Eugenio Garin
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Eugenio Garin

Un intellettuale nel Novecento

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Eugenio Garin

Un intellettuale nel Novecento

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Eugenio Garin è una delle figure più significative della cultura italiana del XX secolo. La sua opera, oltre che come un classico della storiografia filosofica, oggi può essere considerata come una testimonianza, e una fonte eccezionale, di un'intera epoca storica da analizzare in termini nuovi anche alla luce di documenti inediti ora disponibili.

Servendosi, in particolare, dei materiali depositati nell'archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa, Michele Ciliberto in questo volume delinea un profilo originale della figura di Garin mettendo a fuoco anche temi poco noti o ignoti della sua esperienza intellettuale e filosofica, dagli anni Trenta fino alla sua morte.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115824

1. Una meditazione sulla condizione umana. Garin interprete del Rinascimento

È difficile parlare di Eugenio Garin: mancano studi adeguati sulla sua figura e sulla sua opera, che si è sviluppata, con forti cambiamenti, su un arco di circa settanta anni. L’unico lavoro che ha contribuito a gettare luce sul suo itinerario intellettuale è un saggio pubblicato pochi anni or sono da Claudio Cesa, dedicato a Momenti della formazione di uno storico della filosofia1. C’è poi un altro problema di ordine generale che rende difficile una riflessione sulla sua figura: esso riguarda molti di quegli studiosi che, nati lungo il primo quindicennio del secolo, si sono formati e hanno cominciato a lavorare durante il ventennio fascista, imponendosi come figure di primo piano nella cultura italiana nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale. Con poche eccezioni (ad esempio Nicola Abbagnano), su questa generazione non è stato ancora avviato un lavoro organico di ricerca storica. Spesso, quello di cui disponiamo – e questo vale anche per Garin – sono soprattutto le loro testimonianze autobiografiche, che però, come è ben noto, sono un materiale da utilizzare con particolare delicatezza quando si fa indagine storica. Manca ancora una documentazione sufficiente per avviare l’indagine su basi solide: ad esempio, non sono stati ancora pubblicati i loro carteggi, che, come si vede bene dal caso di Garin, sono, da ogni punto di vista, una fonte indispensabile.
Naturalmente, pur nell’ambito di una comune generazione, ciascuno resta se stesso, ponendo problemi specifici, originali. Nel caso di Garin, la situazione è resa particolarmente complicata dal ruolo che egli ha ricoperto nella cultura italiana postfascista e dalla funzione di grande intellettuale civile che ha svolto soprattutto a cominciare dalla seconda metà degli anni Cinquanta: dopo, per intendersi, la recensione di Togliatti alle Cronache di filosofia italiana, pubblicata su «Rinascita» nel 1955. Questo Garin – e l’aura (verrebbe da dire) che l’ha circondato – rappresenta una sorta di filtro – spesso insuperabile – rispetto al Garin degli anni Trenta e degli anni Quaranta e alle tesi che egli aveva sostenuto almeno fino alla pubblicazione dell’Umanesimo italiano2, rendendo più difficile il lavoro di chi voglia ricostituire i momenti effettivi del suo itinerario culturale e filosofico. Si ha talvolta l’impressione che egli si sia quasi censurato, cancellando le tracce: non ha mai consentito, ad esempio, alla ristampa del libro su Giovanni Pico uscito nel 19373, e ha guardato con molto sospetto anche alla circolazione del libro sugli illuministi inglesi, pubblicato nel 19414. Lo faceva perché, come disse a Cesa nel 1983, «un po’ gelidamente, [...] in quel libro non si riconosceva più»5. Tanto meno si riconosceva nei saggi rinascimentali che aveva pubblicato nello stesso periodo, sullo sfondo di una comune problematica morale e religiosa. Non sorprende, dunque, questa duplice rimozione: i lavori sull’Illuminismo inglese e le ricerche sul Rinascimento muovono da problemi comuni e si svolgono secondo modalità affini, ma assai diverse – gli uni e le altre – da quelle alle quali è normalmente associato il suo lavoro di storico della filosofia e di teorizzatore della “filosofia come sapere storico”6.
Discorrere di Garin interprete del Rinascimento è dunque difficile, anche per la pluralità di punti di vista dai quali il tema può essere affrontato: si può farlo, ad esempio, in una prospettiva di storia della storiografia, individuando quindi i tratti specifici della discussione sul tema rinascimentale quando Garin inizia a lavorare, mettendo a fuoco i contributi dei più eminenti studiosi del periodo – da Gentile a Baron, da Cassirer a Kristeller – e verificando a questa luce l’importanza e l’originalità dei suoi contributi, lungo il corso di tutta la sua ricerca; oppure si può cercare di delineare, attraverso i suoi scritti sul Rinascimento, un capitolo della biografia intellettuale di un importante studioso del Novecento, intrecciando – su questo sfondo di problemi – le ricerche sull’epoca rinascimentale alle sue posizioni di carattere generale (con la consapevolezza, s’intende, di tutti i rischi che un lavoro di questo tipo comporta).
È questa seconda strada che intendo seguire, individuando alcune linee critiche che riassumo subito, per comodità, a chi mi legge. A mio giudizio, Garin nella seconda metà degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta sostiene una posizione che si può definire nei termini di un “esistenzialismo religioso”. Esso influenza profondamente, come una causa l’effetto, i suoi lavori sull’Umanesimo e sul Rinascimento: in modo particolare, incide nella sua interpretazione di Giovanni Pico – con la forte accentuazione del primato dell’“operare” sull’“essere” – e in tutti i saggi che viene allora pubblicando, nei quali la centralità del motivo religioso è essenziale. In questi lavori Garin batte con forza sul nodo di “umano” e “divino” – rappresentato dalla figura di Cristo, dell’Uomo-Dio; sull’intreccio tra persona umana e dimensione trascendente, da cui germina la speciale libertà e responsabilità dell’uomo – frutto al tempo stesso di “umano” e “sopraumano” – nella quale consiste lo “splendore” del Rinascimento italiano. Quell’«uomo divino», scrive nel 1941 in un saggio dal titolo eloquente di Umanesimo e pensiero medioevale, intriso di motivi gilsoniani,
al cui nascere si chinano i mondi, in cui si riassume il creato, che sale al cielo non incognitus hospes, che l’esperienza cristiana aveva conquistato, che il travaglioso pensiero di tanti secoli aveva illuminato alla luce della sapienza antica. È l’uomo i cui atti si ripercuotono all’infinito, è il miracolo grande di Pico della Mirandola, che sulla natura crea il suo mondo, il suo regno e il suo destino. È l’uomo che, teso verso l’infinito, costruisce l’infinito. Ma questo divino sigillo dello spirito con cui l’Umanesimo del ’400 guarda l’antico, non è dall’antico che l’ha appreso; è da una secolare esperienza che l’accoglie, in cui ha vissuto con Cristo intimo a noi più di noi stessi7.
Questa posizione – incentrata sul primato dell’elemento religioso, cioè cristiano – resta ferma almeno fino all’Umanesimo italiano, uscito nel 19478, mentre perde peso – e rilievo – negli anni Cinquanta e Sessanta, quando è il tema “civile” che diventa centrale, configurando, da un lato, in termini nuovi le tematiche ermetiche, magiche ed anche astrologiche messe a fuoco negli anni Trenta; presentandosi, dall’altro, come “punto dell’unione” fra libertà del singolo e comunità degli uomini, assunta – quest’ultima – come pietra di paragone della responsabilità individuale.
È stato Gramsci, a mio giudizio, a liberare definitivamente Garin dalla «“tentazione” religiosa» dalla quale era stato attratto – e profondamente coinvolto – negli anni precedenti, spingendolo sul piano teorico verso uno storicismo «mondano», «terrestre» (per usare due termini che corrono spesso sotto la sua penna, negli anni Cinquanta), riuscendo a soddisfare due esigenze che per lui furono sempre essenziali: la “concretezza”, da una parte; l’aspirazione – altrettanto costante – ad una sintesi positiva tra primato della persona e responsabilità morale, religiosa, politica, dall’altra. Del resto, è stato lo stesso Garin, nello schizzo autobiografico del 1989, a riconoscere, giustamente, che l’incontro con Gramsci era stato per lui essenziale: «un’esperienza decisiva – scrive –, che durò a lungo»9.
Parole, queste ultime, che vanno sottolineate: negli anni Settanta il quadro cambia, infatti, nuovamente, e gli elementi drammatici dell’esistenza umana su cui Garin aveva insistito, con forza, fra gli anni Trenta e Quaranta ritornano in primissimo piano, spingendo sul fondo del quadro la dimensione “civile” nella quale aveva trovato un punto di riferimento – e, vorrei dire, quasi un’ancora di salvezza – negli anni Cinquanta e Sessanta. Da questo punto di vista, come avremo modo di vedere, i saggi su Alberti sono veramente esemplari; come è esemplare l’importanza riconosciuta all’astrologia, contro cui aveva duramente polemizzato negli anni Trenta e Quaranta, rivendicando – sulla scia di Pico – la libertà dell’uomo che si fa progetto – non destino –, della quale aveva sottolineato con vigore le radici religiose, cristiane. È precisamente questo elemento che viene radicalmente messo in discussione negli ultimi anni della riflessione sul Rinascimento, con un’accentuazione del carattere insensato e senza significato dell’esistenza umana che sfocia in accenti – oserei dire – di tipo addirittura nihilistico, come appare chiaro – e lo vedremo – dall’uso che fa in questi anni del De fato di Pomponazzi e, attraverso il De fato, delle Leggi di Platone e della ben nota affermazione dell’uomo come ludus deorum.
Sono queste le questioni che vorrei affrontare in queste pagine, cercando di argomentare il mio punto di vista. Su una cosa credo però di poter essere esplicito fin da questo breve preambolo: l’immagine “civile” di Garin che la tradizione ci ha consegnato corrisponde soltanto a una fase – certo la più fortunata, ma non so se la più significativa – della sua lunga attività.
Nel 1947 esce sugli «Atti e memorie dell’Accademia “La Colombaria”» un saggio dal titolo Umanesimo e vita civile10, costruito secondo le linee critiche che saranno messe a base dell’Umanesimo italiano, pubblicato nello stesso anno a Berna. È un lavoro – e anche questo va notato – che Garin non hai mai ristampato, cosa abbastanza singolare se si tiene conto che i suoi libri sono in grandissima parte raccolte di saggi già usciti e che di questi ultimi solo pochissimi (fra cui un importante saggio su Manzoni, per esempio) non sono stati ripubblicati.
Il saggio si conclude con una serie di affermazioni che vale la pena di sottolineare: «Se non erro – osserva Garin, parlando della sua proposta ermeneutica – è il concetto stesso di umanesimo, in quello che ha di eternamente valido, che viene integrandosi come visione dell’uomo totale, nella sua concretezza terrena, che è società civile, manifestantesi nel linguaggio, inteso in genere come comunicazione»11. Affermazioni, queste, già molto significative, nelle quali è evidente l’eco delle posizioni e delle discussioni con Ernesto Grassi, il quale fu, come bene si sa, l’editore dell’Umanesimo italiano. Ma non meno interessanti sono le battute successive della conclusione di Garin: la
terrestre umanità che [...] l’Umanesimo del Quattrocento oppone all’umanesimo classico, è sì umiltà mondana, ma anche bramosa ricerca, e continua spinta a trascendere, ad andar verso, a procedere oltre. Perché umano è, appunto, non l’essere ma l’operare, il muoversi, l’ansioso cercare una ricchezza che è miserabile per un’implacabile insoddisfazione. E in questa sete gli Umanisti trovavano Dio incarnazione ed appello vivente a quell’aldilà che unico, in uno strano paradosso, sembra, con la sua assenza sempre presente, dar sapore e significato all’al di qua, alla rigorosa e umile e totale fedeltà nostra all’al di qua12.
È un testo che andrebbe commentato quasi riga per riga: nell’accenno all’«ansioso cercare» e all’«implacabile insoddisfazione» della nostra ricerca affiora, ad esempio, quello che si può dire il “perenne platonismo” di Garin: il riconoscersi, cioè, in quel Platone che, come scrive nel 1942, «fu il maestro degli insoddisfatti delle cose del mondo, dei ricercatori consapevoli, della bellezza dell’immagine senza termine, perché il termine è dovunque e in nessun luogo»; quel Platone che «fu la luce delle anime inquiete che in lui ritrovarono la loro inquietudine; delle anime assetate di sete inestinguibile»13.
Ma con altrettanta forza bisognerebbe soffermarsi sulla centralità nel lessico di Garin, allora e prima di allora, del lemma “concretezza” nelle sue varie accezioni, nel quadro di una costante polemica contro l’“astratto” sulla quale avremo modo di ritornare più avanti. Ora, però, vorrei innanzitutto soffermarmi sulle battute finali, su quel Dio che, «in uno strano paradosso», è sempre presente proprio con la sua assenza, dando in questo modo sapore e significato alla nostra vita e alla nostra azione in questo mondo.
Come si è detto, è una battuta che può sorprendere coloro che sono abituati a confrontarsi con l’immagine tradizionale di Garin, quale si è venuta costituendo lungo gli anni Cinquanta e poi negli anni Sessanta, come maestro di vita civile, mondana, laica. Ma non è lontana da quello che Garin era stato negli anni precedenti, a cominciare dalla metà degli anni Trenta, quando comincia ad interessarsi di filosofia del Rinascimento. Del resto, è lo stesso Garin nel 1956 a dichiarare, in una testimonianza poi non più ripetuta, l’intensità e la profondità della sua esperienza religiosa: «a un certo punto della guerra ebbi una fortissima “tentazione” religiosa, che incise in me molto profondamente, anche se con “venature” tolstoiane. (Scrissi perfino su Tolstoi)». E...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Una meditazione sulla condizione umana. Garin interprete del Rinascimento
  3. Appendice. Garin tra “rinascite” e “rivoluzioni”
  4. 2. Garin nel Novecento
  5. 3. Garin e Luporini: due maestri
  6. Nota al testo