Pigmei, europei e altri selvaggi
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Pigmei, europei e altri selvaggi

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Pigmei, europei e altri selvaggi

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Campioni di esotismo e simbolo di uomini primitivi per molti, i Pigmei entrano in contatto con gli Europei nel XIX secolo. Vengono osservati e ‘misurati' dagli scienziati, esibiti sui palcoscenici e negli zoo al fianco delle scimmie. Nel corso del Novecento gli antropologi hanno però indagato il loro mondo e hanno svelato i pregiudizi occidentali: la riflessione estetica dei Pigmei non è meno raffinata, per certi aspetti, di quella di Michelangelo e la loro arte della divisione della preda eccelle in complessità. Per Stefano Allovio riflettere sulla marginalità dei Pigmei ha voluto dire riflettere anche sulla marginalità degli antropologi all'interno delle comunità intellettuali dove permangono resistenze a riconoscere i molti modi di ‘fare scienza'. Se i Pigmei necessitano di maggiore riconoscimento, anche gli antropologi – molto più simili ai Pigmei di quanto si immagini – hanno titolo a richiedere maggiore riconoscimento nelle accademie e nei luoghi del sapere. Frequentare le frontiere, le periferie e i margini fra culture, dove l'antropologia si colloca come disciplina, non significa essere condannati alla insignificanza e alla marginalità: la cultura si nutre di interdipendenze e, lungi dall'essere patrimonio di pochi, si presenta spartita e distribuita universalmente molto più di quanto si pensi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115688
Categoria
Antropologia

I. Il libro dei Pigmei

1.1. Due sculture a confronto

In occasione dell’esposizione universale di Chicago del 1933 organizzata per celebrare il centenario della città, vennero esposte al Marshall Field Museum of Natural History 104 sculture raffiguranti le razze umane. Questo insieme di opere scultoree, noto come Races of Man, fu realizzato da Malvina Hoffman, un’artista nata a New York nel 1887. Hoffman, dopo aver studiato nella sua città natale, ebbe la grande opportunità di continuare la formazione a Parigi dove conobbe Auguste Rodin con il quale lavorò per sedici mesi alla vigilia della Prima guerra mondiale (Decoteau 1990: 7).
La permanenza a Parigi e l’influenza che Rodin esercitò su di lei risultarono determinanti nella crescita artistica, ma non sufficienti per poter raffigurare l’ampio spettro di ciò che, all’epoca, venivano definite ‘razze umane’. Era necessario viaggiare; per tale motivo, dopo essersi recata in Africa nel 19261, Malvina Hoffman, sempre accompagnata dal marito fotografo Sam Grimson, viaggiò per un anno intero (era il 1931) soggiornando alle Hawaii, in Giappone, Cina, Filippine, Bali, Giava, Singapore, Malesia, Myanmar, India e Sri Lanka.
La notorietà e la fortuna della scultrice non furono particolarmente durevoli; all’indomani della Seconda guerra mondiale, conobbe un lento e progressivo declino nella critica. Al pari dell’artista, anche le sculture di Races of Man vennero in gran parte dimenticate: non furono più esposte in modo organico e dignitoso, subirono spostamenti all’interno del Field Museum e molte trovarono pace soltanto in angoli poco illuminati.
La storica dell’arte Pamela Hibbs Decoteau (1990: 11) si è interrogata sui reali motivi di questo oblio. Un primo motivo sarebbe l’ampia estensione di una eventuale esposizione non confacente alle nuove filosofie museali incentrate sulla flessibilità di ciò che viene presentato e sulla valorizzazione di esposizioni temporanee. Un secondo e più importante motivo che spiegherebbe l’oblio di Races of Man è da ricercare nei radicali mutamenti delle prospettive antropologiche e del senso comune inerenti alle tematiche razziali. I responsabili del museo, pur confidando nel fatto che l’insieme scultoreo di Races of Man andasse contestualizzato in un’epoca in cui il paradigma razziologico determinava le classificazioni antropologiche e i discorsi sull’uomo, avevano il timore di urtare la sensibilità di coloro che si riconoscevano nelle minoranze etniche, componenti importanti del tessuto sociale americano.
Fra le sculture di Malvina Hoffman riconducibili alle ‘razze’ del continente africano, emergono idealmente dalle nebbie del bacino del Congo un busto di una donna mangbetu (Mangbetu Tribal Woman), classica icona dell’esplorazione statunitense in Africa e logo della colonizzazione belga, e una ‘famiglia’ di Pigmei (Ituri Forest Pygmies) composta da un uomo intento a suonare il tamburo e una donna che tiene fra le braccia un bambino. In relazione a quest’ultimo gruppo scultoreo, la tensione addominale, l’ipertrofismo delle ginocchia contrapposte alle esili gambe, le espressioni facciali cupe ma dignitose sono, a detta della stessa scultrice (Hoffman 1936: 149), segni della sofferenza e della malnutrizione. La famiglia dei Pigmei nella sua totalità riflette la difficoltà dell’esistenza di un intero popolo2.
L’immagine della donna pigmea con bambino della Hoffman ritorna in un articolo dello storico dell’arte Martin Kemp apparso alcuni anni fa sulla rivista «Nature». Il breve contributo dal titolo Type and Archetype. Hoffman and Herring in the Field Museum, Chicago (Kemp 2000) contiene una riflessione a partire dal confronto fra due statue: Pygmy Family di Hoffman3 e Dissemination of Knowledge di Henry Herring, realizzata nei primi decenni del Novecento secondo i canoni estetici del neoclassicismo (fig. 1).
Fig. 1. Pygmy Family di Malvina Hoffman e Dissemination of Knowledge di Henry Herring (in Kemp 2000: 278)
Le due statue, entrambe esposte al Field Museum e visibili con un solo colpo d’occhio dalla balconata che sovrasta la hall principale, rappresentano ambedue una donna che porta in braccio un bambino. Benché da un certo punto di vista siano molto simili, esse presentano evidenti differenze: scura (fatta di bronzo), increspata e rugosa l’una, candida espressione della perfezione greca l’altra. Su tali similitudini e contrasti, oltre che sul fatto di ritrovarle nello stesso spazio espositivo, si innesta la riflessione di Kemp sulla persistenza degli archetipi estetici classici come filtri per attribuire valore a opere che nascono con finalità differenti come nel caso di Races of Man: sculture commissionate affinché un museo di storia naturale potesse presentare ai visitatori i diversi ‘tipi etnici’ sulla base dei paradigmi scientifici (tipologici e razziologici) del tempo.
A ben vedere, l’accostamento delle due statue proposto da Kemp si presta a ulteriori considerazioni, utili a introdurre questioni, tematiche e prospettive affrontate nel presente libro. Nell’articolo di Kemp, la didascalia che affianca le foto accostate delle due statue recita «ethnic meets aesthetic». Al di là delle intenzioni di chi ha formulato la didascalia e dello stesso autore dell’articolo, l’impressione che se ne ricava non è tanto di un ‘incontro’ fra ciò che è etnico e ciò che è estetica, ma di una cesura rimarcata e inevitabile: da una parte l’etnico, dall’altra l’estetica. Una cesura che diventa dicotomia emblematica nel momento in cui si affiancano e contrappongono la quintessenza dell’etnicità esotica (la rugosa oscurità dei Pigmei dell’Africa) e la quintessenza del canone estetico occidentale (la levigata luminosità della Grecia classica). Questa cesura fornisce uno spunto per riflettere, con Kemp (2000), sulla persistenza degli archetipi estetici occidentali che affondano le radici nell’antica Grecia, oppure, con molti antropologi contemporanei (per esempio Gell e Hirsch 1999), sull’opportunità o meno di ritenere transculturale il concetto di ‘estetica’, considerato da molti indissolubilmente legato alla storia della filosofia dell’arte in Occidente e quindi fortemente etnocentrico, e da altri svincolato da eventuali criteri ‘estetici’ locali4. Tali considerazioni sono estremamente interessanti anche perché finiscono per annodarsi; tuttavia in queste pagine si vorrebbe percorrere un’altra strada e riferirsi a Claude Lévi-Strauss (1984) quando osava costruire un discorso unitario concernente i miti dei nativi americani e la musica di Wagner, non certo sulla base di una precisa sovrapposizione estetica, ma con l’intento, fra gli altri, di far percepire agli occhi del lettore occidentale la complessità e l’eccellenza di un corpus mitologico indigeno.
Insomma, benché le due sculture in questione siano ovviamente prodotti artistici occidentali, ‘nostri’, il loro accostamento potrebbe comunque far sorgere un interrogativo importante: in che termini siamo disposti a concedere complessità ed eccellenza estetica a eventuali riflessioni e produzioni ‘artistiche’ dei Pigmei dell’Africa? Precisando ancora una volta che in questa sede per ‘estetica’ si intende la riflessione sulla complessità e l’eccellenza della produzione di artefatti, occorre riflettere sul gradiente di questa eventuale concessione e supporre l’esistenza di almeno tre atteggiamenti:
a) I Pigmei non hanno preoccupazioni di ordine estetico, non producono in modo complesso ed eccellente; eventuali loro artefatti, suoni o quant’altro sono incommensurabili con ciò che noi definiamo arte figurativa, scultura, musica ecc.
b) I Pigmei hanno preoccupazioni di ordine estetico, la loro produzione artistica è riconosciuta e deve essere ricondotta a categorie preposte come per esempio quella di ‘arte etnica’, ‘primitivismo’ ecc. Anche i temi e i significati proposti nella loro produzione artistica sono riconducibili a categorie specifiche che noi occidentali abbiamo pensato essere adatte a descriverli (per esempio: ‘i primordi’, ‘il rapporto con la natura’, ‘la purezza’, ‘la semplicità’ ecc.).
c) I Pigmei hanno preoccupazioni di ordine estetico e contribuiscono in modo equivalente agli altri ad arricchire ed estendere un unico repertorio di prodotti culturali. Essi contribuiscono con opere, riflessioni, astrazioni a una polifonia umana che ha per oggetto la cultura.
Secondo la prospettiva (a), la cesura fra le due foto (etnico da una parte, estetica dall’altra) rispecchia la realtà e raffigura un dato ontologico: essa è una prospettiva che non lascia dubbi, è chiara e incontrovertibile. Tuttavia, è altrettanto certo e incontrovertibile che tale prospettiva è ritenuta non percorribile da molti, sicuramente da tutti coloro che da decenni hanno riflettuto sul riconoscimento e il valore degli artefatti e delle ‘performance’ altrui, anche attraverso una profonda revisione critica degli stessi concetti di arte e di estetica.
La prospettiva (b) presenta sfumature al suo interno. Coloro che vi aderiscono non avrebbero difficoltà a riconoscere preoccupazioni estetiche e produzioni artistiche ai Pigmei (la loro musica, i disegni sul corpo e sulle cortecce battute ecc.), ma è una concessione che, sul piano della complessità e dell’eccellenza, va negoziata, definita, circoscritta; ciò risulterebbe indispensabile proprio nel momento in cui si affiancherebbe ai Pigmei, per esempio, la ‘perfezione’ dei canoni estetici della Grecia classica riscoperti a più riprese nella storia dell’arte occidentale (rinascimento, neoclassicismo ecc.). Di fronte all’accostamento di Pigmei e Grecia classica, molti di coloro che aderiscono – come si è detto, con diverse sfumature – alla prospettiva (b) si sentirebbero a disagio nel concedere e ipotizzare equivalenze di valore.
La prospettiva (c) – probabilmente molto diversificata al suo interno – si impegna a non porre condizioni nel momento in cui si ipotizzano e si riconoscono equivalenze di complessità ed eccellenze. È una prospettiva che tende a mescolare le carte, a immaginare le differenti visioni del mondo, i variegati universi concettuali, i diversi repertori culturali come ricco nutrimento della cultura universale, che non ha la forma di una solida palazzina del centro storico, dove i piani alti ‘valgono’ di più perché c’è maggiore luminosità e una vista migliore.
Succede sempre più spesso che la sola adesione o formulazione di una qualche prospettiva (c) faccia insospettire coloro che quotidianamente si recano per lavoro ai piani alti (dove ci sono cultura alta e tradizioni intellettuali di prestigio). Essi temono che i fautori della concessione di equivalenze non vogliano far altro che gettare la statua di Herring dalla finestra per ritrovarsela, compiaciuti, in mille pezzi giù in cortile. Non si vede quale vantaggio o compiacimento ci debba essere nel guardare la perfezione greca, l’orgoglio artistico occidentale, frantumato sull’asfalto. C’è sicuramente malafede nell’augurarsi una siffatta rovina, ma c’è altrettanta malafede nel considerare ogni ipotesi di ripensamento dell’edificio della cultura come un tentativo di distruggerne il contenuto e di annichilirne il valore.
A ben vedere, c’è chi ha contribuito al sospetto. Quando, per esempio, Francesco Remotti (1990, 1993a, 2000, 2003) auspica indagini che possano gettare la Modernità, l’Occidente, la Scienza nel ‘mucchio’ delle etnografie non valuta con attenzione l’effetto che potrebbe avere su chi lavora ai piani alti l’immagine di noi, con i nostri prodotti intellettuali e artistici, sbattuti «nel mucchio insieme agli altri» (Remotti 2003: 136). La scelta che si prefigurano questi ultimi – malgrado le rassicurazioni che Remotti sarebbe sicuramente disposto a fornire – è fra il barricarsi in casa o il contemplare dalla finestra un mucchio di macerie.
In queste pagine, almeno per il momento, non si faranno ‘mucchi’, ma si proverà a ‘calare’ delicatamente in cortile la statua di Herring e collocarla a fianco della famiglia pigmea in bronzo di Hoffman per fare ancora un paio di considerazioni sul confronto fra le due statue e poi abbandonarle definitivamente nella hall centrale del Field Museum e addentrarsi, dapprima, nel fitto delle pagine di alcuni libri e, successivamente, nel fitto della vegetazione dell’Africa equatoriale.
Le due statue, come si è già detto, sono per molti aspetti simili e per altri profondamente diverse. Un elemento che le differenzia inequivocabilmente è il modo in cui le due donne tengono fra le braccia il bambino. La donna pigmea stringe il bambino con entrambe le braccia e non sembra volerlo elevare più del necessario, non sembra neppure curarsene: in quel preciso istante il suo sguardo è altrove. La donna della statua di Herring tiene il bambino con un solo braccio, lo eleva sopra il proprio bacino, sta interagendo con lui per mezzo di un libro (forse glielo sta leggendo, oppure spiegando) che tiene con l’altra mano; il suo sguardo è compiaciuto. La donna è l’allegoria dei nobili sentimenti e la statua ha un nome che non lascia dubbi: Dissemination of Knowledge.
Alla luce di queste considerazioni è possibile riformulare la questione su ciò che si concede o meno alla donna pigmea e con essa ai Pigmei in generale: quanto e in che termini si è disposti a concedere ai Pigmei la possibilità che siano in possesso di conoscenze degne di essere conosciute universalmente? Se la statua di Herring è l’allegoria della disseminazione del sapere scientifico che si reputa universale, allora i saperi e le conoscenze contenute nel libro e divulgate (disseminate) anche attraverso un museo di storia naturale sono rivolte non solo al candido bambino sorretto dalla candida donna, ma anche al bambino pigmeo sorretto dalla donna pigmea, in quanto sono saperi e conoscenze vere e reali universalmente. Quanto e in che termini si è disposti a concedere alla donna pigmea la capacità di diffondere saperi e conoscenze preziose, vere e reali (equivalenti) anche per il candido bambino della statua di Herring?
C’è dell’ironia a voler attribuire ai gruppi pigmei – che come è risaputo sono società acquisitive basate sulla caccia-raccolta e tradizionalmente restie a praticare la coltivazione – il potere della disseminazione. Tuttavia è proprio questo termine dissemination a svelare ciò che davvero è in gioco. I Pigmei non praticano tradizionalmente la disseminazione di piante coltivabili e neppure praticano (lo fanno raramente) la disseminazione dei loro saperi, delle loro abilità e conoscenze in istituzioni divulgative, in ambienti accademici, in consessi scientifici, letterari e artistici. Al di là della validità delle singole ricerche e dei singoli lavori pubblicati, sono stati e continuano a essere soprattutto gli antropologi a ‘mettere in circolo’ informazioni sulle loro forme di vita, sui loro saperi e sulle loro conoscenze. Tuttavia, viene da chiedersi: il lavoro degli antropologi è considerato una disseminazione di conoscenze (altrui) da coloro che a ragione o a torto si accollano il diritto e dovere di disseminare conoscenze? Gli scienziati e gli umanisti che meglio si identificano nell’allegorica statua di Herring (gli stessi che lavorano ai piani alti dell’edificio precedentemente evocato) sono sempre disposti a riconoscere nel sapere antropologico (un sapere degli antropologi ma, ciò che più conta, un sapere delle società studiate, compresi i Pigmei) capacità e liceità di disseminazione? Sembrerebbe di no.
Occorre ammetterlo: in certi casi è una sensazione personale, discutibile e non totalmente argomentabile, ma in alcune occasioni è possibile registrare l’atteggiamento di ‘distinzione’ e di ‘recriminazione di un campo’ – per dirla con Bourdieu (1983). Un caso significativo è la reazione alla pubblicazione dell’importante volume di Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa (2008). Un testo denso, ricco e argomentato sulla varietà delle forme di famiglia diffuse nelle più disparate società umane e sulla pretesa, da parte di alcuni, di ritenere ‘naturale’ (vera universalmente) una particolare forma di famiglia.
Sulle pagine del quotidiano «Avvenire» del 7 marzo 2008 appare una recensione del libro di Remotti firmata dal filosofo del diritto Francesco D’Agostino, già presidente del Comitato nazionale per la bioetica e autore di più di trecento pubblicazioni, molte delle quali dedicate alla Grecia antica. L’insigne professor D’Agostino attacca con veemenza il libro di Remotti e gli antropologi culturali colpevoli di invadere campi altrui: ‘arroganti’ perché si ‘arrogano’, si attribuiscono indebitamente qualcosa:
Consapevole di aver scritto una ‘lettera’ che «trasuda relativismo da tutti i pori», Remotti insiste però nel ribadire che l’umiltà è la prima virtù degli antropologi. Vorrei prendere sul serio l’illustre collega, ma – a mia volta in tutta umiltà – non ci riesco. Ancora una volta, infatti, Remotti dà prova non dell’umiltà, ma dell’arroganza che caratterizza gli antropologi culturali (alcuni ovviamente, non tutti!): quell’arroganza che si sostanzia nel voler trarre da un’analisi etnografica descrittiva conclusioni antropologiche di carattere normativo, invadendo così un ambito che non è di pertinenza etnologica, ma filosofica. Esiste una ‘verità della famiglia’ (D’Agostino 2008, corsivo nostro).
Ciò che si arroga Remotti è esattamente il diritto di poter praticare la disseminazione delle conoscenze con sementi raccolte in sperduti angoli di mondo; questa disseminazione ha luogo principalmente nelle aule universitarie dove i suoi studenti di Lettere e Filosofia (anni addietro, chi scrive, era uno di loro) percepiscono tutta la forza rigenerante del tuffo nel mucchio etnografico e molti di essi non possono eludere l’invito che lanciò Edward Said in una delle sue...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Il libro dei Pigmei
  3. II. Da cacciatori a prede
  4. III. Buoni da pensare
  5. IV. I geni dei Pigmei e la genialità della cultura
  6. V. Noi, Pigmei
  7. Bibliografia