L'Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi
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L'Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi

Miti grandiosi e giganteschi rivolgimenti

  1. 30 pagine
  2. Italian
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L'Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi

Miti grandiosi e giganteschi rivolgimenti

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L'Italia fra le arti e le scienze, illustrazione di "quell'opera grande e fierissima che è Italia fascista", fu realizzato da Mario Sironi nell'aula magna dell'Università La Sapienza di Roma nel 1935. Nell'ispirazione fascista e nella successiva epurazione dei riferimenti al regime attuata nel 1950, l'opera compendia simbolicamente la parabola di un'epoca della storia italiana, una storia inaugurata nel 1910 col manifesto futurista, inneggiante all'orgoglio di una nuova Italia trionfante, e conclusasi fra le macerie di un'Italia rovinata dalla guerra voluta dal duce. Sopravvissuto al crollo dei miti, chiuso in una "crisalide di disperazione di orrore e di lagrime", senza più "illusioni di trionfi", Sironi morì mentre l'Italia del miracolo economico celebrava orgogliosa il centenario dell'Unità.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858110751
Argomento
Art

Il testo

Eccellenza, S.E. Piacentini mi dà notizia che per somma benevolenza dell’E.V. mi è stato assegnato il compito arduo di illustrare il fascismo sulla grande parete del Salone dell’Università Romana. Non potevo ricevere di più. Se la fiducia di S.E. Piacentini ha potuto ritenermi non indegno di questo lavoro che nell’esaltazione del mio desiderio mi appare circondato di ogni più alta e difficile difesa debbo unicamente all’E.V. [...] Il lavoro che la V.E. mi concede non sarà dunque una comoda e pacifica soluzione della mia vita d’artista, ma sarà uno dei primi e dei più ardenti slanci verso questa meta alta e severa che dovrà rigenerare nello spirito e nei mezzi l’arte di oggi, condotta da vanità di tendenze individualistiche a dissipare gran parte delle sue energie.
Non so pensare di errare in questo mio giudizio. Posso bensì sentirmi inquieto per un simile compito e per dovere proprio io dare una simile dimostrazione, ma non avrò a mio sostegno che una sola forza immensa: la mia fede in V.E., il mio pensiero di essere guardato dal Duce, la imperiosa e quasi dolorosa – tanto è forte – volontà di adeguare l’opera degli artisti a quell’opera grande e fierissima che è l’Italia fascista. Per questo il mio nome, a opera compiuta, non conterà nulla di fronte allo spirito che la richiesta è direi generata. Rivolgo ancora alla V.E. il mio grazie più profondo, l’espressione della mia devozione più ferma, più assoluta della mia ardente gratitudine.
Porgo a Vostra Eccellenza il mio saluto romano e fascista. Devotissimo, Mario Sironi.
Con questa lettera dell’8 dicembre 1933 Mario Sironi ringraziava il duce per aver avuto dall’architetto Piacentini, il principe degli architetti fascisti, che sovraintendeva alla fondazione e costruzione della nuova Città universitaria di Roma, il compito di affrescare la parete dell’aula magna, l’«abside», come venne chiamata, dando quasi un significato sacrale alla stessa Città universitaria.
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Quello che vedete [fig. 1] non è l’affresco originario di Sironi. Infatti lo stesso Piacentini, che dopo la fine del fascismo fece una rapida conversione ideologica diventando architetto dell’Italia repubblicana e democristiana, commissionò a un pittore accademico il compito di defascistizzare l’affresco di Sironi, cioè di eliminare tutti i simboli che richiamavano espressamente il fascismo e di restituire un affresco epurato dalla fede fascista che vi aveva impresso l’artista. Piacentini avvertì Sironi che avrebbe salvato il suo affresco, ricoperto, dal ’43 in poi, con cartoni incollati e quindi rovinato, e assicurò che sarebbe stato restituito alla sua forma originaria. Che era questa [fig. 2].
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Come vedete, c’è una notevole differenza perché in quello che appare, nella versione depurata, appare come una sorta di leziosissima rappresentazione di una specie di paradiso, è scomparso qualsiasi riferimento a tutto ciò che era stata l’Italia fascista, per la quale l’affresco era stato commissionato. Nella forma originaria, come si può vedere da questa fotografia poco nitida [fig. 2], l’affresco appariva rude, aspro, severo, austero, monumentale, arcaico, com’era nello stile di Sironi, e non così leziosamente laccato come la ridipintura fatta tra il 1948 e il 1950, senza l’autorizzazione dell’autore. L’Italia campeggiava al centro sovrastata da una maestosa aquila imperiale. C’era una montagna rocciosa in cui era scolpito il fascio littorio con l’indicazione dell’Era fascista, anno XIV; c’erano un arco trionfale con un profilo del duce equestre e una dinamica Vittoria alata, mentre tutte le arti e le scienze affiancavano l’Italia fascista quasi come un coro inneggiante alla sua grandezza. Tutto quello che ne è rimasto dopo la ridipintura è un affresco che non ha più nessun riferimento all’intenzione originaria del suo autore. Ed è giusto che sia così, perché il rifacimento che fu fatto nel 1948-50 segnava emblematicamente, quasi simbolicamente, non soltanto l’epurazione dei simboli fascisti, ma la conclusione di un’epoca della storia italiana ed europea, che lo stesso Sironi nel 1932 aveva chiamato «un’epoca di miti grandiosi e di giganteschi svolgimenti».
Quell’epoca era finita nel 1945, non solo perché era finito il fascismo, ma perché era finito il mondo dei miti che lo aveva generato e nei quali Sironi aveva creduto fin da giovane. Di questi miti si sono perse l’eco e la memoria nell’Italia di oggi – ed è logico che sia così perché i miti si dissolvono quando non hanno più un legame con la realtà. Quei miti illustrati da Sironi erano nati all’inizio del Novecento, quando in Italia dominava Giovanni Giolitti, il più prosaico dei presidenti del Consiglio italiani, l’uomo politico più privo di qualsiasi suggestione mitica. E anche il più longevo al potere come presidente del Consiglio, prima di Mussolini e di Berlusconi. L’Italia in cui erano nati i miti nei quali credeva Sironi era una nazione che si avviava ad essere un paese industriale. Ebbene, la trasformazione dell’Italia in un paese industriale aveva dato nuovi miti ai giovani delle avanguardie culturali, che cominciavano a nascere ai primi del Novecento.
I primi furono Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini con la rivista «Leonardo», poi dal 1908 di nuovo entrambi con «La Voce», fino all’irruzione rumorosa dei futuristi nel febbraio 1909 con l’esaltazione sfrenata della modernità, che tuttavia aveva cominciato a diffondersi già prima di loro. È infatti a Milano, capitale della modernità industriale, che nel 1906 si tiene una grande Esposizione Universale, dove si celebra il compimento del traforo del Sempione, allora il più lungo del mondo, mentre il manifesto del ballo Excelsior [fig. 3], che risaliva agli ultimi anni dell’Ottocento, esaltava il progresso della tecnica e della macchina in tutte le sue forme, in tutte le sue manifestazioni.
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Ma i futuristi – anzi i pittori futuristi, tra i quali non militava ancora Sironi, che aderì al movimento solo nel 1914, ma era già in contatto con i futuristi Boccioni e Balla – sono certamente i primi ad annunciare profeticamente l’inizio di una nuova epoca di grandezza e di primato per l’Italia, nel febbraio 1910, con un manifesto ai giovani artisti d’Italia:...

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