissoluto, si scioglieva la rigorosa eredità di Lorenzo, che aveva aperto università, fatto tradurre dal greco libri di filosofia e sovvenzionato i più fini pensatori dell’Italia contemporanea. Ma in questa corte grottesca Michelangelo si era trovato bene e aveva stretto con Piero un forte sodalizio, che lo spinse a fuggire quando il suo governo stava per crollare.
Il rivolgimento che accompagnò la cacciata di Piero da Firenze rischiò di trasformarsi in un bagno di sangue tra le fazioni opposte, che si erano contenute ma non dissolte sotto il lungo dominio dei Medici. Ad evitare la pericolosa caduta nella guerra civile fu l’abilità di Girolamo Savonarola, un frate domenicano che già dal 1484 predicava a Firenze ed era diventato un’autorità indiscussa anche grazie all’appoggio di Lorenzo e dei suoi più ascoltati consiglieri. Poco prima della morte di Lorenzo i pulpiti dai quali fra Girolamo scagliava le sue prediche infuocate erano diventati il luogo più significativo della vita civile e politica fiorentina. Il duomo stesso non riusciva a contenere i suoi ascoltatori, atterriti e incantati dalle promesse ora di punizione ora di trionfo. La fortunata coincidenza di alcune sue profezie con eventi effettivamente accaduti in quegli anni ne fecero un’autorità soprannaturale. Ben presto la città fu in suo potere, soprattutto dopo che Lorenzo lasciò al figlio Piero il suo governo.
Originario di Ferrara, il frate dall’enorme naso che ricordava il becco di un avvoltoio aveva abbracciato la predicazione spinto da una fede fortissima nel rinnovamento della Chiesa e della religione, che lo aveva portato ben presto in conflitto con l’autorità di Roma. Nella sua visione profetica faceva coincidere la bontà del governo con la santità dei costumi cristiani e cercava di convincere i fiorentini che la loro città era stata scelta per dimostrare al mondo come poteva nascere in terra il regno di Dio. Il buon governo politico, che a Firenze coincideva necessariamente con la tradizione repubblicana e non con la tirannia medicea, era la forma migliore per lo sviluppo di una vera vita cristiana. Una simile predicazione s’impose in un momento di crisi profonda della città e della sua politica estera, e il frate divenne a tal punto influente sul governo cittadino da essere inviato lui stesso in rappresentanza della città al re di Francia nei difficili mesi dell’autunno 1494.
L’abilità e la forza con cui fra Girolamo seppe conquistare una città spaventata dai tempi si accompagnarono però all’intransigenza invasata con cui chiedeva una rinuncia a quelli che considerava peccati di vanità e che erano per molti cittadini un’espressione essenziale e irrinunciabile della nobiltà d’animo. Le violente accuse contro la vanità e i lussi in cui indugiavano i fiorentini non potevano non atterrire lo stesso giovane Michelangelo, che fu certo presente a molte delle sue prediche, tra le urla disperate delle donne in lacrime e dei bambini terrorizzati. Forse si sentì anch’egli stigmatizzato dal potente profeta, che fece bruciare nelle pubbliche piazze proprio quelle opere d’arte che per Michelangelo rappresentavano la speranza di futuro. A rendere ancora più cupe ai suoi orecchi le minacce di Savonarola furono certamente le dissezioni anatomiche a cui il giovane artista si dedicava con la complicità del priore di Santo Spirito, che senza dubbio lo assecondò anche per la sua familiarità con i Medici. Le dissezioni erano guardate con molta diffidenza dalle autorità e dall’opinione pubblica, ma l’ansia di perfezione dello scultore non poteva arretrare di fronte a niente, neppure di fronte ai rischi sanitari di pratiche che per sua stessa ammissione lo impressionarono al punto da guastargli per sempre l’appetito e che giovarono però enormemente alla sua arte. Per compensare il priore della sua complicità Michelangelo scolpì per la chiesa di Santo Spirito un crocifisso poi disperso.
Più dirette e più dolorose dovevano in ogni caso risultare le accuse del frate contro i cedimenti ad un vizio come la sodomia. Savonarola la combatté con una violenza ossessiva e sconosciuta a Firenze, dove la sodomia era quanto mai diffusa e tollerata senza troppo scandalo nonostante i divieti formali. Nel XV secolo i maschi fiorentini arrivavano al matrimonio intorno ai trent’anni, quando la passionalità giovanile era già in discesa, e si cominciavano a cercare scorciatoie di cui nessuno poteva seriamente stupirsi. Qualche anno dopo, nelle sue corrispondenze con Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli ne parlerà come di un fatto del tutto naturale, e come tale appare nelle memorie di Francesco Guicciardini quando commenta i gusti sessuali dei suoi antenati4. Ma Savonarola si scagliò con tale violenza contro i sodomiti da chiederne addirittura la morte per abbruciamento (paradossalmente finirà lui stesso bruciato su un rogo acceso, sembra, da uno di quei sodomiti che gli sarebbero felicemente sopravvissuti a Firenze come nel resto dell’Italia cristiana).
Non furono solo i sodomiti, tuttavia, a pagare il prezzo della rettitudine morale del profeta ferrarese. L’intera città sotto la sua influenza si trasformò, anche a causa della grave crisi politica che la assediava, in una triste comunità di penitenti.
Non si giucava più in publico, e nelle case ancora con timore; stavano serrate le taverne che sogliono essere ricettaculo di tutta la gioventù scorretta e di ogni vizio; la soddomia era spenta e mortificata assai; le donne, in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; e’ fanciulli, quasi tutti levati da molte disonestà e ridutti a uno vivere santo e costumato [...] frequentavano le chiese, portavano e’ capelli corti, perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giucatori e le donne di abiti troppo lascivi; andavano per carnasciale congregando dadi, carte, lisci, pitture e libri disonesti, e gli ardevano publicamente in sulla piazza de’ Signori, faccendo prima in quello dì, che soleva essere dì di mille iniquità, una processione con molta santità e divozione [...] Confortava tutto dì gli uomini che, lasciate le pompe e vanità, si riducessino a una simplicità di vivere religioso e da cristiani5.
Fra Girolamo aveva fatto leva sugli elementi più deboli della comunità: i ragazzi. Un esercito di quindicimila «fanciulli» tra i sei e i sedici anni vigilava sulla moralità dei fiorentini, con il fanatismo cieco della loro età. Facevano irruzione nelle case dove si giocava d’azzardo, strappavano per strada le acconciature delle donne quando gli sembravano troppo vistose e si esaltavano con processioni faraoniche tentando di suggestionare una città che doveva al proprio spirito pratico la sua ricchezza.
Nessun artista avrebbe voluto o potuto vivere in una città del genere e Michelangelo decise di cambiare aria, almeno fino a che i tempi a Firenze non avessero promesso qualcosa di meglio. Certo non fu il solo insofferente alle prediche del Frate Nero, se è vero che al suo rogo, il pomeriggio del 23 maggio 1498, partecipò molta più gente di quanta fosse mai accorsa alle sue prediche mora...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. La giovinezza
  3. La primavera del genio
  4. Alla corte di Giulio II
  5. Tra Roma e Firenze
  6. Nel segno dei Medici
  7. Gli occhiali di Michelangelo
  8. La Cappella Paolina
  9. La fine delle illusioni