Gli anni della distensione
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Gli anni della distensione

Le relazioni italiano-albanesi nella fase centrale della Guerra fredda

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Gli anni della distensione

Le relazioni italiano-albanesi nella fase centrale della Guerra fredda

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Paolo Rago vive da oltre venticinque anni in Albania, dove ha lavorato con la direzione generale della Cooperazione Italiana, l'UNICEF, la Banca Mondiale e altre organizzazioni internazionali. A Tirana ha lavorato presso l'ufficio stampa dell'ambasciata d'Italia e ha collaborato con l'Istituto Italiano di Cultura. Nella stessa città è stato capo del dipartimento di Lingua italiana presso l'università Nostra Signora del Buon Consiglio ed è membro del board dell'università privata Marin Barleti. Ha curato la traduzione in lingua albanese di opere di saggisti italiani ed è autore di testi di grammatica italiana e di saggi sull'Albania.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858138991
Argomento
Storia

Settimio Stallone

Una speranza che non c’era.
Quindici anni di rapporti politici
ed economici italiano-albanesi (1961-1976)

Il sogno svanito: l’azione italiana verso l’Albania dopo lo scisma con l’URSS

Il conflitto politico e ideologico fra Mosca e Tirana – manifestatosi apertamente in seno alla Conferenza di Mosca degli 81 partiti comunisti del novembre 1960, esploso con la condanna del dogmatismo albanese da parte del XXII Congresso del PCUS, conclusosi nell’ottobre del 1961, e quindi vittima nelle ultime settimane di quell’anno di una escalation dove ormai polemiche e accuse lasciarono il posto alle invettive personali – non apparve fin dal principio né sanabile né passibile di un compromesso1. Quest’evoluzione della situazione, piuttosto inattesa per le diplomazie del blocco euro-atlantico ma non per quella italiana, impose una riflessione complessiva su quella che avrebbe dovuto essere la politica dell’Occidente verso la Repubblica Popolare d’Albania.
Occorreva, innanzitutto, valutare fino a che punto la Cina si sarebbe spinta nel sostenere il Regime. Pur cauto, l’atteggiamento di Pechino non apparve fin da quei drammatici giorni equivoco o incerto: la Repubblica Popolare Cinese sembrò intenzionata a rispettare quelle intese che accompagnavano la solidarietà politica con un consistente aiuto economico2. Parve opportuno che l’Albania restasse quanto più a lungo possibile in una condizione di stabilità, propedeutica alla determinazione di un isolamento geografico in cui il sostegno cinese non avrebbe potuto impedire la prospettiva di un cauto miglioramento nei rapporti economici e culturali con i settori più vicini dell’Occidente. Nell’attesa di valutare se si fosse giunti al rilancio di qualcuna delle passate iniziative finalizzate a favorire un disarmo parziale dell’area balcanica3, la RPA avrebbe finito con l’assumere un ruolo di elemento di disturbo nel campo comunista, conseguenza di un’azione – quella sovietica verso il regime di Hoxha – che era stata fin dal principio «frammentaria, casuale, per certi versi contraddittoria», vittima di un conflitto irrisolto fra due politiche, quella estera e quella dottrinaria di partito4.
Questa nuova situazione costrinse il governo italiano ad avviare un riesame della sua azione diplomatica verso l’Albania. Spogliandosi di quei condizionamenti ideologici – ai quali aveva dovuto talvolta sottostare – essa avrebbe potuto diventare più concreta e adattarsi a un contesto in cui la RPA poteva finalmente godere di un’autonomia decisionale impensabile fino a pochi mesi prima, unico valore aggiunto in una condizione che agli osservatori internazionali sembrava «illogica» nel suo cercare lo scontro con un Paese infinitamente più potente al prezzo di vedere altresì ridotta la propria rilevanza strategica5. Anche se le premesse geopolitiche erano mutate non era certamente in discussione il «punto fermo» della politica albanese dell’Italia, ovvero la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del vicino Stato adriatico. Il «supercomunismo» schipetaro – come il dogmatismo di Hoxha cominciò a essere definito in quegli anni – era più pericoloso per il blocco sovietico che per l’alleanza occidentale, ragion per cui a Roma ci si augurava che i partner euro-atlantici capissero che non era il caso di combatterlo, anche perché esso, per sua naturale inclinazione, avrebbe potuto avvicinarsi convenientemente solo all’Italia. Non c’era quindi spazio per una «politica di avventura»: interventi diretti o indiretti – incluso il rovesciamento di un regime le cui posizioni si stavano radicalizzando in un estremismo unico nello scacchiere europeo – avrebbero minato la stabilità di un’area troppo sensibile per reggerne i contraccolpi6.
Era consequenziale, a questo punto, che abbracciando una «politica del fare», non priva di rischi, Roma non potesse più irresponsabilmente disinteressarsi dell’Albania e delle sue esigenze. Come raccomandò il ministro degli Affari Esteri, Antonio Segni, al nuovo rappresentante italiano a Tirana, Tristano Gabrici, con le dovute cautele e senza suscitare apprensione fra gli alleati – ragion per cui erano da evitare «spettacolari iniziative» o «proposte troppo innovatrici» – occorreva portare avanti l’obiettivo, attraverso lo sviluppo di una collaborazione prima di tutto in ambito tecnico, di un rafforzamento dei legami (che sarebbe apparso ai più moralmente discutibile) con un regime sì disprezzabile, ma nei cui dirigenti si poteva inculcare la sensazione che maggiori contatti con l’Occidente fossero immaginabili, nonostante esso escludesse aprioristicamente qualsiasi possibilità d’avvicinamento7. In ogni caso, almeno per il momento, il responsabile della politica estera nazionale giudicò prematuro compiere gesti di apertura che avrebbero potuto rivelarsi controproducenti, rischiando di compromettere ulteriormente gli albanesi davanti ai sovietici o d’insospettire i loro nuovi sostenitori cinesi8. Non andava inoltre commesso l’errore di presentarsi nelle vesti di «protettori», in quanto ciò avrebbe potuto rievocare il ricordo dell’epoca fascista quando, pur esercitando un ruolo importante per lo sviluppo dell’Albania, l’Italia aveva portato avanti una politica senz’altro imperialista9. Per quanto riguardava gli alleati – secondo Segni – bisognava non farsi trovare impreparati, dando continua prova di profonda conoscenza di una situazione, quella albanese, che ai più permaneva ancora oscura: l’Italia «operava in Albania e con l’Albania» anche a loro vantaggio, forte di una consapevolezza che le derivava non solo dalla vicinanza geografica, ma anche per la qualificazione maturata grazie alla sua storica esperienza negli affari di quel Paese10.
Il giro di consultazioni avviato dalla Farnesina fra la fine del 1961 e l’inizio del 1962 portò a risultati complessivamente positivi11. I contatti con gli americani, prima informali12, quindi affidati all’ambasciatore a Washington Sergio Fenoaltea13, fecero registrare una piena coincidenza di vedute: fu comunque complicato far capire alla diplomazia statunitense che la rottura fra Hoxha e Chruščëv non andava interpretata come segnale di una volontà dell’Albania di passare nel campo occidentale14. Un certo apprezzamento per le proposte italiane giunse pure dal Foreign Office, anche se a Joseph Godber – che in quegli anni guidava la diplomazia britannica – la prospettiva che i cinesi potessero disporre di una testa di ponte nel Mediterraneo apparve «grave, preoccupante e pericolosa»15. Quanto al governo francese, esso consigliò all’ambasciatore Manlio Brosio di raccomandare a Roma, date le circostanze, «estrema cautela», pur ritenendo che quanto stava accadendo in Albania era vantaggioso e avrebbe certamente offerto prospettive più ampie alla penetrazione occidentale16. Infine per i turchi – che avevano maturato col tempo, grazie ai loro storici legami con una parte della società schipetara, una notevole e invidiata capacità d’interpretazione delle complesse dinamiche della politica di quel Paese – l’Italia avrebbe dovuto avere «una parte preminente» nel tentativo di provocare un graduale «agganciamento» dell’Albania all’Occidente: anzi – come suggerirono all’ambasciatore ad Ankara, Mario Luciolli, sia il ministro degli Affari Esteri, Selim Sarper, che il segretario generale di quel dicastero, Namık Kemal Yolga – sarebbe stato il caso «di fare qualcosa in più» per consolidare lo scisma albanese17. Restavano da sondare le intenzioni di Grecia e Jugoslavia, le due sole potenze che, per posizione geografica e storica consuetudine, avrebbero potuto insidiare il ruolo che l’Italia intendeva riservarsi verso la «nuova Albania».
I greci si erano subito preoccupati di smentire le voci, diffuse soprattutto dalla stampa jugoslava, di un loro imminente intervento in terra albanese: a Segni, che lo aveva incontrato proprio in quei tumultuosi giorni di dicembre del 1961, il ministro degli Esteri, Evangelos Averoff, era sembrato sincero, anche se alla Farnesina non parve superfluo fare qualche passo ad Atene per ribadire che «nessuno dei tre vicini (dovesse) partire in avventure»18. Pur confermando una condotta di non intervento, nei colloqui che l’ambasciatore nella capitale ellenica, Mario Conti, ebbe con il direttore generale del ministero degli Esteri, Christos Xanthopoulos-Palamas, i greci mostrarono perplessità verso un regime ch’essi ritenevano incompatibile con i valori della comunità euro-atlantica. Era chiaro che, pur non facendosi più illusioni di annettere l’Epiro settentrionale, il governo di Atene, timoroso di vedersi imporre dagli alleati una per esso irritante normalizzazione dei rapporti con la RPA, restava il meno propenso a un miglioramento delle relazioni con...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Una speranza che non c’era. Quindici anni di rapporti politici ed economici italiano-albanesi (1961-1976)
  3. Dialogo, stabilità e sicurezza in Adriatico. L’Italia, l’Albania e il processo di distensione(1968-1975)
  4. Un lungo tunnel senza luce? Le relazioni culturali tra Italia e Albania nel secondo dopoguerra
  5. Da Togliatti a Berlinguer. Lo sviluppo della posizione del Partito del Lavoro e di Enver Hoxha
  6. «La popolarizzazione del Partito del Lavoro d’Albania» in Italia come derivato del nazionalcomunismo di Enver Hoxha. (1961-1965)
  7. La corsa oltre Adriatico dei marxisti-leninisti italiani. Ragioni, costi e benefici di una strategia italiano-albanese al tempo del contrasto tra la Cina Popolare e l’Unione Sovietica (1960-1970)
  8. La diplomazia italiana e la persecuzione religiosa in Albania durante la Guerra fredda
  9. Ignorati. La questione degli esuli anticomunisti nelle relazioni italiano-albanesi durante gli anni della distensione
  10. Abbreviazioni e sigle
  11. Gli autori