Prima lezione di semiotica
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Prima lezione di semiotica

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Prima lezione di semiotica

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Padroneggiare la semiotica vuol dire non arrendersi alle evidenze, saper invertire il punto di vista, decostruire e ricostruire i meccanismi su cui si basa gran parte di ciò che viviamo e pensiamo, desideriamo o subiamo – e dunque tutto ciò a cui, appunto, diamo senso e valore. Questa Prima lezione illustra i presupposti della scienza dei linguaggi e della significazione, le sue molteplici ascendenze disciplinari, il suo progressivo compattamento verso un'ipotesi forte di teoria e d'analisi critica delle differenti culture umane e sociali.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858132456

III.
Visioni strutturaliste

1. Apparenti paradossi

Alla base della semiotica sembra esserci una serie di curiosi paradossi: un paradosso storico-fondativo, un altro riguardante l’oggetto di studio, un terzo riguardante il nome stesso della disciplina.
Per quel che riguarda il problema delle origini storiche della semiotica, come s’è accennato, va ricordato che del segno, del linguaggio, della comunicazione e del senso s’è sempre discusso, ma la semiotica come disciplina a sé stante, con un suo preciso insieme coerente di metodi e di concetti fra loro interdefiniti, è una disciplina molto giovane, che possiamo far risalire grosso modo alla seconda metà del ventesimo secolo. Da che cosa deriva questo apparente paradosso? Innanzitutto consideriamo che non si tratta di una condizione tipica della sola semiotica: basti pensare all’estetica, alla sociologia, alla psicologia o alla linguistica, tutte discipline che si sono istituzionalmente costituite in periodi relativamente recenti, ripensando alla radice oggetti d’indagine e campi problematici che in tanti altri orientamenti di studio erano già stati affrontati. In secondo luogo, va osservato che nella storia della cultura e del pensiero le questioni semiotiche sono state disseminate e disperse in discipline molto diverse come la logica, la metafisica, la teoria della conoscenza, la retorica e la poetica, ma anche la medicina, la fisionomica, l’arte della divinazione, l’emblematica e simili. Va detto infine che, per quanto già dall’antichità la nozione di segno fosse stata coniata, i principali pensatori e studiosi che l’hanno definita non hanno parlato quasi mai della stessa cosa: se in Parmenide, per esempio, si discute di segno in termini di tracce della divinità, in Ippocrate esso è il sintomo di una malattia, in Aristotele una prova da portare in tribunale, negli stoici il meccanismo dell’inferenza logica, in Agostino l’equivalente di una parola etc. Insomma: così come nessun fisico odierno indicherebbe gli atomisti greci e latini come precursori del proprio ambito di ricerca, allo stesso modo nessun semiologo odierno potrebbe usare la nozione ippocratica o agostiniana di segno senza ripensarla alla radice, interdefinendola con altre nozioni a essa collegate, e dunque trasformandola completamente, se non addirittura eliminandola dal proprio bagaglio metodologico e teorico.
Da qui un secondo paradosso: la semiotica, cosiddetta ‘scienza dei segni’, fonda la propria autonomia disciplinare, le proprie basi concettuali, superando una nozione comune e tradizionale di segno, ossia decostruendola e disperdendola in una serie di nozioni di maggiore rigore teorico. Il segno appare agli occhi del semiologo ciò che la parola è per il linguista: il punto di partenza di un’indagine che va alla ricerca di entità che lo compongono o nelle quali esso si compone. Le parole (o lessemi) sono composte di tante parti (monemi, fonemi, tratti fonologici) e a loro volta sono parti di sistemi più generali e complessi (frasi, testi, discorsi). È così che, se il parlante comune crede di esprimersi attraverso parole, in realtà non fa altro che costruire quelle parole e, con esse, produrre frasi e discorsi. Per questa ragione, il linguista mette tra parentesi l’esistenza dei lessemi, per analizzarne le parti costitutive e le relazioni che essi intrattengono con altri lessemi. È il senso comune che immagina la lingua come un semplice dizionario; il linguista gli obietta che essa è soprattutto morfologia, grammatica e sintassi. La lingua non è un insieme di cose ma un sistema di pure differenze. Allo stesso modo il segno è soltanto la punta di iceberg di un complesso lavorio sottostante che, se pure non appare al momento della comunicazione, è proprio ciò che la rende possibile. Un segno è, da un lato, la risultante manifesta di una strutturazione soggiacente di parti e, da un altro lato, il componente di una struttura più ampia. La vita del segno dipende in tutto e per tutto dalle strutture che lo producono e lo sorreggono, ovvero dalle relazioni che le sue parti intrattengono per porlo in essere, ma anche dalle relazioni che esso stesso intrattiene con altri consimili segni entro un più generale sistema di significazione. Per questa ragione – lo abbiamo detto – occorre definire la semiotica non più come una scienza dei segni ma come una teoria della significazione.
Un terzo paradosso riguarda una questione terminologica, dietro la quale si rivela una più profonda trasformazione concettuale. Esiste un certo numero di termini per indicare la disciplina: oltre semiotica, oggi più in uso, alcuni studiosi hanno proposto anche semiologia, semeiotica, semasiologia, semanalisi, semantica, talvolta differenziando gli oggetti di studio, talaltra dissodando nuovi campi d’indagine. In linea di massima, i termini più ricorrenti sono comunque semiologia e semiotica. Qual è la differenza? Sostanzialmente nessuna. Di fatto, però, i due termini hanno progressivamente assunto valori molto diversi. Il primo (semiologia), sorto e diffuso in area francofona, era il modo in cui più frequentemente si indicava la disciplina negli anni Sessanta, periodo in cui essa era ancora considerata come una semplice scienza dei segni – ed era parecchio di moda. Il secondo (semiotica), diffusosi originariamente in area anglofona, rinvia a uno stato della disciplina che, come s’è detto, ha superato la nozione di segno e, con essa, una certa ingenua dipendenza nei confronti dei modelli linguistici – ma non è altrettanto diffuso che in passato. Così, l’immagine della disciplina che ancor oggi generalmente circola – e che si ritrova spesso nei dizionari, nei media o nei discorsi dei non addetti ai lavori – è quella della semiologia come scienza dei segni, non della semiotica come teoria della significazione.
Da tutto ciò, ribadiamo ancora, l’esigenza di una ricostruzione genealogica più che storiografica della disciplina semiotica, una ricomposizione logica più che cronologica, teorica più che diacronica.

2. Saussure, Hjelmslev, Barthes

In origine era Ferdinand de Saussure. Per quale motivo? Non ci sono stati prima o contemporaneamente a questo grande linguista svizzero (1857-1913) altri studiosi del linguaggio e del segno? E poi: perché proprio il lavoro di un linguista – e non, poniamo, di un filosofo o di un critico letterario, di un antropologo o di un sociologo – dovrebbe essere considerato come il principale fondamento teorico della semiotica? Le risposte possibili sarebbero molte. Qui ne indichiamo soltanto tre, strettamente legate fra loro: (i) perché Saussure ha preferito allo studio del linguaggio in generale quello delle lingue nella loro concretezza e regolarità; (ii) perché ha inteso il segno non più come un atto di rinvio referenziale fra le parole e le cose (esterno alla lingua), ma come una relazione di significazione fra un significante e un significato entrambi facenti parte della lingua; (iii) perché ha rilevato come il valore del segno non stia tanto in questa relazione di significazione fra i suoi due elementi costitutivi, quanto nei rapporti che esso intrattiene con altri segni all’interno di un sistema. Così – si legge nel Corso di linguistica generale (1916) – “se potessimo abbracciare la somma delle immagini verbali immagazzinate in tutti gli individui, toccheremmo il legame sociale che costituisce la lingua. Questa è un tesoro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cervello d’un insieme di individui, dato che la lingua non è completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa”. Da qui la celebre differenza fra langue e parole: laddove la prima è sociale, necessaria, esterna e passiva, costituita da pochi elementi formali, dunque invariante, la seconda è individuale, accessoria, interna e attiva, costituita da molti elementi sostanziali, e perciò variabile. Per spiegare tale opposizione dialettica Saussure propone un paragone destinato a diventare celebre. Il treno Parigi-Marsiglia delle 8.30 è sempre lo stesso pur potendo essere, in linea di principio, sempre diverso. Possono cambiare i vagoni, il conducente e il personale in servizio, persino la linea che percorre; ma, per poter esistere, per avere un senso, deve essere un qualche treno che ogni giorno, a quell’ora, parte da Parigi e arriva a Marsiglia.
La lingua, insomma, è “un sistema di valori puri”, dove a dominare sono le relazioni formali e gli elementi sostanziali che ne derivano. Questo sia che si tratti di combinazioni sintagmatiche, ossia di relazioni fra i vari elementi in praesentia nel flusso del discorso (come per esempio le regole di accordo di genere o di numero), sia che si tratti di selezioni paradigmatiche fra elementi di una stessa classe (ossia le regole che portano a scegliere nella classe, per esempio, del genere o del numero, il maschile piuttosto che il femminile, il singolare invece del plurale).
Ecco la base dello strutturalismo. Una struttura, dirà il linguista danese Louis Hjelmslev (1899-1965), è un’“entità autonoma di dipendenze interne”, dunque un qualcosa di cui la lingua fornisce senz’altro il modello esemplare, ma che possiamo ritrovare in tutt’altri campi d’indagine, come le organizzazioni culturali e sociali, l’abbigliamento, la cucina, le città, l’arredamento, le opere d’arte etc. Ed è proprio Hjelmslev a portare sino alle logiche conseguenze il discorso di Saussure, non solo per offrirlo come metodo rigoroso alle scienze umane, ma anche per fondare a livello epistemologico la semiotica come studio rigoroso dei sistemi culturali di significazione. In uno dei suoi libri più noti – I fondamenti della teoria del linguaggio (1947) – viene detto che lo scopo fondamentale della linguistica (ma, in generale, di tutte le scienze dell’uomo) è quello di partire da fenomeni che si presentano come processi, dunque variabili nello spazio e nel tempo, per ritrovare al di sotto di essi dei veri e propri sistemi, ossia quegli insiemi di regole invarianti che pongono in essere ogni possibile variazione. Le scienze umane, e la linguistica tra esse, non devono limitarsi a descrivere fatti (in quanto tali incontrollabili e inspiegabili); devono piuttosto proporre ipotesi di spiegazione di quei fatti, e dunque ricostruire arbitrariamente ma adeguatamente i sistemi sottesi ai processi, le invarianti sottese alle varianti, le regole sottese ai fenomeni.
Per quel che riguarda in particolare il passaggio dalla linguistica alla semiotica, il ragionamento di Hjelmslev è molto preciso: la lingua è ciò che mette in presupposizione reciproca due diversi piani – l’espressione e il contenuto – ognuno dei quali ha una sua forma e una sua sostanza. Analizzando il funzionamento linguistico si scopre però che è sempre a partire dalla forma, dal ritaglio formale di una materia supposta preesistente, che la sostanza può essere prodotta come ‘altro’ rispetto alla lingua. La sostanza, dice Hjelmslev, è l’oggetto di studio di altre scienze, che provvederanno a loro volta a ritagliarla in modi diversi, ricavandone ulteriori forme. Così, dal punto di vista della scienza, si dà una assoluta primarietà della forma e una relativa indifferenza della sostanza. Nella lingua è sempre a partire dalla forma (dell’espressione e del contenuto) che si determinano le sostanze: in essa infatti, ripete Hjelmslev, la medesima forma dell’espressione può fare ricorso a diverse sostanze (per es. orale e scritta), le quali non trasformano l’impianto di base della lingua, ossia le sue forme dell’espressione e del contenuto.
Ritroviamo così nella teoria di Hjelmslev non più soltanto l’auspicio di una scienza semiotica a venire (necessaria per l’edificazione della linguistica generale), com’era in Saussure, ma una vera e propria fondazione teorica della scienza semiotica, una sua chiamata in causa a partire da osservazioni linguistiche concrete e da loro progressive generalizzazioni. In quanto studio delle forme e non delle sostanze, linguistica e semiotica non sono scienze simili o correlate, bensì, molto più radicalmente, il medesimo campo di studi, col medesimo oggetto d’analisi. Detto in altri termini, se la trasformazione della sostanza non modifica la prospettiva di studio, non si capisce perché analizzare non più una lingua ma, poniamo, un sistema gestuale o d’immagini debba implicare un cambiamento di disciplina. Nelle parole di Hjelmslev: “Appunto perché la teoria è costruita in maniera che la forma linguistica viene considerata senza riferimento alla ‘sostanza’, sarà possibile applicare il nostro apparato a qualunque struttura la cui forma sia analoga a quella di una lingua ‘naturale’”.
Da qui l’idea, che ebbe molto successo già negli anni Sessanta, secondo la quale la prospettiva strutturale e la prospettiva semiotica lavorano di pari passo: ogni rilevamento di senso è la manifestazione di una qualche articolazione formale, ossia di una qualche struttura; e viceversa: ogni ricostruzione strutturale lascia emergere il senso dell’oggetto considerato, ovvero la sua significazione intrinseca.
È, tra gli altri, l’idea espressa da Roland Barthes (1915-1980): lo strutturalismo non è soltanto un metodo per cogliere e interpretare i fenomeni sociali e culturali. Esso è la ricerca di un senso del mondo, o meglio: della maniera in cui il senso emerge nell’universo sociale e antropologico. Da qui un celebre paragone. Come l’antico greco descritto da Hegel si meravigliava di fronte alla natura e percepiva “nell’ordine vegetale o cosmico un immenso fremito del senso” su cui non cessava d’interrogarsi, allo stesso modo, scrive Barthes, dato che “la natura è cambiata, e si è fatta sociale [...], l’uomo strutturale [...] porge l’orecchio alla naturalezza della cultura, e in essa percepisce continuamente, più che sensi stabili, finiti, ‘veri’, il fremito di una macchina immensa che è l’umanità, intenta a procedere instancabilmente a una creazione del senso, senza la quale non sarebbe più umana”. Lo strutturalista, sia esso studioso di scienze umane o critico letterario, ma anche artista o scrittore, “dice il luogo del senso ma non lo nomina”, o, più precisamente, indica la provenienza del senso e le procedure per la sua fabbricazione, ma non si preoccupa di interpretarlo, di racchiuderlo in una definizione pacificante. Il problema, per lui, non è la messa a fuoco del significato ma i processi della sua costituzione, i dispositivi che aprono la significazione, che ne garantiscono l’esistenza, che la fanno circolare. Il compito dell’analisi strutturale, al di là dell’utilità delle sue procedure di scoperta e di descrizione (o degli esiti filosofici cui conduce), è, secondo Barthes, quello di mettere in evidenza il carattere significante degli oggetti culturali, sottolineando quella loro valenza sistematica che a prima vista non appare. Significatività e sistematicità sono strettamente dipendenti: non c’è senso se non in un sistema, non c’è sistema che non promuova del senso.
Tuttavia, l’attività strutturalista non vuole ordinare, classificare, gerarchizzare i fatti culturali più o meno grandi, più o meno piccoli riconducendoli a un sistema di relazioni che, formalizzandoli, li avvilirebbe. Al contrario, esibendo la sistematicità naturalizzata, ossia costruita, tanto ovvia quanto fittizia, che la società fornisce loro, finisce per destrutturarli, per indicarne la fragilità. Una cosa è indicare come di fatto è costituita la cultura umana, altra cosa è sottoscriverne l’ideologia. La cultura solidifica il senso, ne garantisce il carattere stabile, finito e ‘vero’, cioè naturalizzato. Lo strutturalista, al contrario, esibendo il carattere significativo e sistematico di quella stessa cultura, si adopera per, diciamo così, liberarla dai suoi vincoli ideologici riportando il senso al suo semplice stato di ‘fremito’.
Tre, per Barthes, le operazioni compiute nel corso di ogni attività strutturalista. La prima è quella del ritaglio, della scomposizione dell’oggetto volta per volta analizzato nelle sue parti costitutive. Per farlo, è necessario individuare i criteri pertinenti, e cioè le classi paradigmatiche entro cui inserire le unità da scomporre. Il modo più semplice è la prova di commutazione cara ai linguisti: se cambiando qualche elemento sul piano dell’espressione significante cambia parallelamente qualcosa sul piano del contenuto significato, allora quell’elemento significante è pertinente, cioè significativo; se invece non cambia nulla, non è pertinente (“cane” e “pane” sono due termini con significato ben diverso: dunque la differenza fonetica k/p è pertinente). Si costi...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. I. Segni, codici, valori
  3. II. Del senso
  4. III. Visioni strutturaliste
  5. IV. Storie
  6. V. Testualità, società, cultura
  7. Notizie e riferimenti