1. La comunicazione è un problema filosofico
1. Un animale che comunica
Che il mondo sia permeato dalla comunicazione sembra ovvio: comunicano la politica, la pubblicità, la famiglia, la scuola, i mass media; perfino le malattie e le reazioni dell’organismo sono spesso descritte in termini di (errori di) comunicazione. Ma che cosa si intende con queste affermazioni? Che cosa vuol dire «comunicare»? Il fatto che questo problema emerga largamente negli ultimi decenni dipende dalla rilevanza e dall’estensione progressivamente accordata al concetto di comunicazione negli ultimi sessant’anni circa, che non ha riscontro in precedenza. Anche la parola «comunicazione» è relativamente nuova, almeno nel senso in cui la usiamo noi oggi. Per fare solo un esempio, ancora nel 1941 il dizionario italiano dello Zingarelli definiva il verbo «comunicare» solamente nei termini di «far partecipe, rendere comune ad altri, dividere insieme» e il sostantivo «comunicazione» come «partecipazione, mezzo di corrispondere, impulso, trasmissione, passaggio», traendo esempi principalmente dai mezzi di trasporto fisici e soltanto secondariamente e senza speciale distinzione da quelli informativi: «comunicazione ferroviaria, stradale, marittima, telegrafica, telefonica, aerea»1.
È evidente però che, da quando esiste la civiltà umana, essa ha avuto al suo centro i fenomeni che oggi noi chiamiamo di comunicazione, l’arte e la politica, i negoziati economici e la rappresentazione religiosa, innanzitutto quel fenomeno fondamentale dell’umano che è il linguaggio. Anzi, dobbiamo affermare la relazione inversa. Noi siamo disposti a riconoscere come propriamente umane nella preistoria solo quelle tribù di primati in cui siamo in grado di ravvisare fenomeni «simbolici» o di comunicazione, non puramente strumentali: pitture murali e cioè rappresentazioni forse motivate da credenze magiche, tombe organizzate in maniera tale da farci pensare a fenomeni di culto, iscrizioni e forme primitive di conteggio e di calcolo. Tutte cose che suppongono intenzioni comunicative e un’organizzazione della società riccamente articolata sul piano della comunicazione. Eminenti antropologi come Leroi-Gourhan (1964-65) hanno potuto affermare che il fenomeno dell’ominazione ha al suo centro la liberazione delle risorse fisiche (organizzazione scheletrica e delle cartilagini della gola, dimensione cerebrale ecc.) necessarie alla parola. Poter parlare, e in seguito a ciò, poter produrre quei comportamenti complessi che definiamo come comunicazione, è la condizione fondamentale per l’umanità.
Questa osservazione ci riporta al linguaggio, che per noi oggi appare evidentemente il principale strumento comunicativo (il «sistema modellizzante primario» di Jurij Lotman [1974, 1985]): a partire da esso per Aristotele si definisce l’umano in quanto politico, con la sua caratterizzazione dell’umanità così singolarmente doppia: anthropos zoon logon echon/zoon politikon2. L’uomo è «politico» o se si vuole «urbano», «sociale», naturalmente immerso nella vita comunitaria, perché è portatore di linguaggio. Il punto è che l’umano «non può essere senza gli altri» (Aristotele, Politica 1252a 27) e questa condizione è profondamente legata alla sua natura linguistica. Considerazioni analoghe si ritrovano da un capo all’altro della storia della filosofia. Oltre duemila e trecento anni dopo Aristotele, per fare solo un esempio, anche Heidegger insiste molto sulla natura linguistica del «con-essere»3. Ma torniamo ad Aristotele:
[…] lo stato [koinonia politiké] è un prodotto naturale e l’uomo per natura è un essere socievole [politikon]: quindi chi vive fuori della comunità statale per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo, proprio come quello biasimato da Omero «privo di fratria, di leggi, di focolare»: tale è per natura costui e, insieme, anche bramoso di guerra, giacché è isolato, come una pedina al gioco dei dadi. È chiaro quindi per quale ragione l’uomo è un essere socievole molto più di ogni ape e di ogni capo d’armento. Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato4.
Queste osservazioni di Aristotele sono molto ricche e complesse sul piano teorico, implicano teorie impegnative sul funzionamento del linguaggio, delle passioni e della conoscenza; non è possibile approfondirne qui la discussione. Vale la pena però di sottolineare come sia la voce (phoné) che gli uomini condividono con gli animali, sia la parola o il discorso (logos) che è specifico degli uomini, sono analizzati come strumenti di espressione o indicazione (nel testo questa caratteristica è specificata rispettivamente come semeion estin ed epi to delon estin – «essere segno di qualcosa», nel caso della voce, e «portare all’evidenza», nel caso del logos, parola o discorso che sia). Voce e soprattutto parola hanno dunque sì un riferimento o un significato (hanno cioè la capacità di rimandare a cose individuali oggettive oppure a concetti e sensazioni generali soggettive – una contrapposizione quest’ultima essenziale in filosofia del linguaggio che però non è rilevante per noi ora), ma allo stesso tempo hanno anche la funzione di riportare tali contenuti agli altri animali o esseri umani, di renderli significativi o manifesti per loro, di condividerli: cioè in senso proprio sono strumenti di comunicazione. Si individuano così i due grandi vettori o assi dell’attività comunicativa.
Il primo di questi due assi che caratterizzano tutte le comunicazioni sensate (linguistiche o non) è quello «verticale» o semantico che lega l’attività espressiva al mondo, rispondendo alla domanda «che cosa stiamo dicendo?», «di che cosa stiamo parlando?». Esso è stato largamente e variamente esplorato dalla filosofia del linguaggio e dalla semiotica. Il secondo, quello più propriamente comunicativo e orizzontale, unisce gli interlocutori intorno al discorso, secondo la domanda «a chi, con chi, per chi sto comunicando?». Esso invece è stato per lo più trascurato dal discorso teorico della filosofia e della semiotica, lasciato al buon senso o elaborato solo parzialmente dalle teorie degli atti linguistici, dalla pragmatica, della microsociologia o dalla psicologia della comunicazione. Ma esso è assolutamente centrale in relazione alla natura socievole (nei termini di Aristotele: politiké) degli umani. Proprio le capacità comunicative del linguaggio e degli altri sistemi di segni costituiscono il fondamento della dimensione sociale degli umani e dunque ne fondano la dimensione politica e buona parte di quella etica. Siamo animali sociali perché «non è possibile non comunicare» (Watzlawick, Beavin e Jackson 1967) e perché la comunicazione è sempre per gli altri. Dunque, al di là dell’analisi più o meno tecnica delle regole comunicative delle relazioni interpersonali, è necessario un pensiero filosofico che si sforzi di coglierne radicalmente il senso.
Informazione e comunicazione
Prima di procedere è importante proporre una distinzione fra concetti che spesso tendono a essere confusi. Quando parliamo di comunicazione, non intendiamo necessariamente che vi sia uno scambio di informazioni. Informazione e comunicazione non sono la stessa cosa. L’informazione – in due sensi diversi ma coerenti del termine, che chiameremo informazione 1 e informazione 2 – si trova alla base di qualunque processo comunicativo oppure ne rappresenta una specie particolare. Il primo senso (Informazione 1) è innanzitutto fisico-matematico: l’informazione, in questa accezione, è la misura dell’improbabilità, cioè della non banalità, della non ripetitività, della novità intrinseca di qualunque processo fisico. Un processo ripetitivo, come l’oscillazione di un pendolo o l’orbita di un pianeta, è largamente prevedibile e di conseguenza ha scarsa capacità di influenzare i comportamenti di un osservatore, gli porta poca informazione (se non questa sua stessa regolarità che si usa per «misurare» il tempo, ma questa è tutt’altra storia). D’altro canto un «eccesso» di informazione, cioè l’estrema improbabilità di una situazione assolutamente casuale, come la distribuzione dei sassi in un campo o l’«effetto neve» di uno schermo televisivo non sintonizzato, è caotica e altrettanto insignificante. Solo i giocatori fanatici o i superstiziosi cercano di dare senso a processi davvero casuali, come le sequenze dei numeri del lotto, le linee della mano o le serie delle carte estratte da un mazzo.
La nozione di informazione (nel senso 1 che stiamo discutendo) si usa non solo per nominare la misura delle probabilità statistiche dei processi fisici, ma anche per considerare questi stessi processi, in quanto portatori di quelle probabilità. Così si parla dell’informazione che si può ritrovare nello spettro elettromagnetico di una stella, ma anche, in maniera più interessante per noi, della quantità di informazione che un certo collegamento telematico è in grado di veicolare.
Le tecnologie della comunicazione (a partire dal linguaggio e dal comportamento significativo) consistono in fondo nella produzione artificiale e controllata da parte di un soggetto del giusto grado di Informazione 1, secondo certi schemi condivisi (fonologici o iconologici, sintattici, semantici) che ne permetteranno la decodifica ai riceventi e soprattutto secondo principi di pertinenza: vale a dire che la parte imprevedibile o informativa del processo artificiale (il messaggio) dev’essere in qualche modo correlata agli interessi di chi lo produce (emittente) o lo osserva (destinatario) oltre che a qualche aspetto del mondo o della mente (significato).
Questa situazione, in cui l’informazione nel senso 1 scorre fra soggetti secondo la loro pertinenza, costituisce la base della comunicazione. È importante capire che il processo fisico di cui parliamo è fortemente influenzato dall’interferenza (rumore) di altri processi, volontari o meno, che possono essere superati sempre solo con un costo (energetico, corporeo, in prospettiva economico), per esempio amplificando il processo fisico o modificandone le caratteristiche con ripetizioni e altri dispositivi di ridondanza che permettano di mantenere l’informazione anche se alcuni tratti del processo venissero cancellati dal rumore.
Bisogna anche ribadire che questi processi fisici sono solo il fondamento materiale delle diverse situazioni comunicative, che nella vita sociale si realizzano sovrapponendo loro sempre più riccamente codici e enciclopedie (cioè sistemi di presupposizioni, risultati di processi precedenti socialmente o perfino geneticamente depositati) e vanno valutate essenzialmente per le modificazioni, gli effetti, che apportano al comportamento degli interlocutori e non per il loro puro contenuto informativo astratto in termini di improbabilità. Infatti gli elementi della comunicazione vera e propria (testi, segni, messaggi, ecc.) si comportano rispetto a questa loro base informativa un po’ come i programmi rispetto alla memoria dei computer su cui vengono scritti: come i programmi, anche i testi per poter funzionare devono essere portabili, cioè traducibili su supporti molto diversi (per esempio oralità e scrittura, linguaggio e audiovisivo, e soprattutto tra menti umane diverse), cambiando aspetto ma senza perdere in linea di principio le loro caratteristiche pertinenti, il loro senso.
Scritta su carta e su schermo di computer, a mano o stampata, con questo o quel carattere, dimensione o colore, enunciata oralmente o nel linguaggio dei sordomuti, trasmessa al telefono o registrata su supporto magnetico, intesa o ricordata da me o da un altro che non c’entra, la stessa frase di una conversazione può avere pesi informativi astratti molto diversi, mantenendo la stessa capacità comunicativa di determinare una certa relazione interpersonale. Per questa ragione, occupandosi di comunicazione, per lo più non è interessante fermarsi sui dettagli del meccanismo informativo sfruttato, cioè del modo in cui è gestita l’informazione che funge da base del sistema, del suo formato, salvo che certe sue caratteristiche non influenzino la comunicazione al di là della pertinenza esplicita. Il che però accade frequentemente, perché solo una piccola parte dell’informazione di un processo comunicativo è effettivamente usata in maniera formale per determinare i contenuti della comunicazione, mentre buona parte di essa risulta in apparenza superflua.
Per esempio la specifica grafia di un testo scritto, l’accento di una frase pronunciata oralmente, lo «stile» di un’immagine e così via sono strati di informazione in sostanza inevitabili, che a un’analisi puramente contenutistica dell’informazione appaiono «sprecati»: la frase «Ti amo» deve essere scritta in qualche modo, a mano o prodotta da un processo meccanico come una stampante o una macchina per scrivere, in corsivo o in tondo, secondo un certo modello grafico (font); oppure pronunciata con un certo tono di voce, tradotta in graffito su un muro, mimata ecc. Dal punto di vista di una teoria puramente informativa non dovrebbe importare. Ma certamente fa differenza sentire questa frase dalla viva voce di una persona, o dall’accento «impersonale» di un sintetizzatore vocale, leggerla scritta a mano o nei caratteri neutri di un sms. Grafici, pubblicitari, oratori e seduttori conoscono benissimo la differenza. In realtà questo strato «non contenutistico» o «idiosincratico», «legato alle circostanze concrete» dell’informazione su cui si basa una comunicazione, è importantissimo non solo perché su di esso, in definitiva, si fonda la maggior parte delle pratiche artistiche, ma anche nella comunicazione più usuale. Con esso...