VI.
Diseredati o creatori
di una nuova tradizione?
Stanisław Obirek Se, come dici, Zygmunt, i server ci espropriano della nostra tradizione e del nostro retaggio, allora cosa ci resta? La «saggia conversazione» che citi da Thomas Mann, e che note di ogni sorta hanno definitivamente distrutto, ormai per noi è inaccessibile. D’altra parte, invece, sono d’accordo sul fatto che è prematuro stendere necrologi per queste conversazioni. Forse, però, vale la pena cogliere l’occasione per ricordare fino a che punto proprio la scrittura abbia deformato nei potenti la visione di sé e del mondo. Non posso fare a meno di citare due miei maestri, che mi hanno fatto capire quali conseguenze ha avuto l’introduzione della scrittura. Uno di loro è l’impareggiabile e sempre produttivo Jack Goody, e l’altro è Jan Assmann, il quale, anche se meno prolifico, a ogni nuovo libro provoca tuttavia grande scompiglio. Parlerò solo di un saggio di Goody, La logica della scrittura e l’organizzazione della società, che mi sembra meriti un’attenta lettura, benché anche gli altri siano degni di considerazione. A suo parere fu proprio la scrittura a spalancare davanti ai sovrani possibilità praticamente illimitate, consegnando nelle loro mani il dominio non solo sullo spazio, ma anche sul tempo. Fu l’abilità di servirsi della scrittura a renderli capaci di allacciare rapporti con i vicini, e non di rado di assoggettarli. Il crescente senso di indipendenza e separatezza dei singoli Stati, specialmente se era abbinato a una benedizione di Dio, innescava conflitti e guerre:
Con l’avvento delle religioni universali (e delle ideologie scritte) i conflitti tra gruppi assunsero una forma nuova sia all’interno sia all’esterno delle unità politiche. All’interno come conseguenza dell’accresciuta autonomizzazione della Chiesa e dello Stato – della religione scritta che salvaguarda la frontiera – non si avrà più un semplice stato di tensione, di lotta tra le due «grandi organizzazioni», ma si configura un conflitto tra fedeli di due o più religioni universali che può sboccare in una guerra di religione.
Forse senza scrittura sarebbe accaduto lo stesso, ma di sicuro la scrittura facilitava e sanzionava quelle pratiche di assoggettamento e sottomissione. Dall’altro lato, però, caratteristica della scrittura è di essere un’arma a doppio taglio e di potersi rivoltare contro il suo possessore:
L’articolazione scritta del dissenso porta alla formazione di gruppi di dissidenti che si esprime con un Manifesto, con un Programma di Partito, con gli Scritti del Profeta sui quali, a seconda dei casi, possono far leva per aggregarsi a livello sociale, per far nascere un collettivo di oppositori.
Dunque, allora, forse la scrittura non è poi così male: importante è come la si utilizza.
E vorrei ricordare ancora un altro pensiero da questo libro, direttamente legato al nostro tema, ossia alla religione. Ebbene, la Parola di Dio, udita e trasmessa di bocca in bocca, subiva modifiche e si adattava a mutate circostanze con relativa facilità (questa sua caratteristica è chiamata da Goody processo di incorporazione). Una volta scritta invece diventava un punto di riferimento definitivo e immutabile:
Nelle Chiese basate sulla tradizione scritta, dogma e cerimoniale sono assai più rigidi – ossia dogmatici, rituali ed ortodossi: il credo è ripetuto parola per parola, i Dieci comandamenti vengono imparati a memoria, il rituale resta rigorosamente uguale. Se interviene il cambiamento si tratta perlopiù di «scisma» (termine che infatti si applica alle sette che si separano dalla Chiesa madre); ci si trova in presenza di un movimento marcatamente riformatore, se non addirittura rivoluzionario e comunque, non di quel processo di incorporazione caratteristico della religione orale.
Inoltre, erano proprio le religioni fondate sul Libro a non tollerare altre forme di trasmissione concorrenziali, divenendo uniche depositarie della Verità. Ed è proprio questo il retaggio della scrittura che mi turba e a cui rivolge particolare attenzione Jan Assmann – perciò chiamo pure lui in mio soccorso affinché giustifichi, anche solo in parte, il mio senso di disagio. Benché faccia molta chiarezza sull’intricata storia dell’umanità, non c’è modo di annoverarlo fra coloro che tu, Zygmunt, chiami i «politici della storia», i quali offrono «radicali semplificazioni del quadro del mondo», con cui, «aspettandosi un lauto guadagno politico, non lesinano le promesse di venire in aiuto agli smarriti e ai confusi». No, Assmann piuttosto ti risveglia e ti fa cadere giù dall’alto di assuefazioni troppo comode – perlomeno questo è accaduto a me leggendo il suo unico libro finora accessibile in polacco, dedicato alla memoria culturale. Dei molti temi che in esso vengono toccati vale la pena citare le considerazioni sulla questione dell’origine del canone dei libri sacri o fondanti determinate aree di civiltà. Al contrario di quanto non di rado si pensa, i loro inizi erano spesso sorprendenti. Ecco che gli Ebrei erano debitori della principale ossatura delle proprie credenze ai... Persiani, giacché fu proprio la politica imperiale a favorire la nascita delle tradizioni locali. Ovviamente non è che venissero imposte alle nazioni conquistate come elementi estranei, ma al contrario, grazie alle decisioni dei Persiani, l’Egitto e gli altri popoli conquistati scoprivano la propria identità culturale. Così sorse probabilmente il libro più importante della Torah ebraica, il Deuteronomio, il cui disegno portante divenne il paradigma di molte tradizioni religiose successive. Il prezzo di queste trasformazioni fu alto:
Contemporaneamente [durante il dominio dei Persiani], in Palestina nasceva il canone ebraico, e non solo grazie all’indulgenza dei Persiani, ma anzi su loro incarico. [...] Il processo di depoliticizzazione della vita pubblica comincia ad affermarsi comunemente in età persiana: in Egitto e Babilonia assistiamo alla «clericalizzazione» della cultura, al passaggio dal funzionario-scriba al sacerdote-scriba come esponente rappresentativo della cultura; in Israele abbiamo il passaggio dal profeta allo scriba.
La clericalizzazione della cultura conduceva alla sua sacralizzazione e stagnazione. Così fu in Egitto, dove i sacerdoti si impadronirono della memoria, e così avviene anche in ogni cultura che rinuncia all’istanza critica costituita dalla sua dimensione profetica ed ermeneutica.
Mettendo in discussione gli abusi del potere politico, invece, i profeti gli restituiscono le giuste proporzioni, mentre gli «scribi», grazie a differenti strategie ermeneutiche, permettono di inscrivere i testi sacri in contesti culturali in cambiamento. Per dirla in breve, al posto di una liturgia ritualizzata subentra un’ermeneutica elastica. Ciò avvenne in grande misura grazie al mutamento di tecnologia nella trasmissione della tradizione. L’affermarsi della scrittura al posto della tradizione orale rese possibile la rottura con la stagnazione rituale. Al posto del rituale fece la sua comparsa l’interpretazione:
In concomitanza con la fissazione per iscritto delle tradizioni, si compie un passaggio graduale dal prevalere della ripetizione al prevalere dell’attualizzazione, dalla «coerenza rituale» a quella testuale. In tal modo si crea una struttura connettiva di nuovo tipo: le sue forze leganti non sono l’imitazione e la conservazione, bensì l’esegesi e il ricordo. Alla liturgia subentra l’ermeneutica.
Questi sono solo alcuni dei pensieri provocatorii di Jan Assmann, che spero non siano privi di importanza anche per la nostra riflessione sulla religione nonché sulla sua presenza nella nostra cultura. Del resto, sebbene io legga utilmente tanto Goody quanto Assmann, devo però subito confessare che le loro diagnosi non mi deprimono affatto né mi distolgono dalla lettura e dalla scrittura. Anzi, al contrario. La ricostruzione sia della «logica della scrittura» sia della «memoria culturale» mi invoglia a creare una mia registrazione scritta e a riflettere serenamente sulla mia memoria – sia culturale, sia religiosa; insomma, sulla memoria ormai senza più aggettivi. E l’una e l’altra cosa appaiono in mite disputa, e talora in un motteggio contadinesco. Perché dopotutto il punto di partenza è importante e noto, ma il punto di arrivo sfugge continuamente e resta celato. Ciò significa forse la creazione di qualcosa di nuovo o soltanto la descrizione di un cerchio fuori dal quale non c’è modo di sporgersi?
Chissà cosa ne avrebbero detto i nostri nonni, Izaak e Franciszek. Perché in fin dei conti discendevano da memorie diverse. Si rendevano conto di essere eredi delle «grandi narrazioni», la cui atrofia è stata dichiarata da Lyotard, o forse si accontentavano dei piccoli racconti delle famiglie dei Bauman e degli Obirek? O il fatto che il destino avesse loro risparmiato la confusione dei codici culturali, che è l’incubo dei nostri tempi, li privava della consapevolezza che mondi viventi uno accanto all’altro in fin dei conti esistono non solo separatamente, ma in qualche modo insieme? Dato che anche noi avvertiamo sempre di più i disturbi della solitudine e dell’alienazione, che costituiscono gli effetti del crescente brusio informativo (come sei stato benevolo a concordare con me), ciò significa forse che i nostri nonni erano radicati in modo più forte e durevole nelle loro comunità? In fondo sappiamo bene che le tempeste della storia non hanno risparmiato nessuno dei due, e addirittura hanno spazzato sotto i loro occhi il mondo a cui erano abituati. Entrambi li scrutavamo, provavamo a importunarli con le nostre domande. In realtà oggi vorrei chiedere molte cose a mio nonno, perché allora ero solo in grado di ascoltare, senza capire molto dei suoi monologhi. Non sono perciò sicuro se noi stiamo creando una tradizione o la stiamo solo interpretando, come hai precisamente colto nel titolo di un libro a me molto caro che non smetto di raccomandare come lettura obbligatoria ai miei studenti.
Zygmunt Bauman Lo dico apertamente: nella disputa sulla relazione fra parola orale e parola scritta simpatizzo con l’opinione di Jacques Derrida, il quale, come sai, collocava la sede e il laboratorio di produzione della lingua nella scrittura e non nel discorso... Tu stesso, del resto, ricordando alla scrittura (e giustamente) i suoi numerosi peccati, osservi che «forse senza scrittura sarebbe accaduto lo stesso, ma di sicuro la scrittura facilitava e sanzionava quelle pratiche di assoggettamento e sottomissione». La registrazione scritta creò invero la possibilità del formarsi dell’ortodossia (e quindi di qualcosa che bisognava difendere da un’interpretazione alternativa), ma ha anche dato vita all’eresia e ha fornito stimoli allo scisma e, parlando più in generale, a ciò che chiamiamo «pensiero critico». Per quanto concerne invece il suo influsso sui meandri storici della religione, la registrazione scritta ha tolto la chiave delle porte celesti dalle mani degli anziani e l’ha consegnata ai conoscitori dell’arte di leggere e scrivere... Fu nella sua sostanza una rivoluzione nella gerarchia. Essa rese possibile l’apparire di Lutero... Nascendo una quarantina di anni dopo l’invenzione di Gutenberg, Martin Lutero poté esigere che le Sacre Scritture fossero consegnate nelle mani di ogni membro della Chiesa, e che quindi a ognuno dei fedeli fosse affidato il merito/privilegio dell’interpretazione del messaggio contenuto nella Scrittura – un diritto/dovere fino ad allora riservato agli anziani (in primo luogo in ragione dell’età, e poi dell’ufficio...). Fosse nato quarant’anni prima dell’invenzione di Gutenberg invece che quarant’anni dopo, a Lutero forse non sarebbe venuta in mente quell’idea. Anche se, d’altro canto, dopo l’invenzione della stampa quell’idea, nata nell’intelletto di chicchessia, era certamente qualcosa di ineluttabile...
Dell’intolleranza delle Chiese del Libro, a cui ti opponi, era colpevole non tanto la scrittura, quanto l’inevitabile tendenza della gerarchia a difendersi dai potenziali slanci dilettanteschi dei nonni Franciszek bramosi di fare i sapientoni... Come tu stesso d’altra parte hai notato poc’anzi, nel caso di tuo nonno Franciszek, uomo certamente illuminato e dotato di intelletto critico, quell’autodifesa era assolutamente efficace! Non credo che nonno Franciszek si dilettasse di leggere la Bibbia. Quanto alla sua fonte delle Sacre Scritture, le ascoltava solo in latino e, in una lingua per lui comprensibile, dalla bocca del prete dal pulpito... Penso che il racconto Il formaggio e i vermi, strappato da Carlo Ginzburg agli archivi segreti dell’Inquisizione, faccia ben vedere la sorte che sarebbe toccata a nonno Franciszek se ai tempi dell’Inquisizione si fosse messo, caparbiamente e illegittimamente, a fare creatività religiosa amatoriale, come il protagonista del racconto, Domenico Scandelli, noto dalle sue parti come Menocchio... Suppongo del resto che, nella valutazione dei vantaggi della scrittura, siamo notevolmente d’accordo, giacché rilevi che, nonostante le suggestioni apocalittiche, nella lettura di Goody e Assmann le loro diagnosi non ti «deprimono affatto» né ti «distolgono dalla let...