Il paese dell'utopia
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Il paese dell'utopia

Viaggio nell'Uruguay di Pepe Mujica

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Il paese dell'utopia

Viaggio nell'Uruguay di Pepe Mujica

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Negli ultimi anni la sinistra di tutto il mondo ha trovato la sua fonte di ispirazione principale in un piccolo paese del Sudamerica, l'Uruguay. Il protagonista di questa storia è senza dubbio José Mujica, ex guerrigliero tupamaro e poi presidente, personaggio inclassificabile e anticonformista, promotore di una serena austerità. Oltre a segnare progressi nella lotta alla povertà, il presidente ha lanciato il paese in progetti innovativi a livello mondiale, come la legalizzazione della marijuana o il programma che ha portato un computer a tutti gli studenti, anche nella pampa più sperduta. Ma tutto il paese è da sempre ricco di storie di visionari. In questo viaggio incontriamo persone originali e coraggiose, storie in contrasto con il vittimismo e la noncuranza della nostra Europa.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123676
Argomento
Economia

1.
Alla «chacra» di Lucía e del Pepe

Ecco, di nuovo, Montevideo. Sono trascorsi più di sette anni. Di crisi profonda per l’Italia e l’Europa. Di crescita economica per questa parte del mondo. Si dice che nei paesi emergenti una cartina tornasole del trend positivo sia rappresentata dalla densità del traffico: più soldi significano più auto e più rifornimenti di benzina. Non c’è dubbio, mai visti tanti ingorghi nel centro di Montevideo. E i nuovi palazzi che appaiono qui e là, più o meno sfavillanti. Perfino i «cantegril», lungo la ruta 1, arrivando in città, con vista sulla baia, appaiono meno disastrati. Con quel nomignolo gli uruguayani identificano le loro favelas: ironicamente, dal nome del club più esclusivo, il Cantegril Country Club, di Punta del Este, la Saint-Tropez del Sudamerica, località balneare a più di cento chilometri a est di Montevideo. L’Uruguay surreale dei milionari.
Ho deciso di ritornare pochi mesi prima della fine del mandato di Mujica. Al di là di una generale impressione di miglioramento riguardo al paese, decido di incontrare un economista: qualcuno che possa confermarlo cifre alla mano, oltre le sensazioni, che sono spesso soggettive. Tanto più che gli uruguayani si lamentano sempre, perfino ora. Voglio qualcuno che risponda ad alcune domande di fondo: nel paese si vive davvero meglio da quando, nel 2005, la sinistra è arrivata al potere? E questo miglioramento rappresenta esclusivamente il frutto di un andamento positivo dell’economia (dovuto perlopiù all’acquisto della soia e delle altre risorse naturali uruguayane da parte della Cina) o anche di una migliore gestione? L’Uruguay è diventato davvero quel laboratorio oggi tanto decantato del neoprogressismo latinoamericano? Vado a parlarne con Gabriel Oddone, uno degli economisti più apprezzati a Montevideo, conosciuto anche all’estero. La società di consulenza di cui è socio, la Cpa Ferrere, ha sede proprio in cima a uno di quei nuovi edifici all’americana, che spiccano fra i polverosi palazzi del centro città.
Oddone parte subito da una premessa. «Nell’ultimo decennio l’America Latina ha vissuto complessivamente un periodo positivo dal punto di vista economico, grazie alle quotazioni elevate delle commodities che produce e alla liquidità in eccesso arrivata dagli Stati Uniti». «Ma non tutti i paesi ne hanno approfittato allo stesso modo. Ebbene, l’Uruguay si è piazzato in pole position: in quel periodo il Prodotto interno lordo è aumentato in media del 5,5% annuo. È il paese che più ha visto crescere la sua economia, assieme a Cile, Perù e Colombia». Forse, però, è una cifra gonfiata dal prezzo della soia, a lungo elevato? «No, in realtà l’Uruguay, a differenza di paesi come l’Argentina e il Messico, non è un esportatore netto di commodities, perché importa petrolio. Non era tra quelli che più dovevano beneficiare di questa fase di prosperità dell’area. Ci è riuscito diversificandosi, puntando anche su altri settori, come la produzione di cellulosa».
Oddone parla di «una strategia economica solida» a proposito della sinistra al potere. Ma, secondo lui, anche una decisione presa prima che il Frente Amplio arrivasse ai vertici dello Stato ha avuto un’influenza positiva, determinante. Era il 2003 e l’Uruguay dall’anno precedente stava vivendo una delle peggiori crisi della sua storia, dopo che la vicina Argentina aveva fatto default sul suo debito pubblico. Anche Montevideo rischiava il fallimento. «E il Fondo monetario internazionale insisteva perché il nostro paese dichiarasse bancarotta. Il presidente di allora, Jorge Batlle, del Partido Colorado, fece resistenza. E riuscì a rinegoziare il debito pubblico. In quel modo abbiamo conservato la fiducia dei mercati internazionali, a differenza dell’Argentina». Questo significa che, superata la bufera, l’Uruguay è potuto ritornare sui mercati internazionali a chiedere finanziamenti, a offrire i suoi bond. Nel frattempo, sfruttando proprio il trend positivo dell’economia, il paese ha risanato il suo bilancio pubblico. E il debito, che tra il 2002 e il 2003 era schizzato sopra il 120% del Pil, nel 2015 oscilla intorno al 60%. Grazie alla diversificazione produttiva di cui abbiamo detto sopra, «l’Uruguay ha ridotto anche la sua vulnerabilità rispetto alle performance del Brasile e soprattutto dell’Argentina». Il Cepal, la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi, che dipende dall’Onu, stima per il 2015 un calo del Prodotto interno lordo dello 0,9% in Brasile e un’evoluzione piatta in Argentina, mentre per l’Uruguay punta ancora a un balzo in avanti del 3%. Quanto al Pil pro capite, nel 2014 ha ormai superato i 16mila dollari, in America Latina secondo solo al Cile.
Sì, ma sulla giustizia sociale, l’eterno problema dei paesi sudamericani, a che punto siamo? Anche qui i dati sono confortanti. Sempre secondo il Cepal (queste cifre sono state rese note all’inizio del 2015 e sono relative al 2013) l’Uruguay è il paese con meno poveri di tutta l’America Latina, il 5,7% della popolazione (era il 18,8% nel 2009). Gli indigenti sono lo 0,9%. Il Brasile, nonostante le sue conclamate conquiste nella battaglia contro le diseguaglianze, nel 2013 aveva ancora un 18% di poveri. Secondo Oddone tutto questo rappresenta il frutto di diverse riforme, tra le altre quella sull’accesso alla salute. Ma anche la riforma fiscale, già in vigore dal 2007. Gabriel porta avanti il suo esempio personale. «Come socio di questa impresa, io fino a quel momento non pagavo tasse sui redditi personali. Mentre i miei dipendenti sì. Era una situazione assurda che dopo la riforma è stata profondamente modificata». La nuova Irpef si applica ormai su ogni forma di lavoro, dipendente e indipendente, e anche sui redditi da capitale e gli incrementi patrimoniali. Il solito Cepal, che non è un organismo né di sinistra né di destra, ma un’istituzione autonoma e rispettata, ha sottolineato che «la riforma fiscale dell’Uruguay è un modello per tutta l’America Latina».
Uscito dall’ufficio di Gabriel, con la testa piena di cifre, raggiungo, a poche centinaia di metri, la Plaza Matriz, il vero cuore di Montevideo. Mi imbatto in un gruppo di connazionali, di quelli che in Italia si dice che sono giovani e giovani non lo sono più da tempo. Indossano delle magliette con la faccia imbronciata di Mujica. Su una, anche una frase: «Poveri non sono quelli che hanno poco, ma quelli che hanno molto». Strano destino per questo paese con appena tre milioni e 400mila abitanti, osannato dagli economisti e che allora, quando ho realizzato questo lungo viaggio in Uruguay, aveva ancora un presidente così lontano dal mondo delle «performance» o delle agenzie di rating. Proprio lui, Mujica che ha liberalizzato la marijuana. Ma che ha contribuito anche a rilanciare l’economia. Un po’ spiazzante. In quei mesi l’Uruguay si trovava in piena campagna elettorale e a quelle consultazioni il Frente Amplio avrebbe di nuovo vinto. Mujica, che è diventato un mito al di fuori dei confini, gode di una notevole popolarità anche in patria, sebbene non incondizionata. Nell’ottobre 2014, pochi mesi prima che lasciasse il potere, un sondaggio indicava che il 62% degli uruguayani nutriva simpatia per il presidente e il 15% antipatia.
Durante il mio viaggio, faccio una piccola indagine fra i miei amici. Uno sulla cinquantina, che ha sempre votato a sinistra, riconosce che «certe volte Mujica le spara grosse. Ma con il tempo l’ho apprezzato sempre più. Mi piacciono le sue frasi un po’ filosofiche, ti fa sognare». Altri, sempre elettori della sinistra, sorridono dei «suoi sogni sulle imprese autogestite, le aziende in mano ai lavoratori: vanno avanti solo perché le riempiono di soldi pubblici». Ma «siamo contenti perché con la sinistra non dobbiamo pagare più per l’assistenza sanitaria dei nostri figli. E poi si respira un’aria di ottimismo che non conoscevamo da tantissimo tempo». Un’altra amica, invece, che non ha mai votato la sinistra, è arrabbiata: «Devo pagare più tasse. Lavoro come prima, che significa tanto, perché sono una libera professionista. Ma ora posso permettermi molto meno. Poi vedo la signora che viene a fare le pulizie a casa che, appena ha diritto al sussidio di disoccupazione, mi dice di buttarla fuori. Così sta a casa, guadagna e non lavora. Ecco quello che hanno creato con i loro programmi sociali». La mia amica ce l’ha anche direttamente con Mujica. Si ricorda di un reportage girato da Kbs, la televisione sudcoreana, nella «chacra», il podere dove il presidente risiede con la moglie Lucía e con Manuela, l’amata cagnetta, che, poveraccia, ha solo tre zampe. Durante il mandato avevano rinunciato alla residenza presidenziale, vivevano comunque lì. Le riprese di quella tv asiatica si soffermavano a mostrare le chiazze di umidità sui muri. E la camera da letto dei due, con il letto non rifatto, con le lenzuola appallottolate sopra a formare un insieme informe. «Tutto quello non è semplicità ma solo disordine e sporcizia. Ma che immagine danno dell’Uruguay nel mondo?». Al di là di questo ammette che «il Pepe sicuramente non è corrotto, non ha rubato, come invece hanno sempre fatto tanti rappresentanti dei partiti conservatori, quelli tradizionali. Anzi, quasi tutti».
In un bar su Plaza Matriz alla televisione stanno dicendo che Emir Kusturica si trova in Uruguay a girare un film su Mujica. Lo ritraggono in giardino, mentre riprende l’anziano parlare. Su Cnn, la televisione americana, quella in spagnolo, un’inviata con una casacca verde militare, della serie «corro sulla Sierra dietro a Che Guevara», sta intervistando il solito Pepe nel solito giardino di casa. Capisco che sarà difficile andare alla «chacra», vederla con i miei occhi, con un tale affollamento. Chiamo gli addetti stampa del presidente e della consorte, la senatrice Lucía Topolansky, e confermano che un incontro sarà impossibile. Per di più sono giorni di elezioni: il primo turno delle presidenziali si avvicina e i due stanno sostenendo il loro «compagno» del Frente Amplio, Tabaré Vázquez. Impossibile avvicinarli.
Vengo a sapere che due sere dopo Lucía parteciperà a un comizio in Tristán Narvaja, una stradina del quartiere Cordón, dove si tiene di giorno un mercato delle pulci tipico di Montevideo. Lì, in un’antica palazzina, si trova una delle sedi storiche dell’Mln-T, il movimento dei tupamaros, ex guerriglieri oggi al potere. Insomma, Lucía parlerà al suo popolo. Quella sera, stranamente, si alza un forte vento. Nel pieno di un mite debutto di primavera arriva un tempo da lupi. Lucía è piccola e rotonda, infagottata in una giacca a vento. Sta di sbieco per parlare. La donna ha una sorella gemella, María Elia. Erano come due gocce d’acqua da giovani, belle davvero. Entrarono assieme nei tupamaros: era il 1967, avevano appena 23 anni. Rapidamente diventarono clandestine. E anche famose: le due sorelle belle e terribili, il mitra in mano, sembrava un film. In certe famiglie uruguayane ai bambini si diceva di fare i buoni altrimenti arrivavano le sorelle Topolansky. A dire il vero anche stasera Lucía fa un po’ paura. Sarà il vento. Sarà che fa già buio. Sarà la faccia seria, a tratti arrabbiata. Nel suo discorso ricorrono parole come «causa» e «dovere» e frasi del tipo «quando decidemmo di prendere le armi». Meno male che di economisti o inviati delle agenzie di rating in giro non si scorge neanche l’ombra. Lucía sta parlando alla sua gente, offre messaggio e dialettica attesi da tanti nostalgici, anche se in mezzo a loro ci sono così tanti giovani. Una peculiarità del Pepe e di Lucía è proprio il successo che raccolgono tra i giovani. Sono loro che alla fine del discorso iniziano a scattare un’interminabile serie di selfie con la donna, alla base del palco. E allora lì diventa un’altra, decisamente più sorridente. Soffia ancora il vento di questa serata bizzosa, ma Lucía ritrova finalmente le espressioni della bella ragazza che fu.
Mi dico che posso provare ad avvicinarla. Non si interpone neanche uno straccio di guardia del corpo. Eccola: spiego che sono un giornalista italiano e che viaggerò per tutto l’Uruguay alla ricerca di storie di utopia, di gente che rincorra oggi un sogno e di utopisti del passato. Forse mi prenderà per un matto o un perditempo. E invece pronuncia solo poche parole: «Lunedì vieni alla “chacra”». Sono soddisfatto, perché prima di partire volevo vedere questa «chacra», paradossalmente uno dei simboli della rinascita del paese. Verificare con i miei occhi se è così sporca come ha detto la mia amica. Soprattutto voglio vedere se questo mito di austerità del Pepe e della moglie è autentico. E se fosse tutta una messinscena? Una storiella a uso e consumo degli stranieri di sinistra alla perenne ricerca del rivoluzionario buono...
Il lunedì mattina, con Juan, che hanno mandato a prendermi, sfreccio sulle strade di Montevideo, su una berlina ammaccata, destinazione la «chacra». Mi sono documentato su Lucía. È nata nel 1944. La famiglia della madre, quella dei Saavedra, era «patricia», come dicono in Uruguay: alta società, ricchi di vecchia data. Lucía (che poi con il Pepe ha imparato a guidare con discreta abilità il trattore) è addirittura una delle discendenti di Carmen Álvarez Susviela de Barrozo, una baronessa conosciutissima nell’Ottocento a Montevideo, per il suo ambito salotto in calle Sarandí, nel centro storico. Lucía è nata ricca. Alcune foto la ritraggono piccolissima, con la sorella gemella, al Colegio del Sacre-Coeur, una scuola privata d’élite. Molto giovane, con i genitori e i sei fratelli (lei e María Elia erano le più piccole e coccolate) si trasferì a Punta del Este. Il padre, ingegnere nel settore delle costruzioni, poté beneficiare di uno dei tanti boom immobiliari della località balneare uruguayana. Bravissima studentessa, Lucía leggeva molto, dipingeva, andava a cavallo, giocava a pallavolo, suonava il pianoforte: come da copione. Il padre, però, subì anche uno dei tanti «sboom» che Punta del Este ha vissuto. Più tardi, rientrati tutti a Montevideo, Lucía continuò a studiare ma cominciò anche a fare dei lavoretti per mantenersi. Decise di iscriversi ad Architettura. Erano gli anni Sessanta, anni di tensione e di fermento fra i giovani universitari a Montevideo. Da quel momento, progressivamente, la vita di lei e della sorella cambiò. Fino a stravolgersi del tutto: diventarono «tupamaras». Iniziarono cinque anni intensi, tre dei quali in clandestinità per Lucía. Un compagno di vita e di lotta ucciso, colpi di vario genere. Catture, penitenziari, fughe. Finché nel 1972, l’anno prima del golpe, finirà definitivamente in carcere. Due mesi prima era iniziata la sua storia d’amore con il Pepe. Dietro le sbarre Lucía ci resterà, come gli altri, fino al ritorno alla democrazia, nel 1985. Particolarmente duro fu il primo anno, quando rimase prigioniera dei militari, prima di passare in un carcere civile. Fu in quel periodo che lei e le altre compagne dovettero subire pesantissime torture fisiche e psicologiche. Anche sessuali, soprattutto contro le belle ragazze di buona famiglia che i militari, di livello sociale più basso, si ritrovavano tra le mani, sudicie mani. Era quasi una rivincita sociale. Ma tutto questo in Uruguay è ancora tabù.
Con Juan siamo quasi alla fine del viaggio. Siamo giunti nell’ovest della città, l’area più popolare, di dove Mujica, a differenza della moglie, è originario. Con il boom economico e anche del porto di Montevideo, intorno alla baia i depositi straripano di container. Poi all’improvviso, subito dietro, inizia la campagna. Così, senza preavviso. La «chacra» è proprio lì, su una strada sterrata, sulla destra. Lucía mi accoglie con un sorriso. La casetta del podere è bianca, a un piano, umilissima. Nel cortile, tra fiori di campo e qualche rosa ben curata, il Pepe, munito di occhiali scuri, parla con un gruppo di persone, che potrebbero essere dei ministri dell’Mln-T, i tupamaros ora al governo, oppure qualche vicino, in questo circondario di gente umile. Tanto il look è praticamente lo stesso.
Con Lucía entriamo. L’interno è pulito. Non è vero, come aveva affermato la mia amica, che è sporco. Verifico con la padrona di casa: sono lei e il marito a fare le pulizie. Altro elemento importante: la coppia non ci sta prendendo in giro. Non è che esiste un bunker con la spa. Il Pepe e la sua Lucía parlano spesso di austerità. E (che sollievo) la vivono sulla loro pelle. La casa ha tre ambienti: una sala minuscola, una camera e un cucinotto, più il bagno. In tutto non si arriva a 50 metri quadrati. Il tetto è di lamiera. Intorno e in fondo ai campi ci sono dei piccoli appartamenti in più, costruiti nel tempo, dove sono venute a vivere altre famiglie, con figli piccoli e adolescenti. Persone che avevano bisogno e che si sono installate qui, tanto più che Lucía e Mujica non hanno avuto figli. Parliamo intorno a un tavolino minuscolo e instabile. Nella libreria fa capolino un ritratto del Che. Di sottofondo, musica classica: solo chitarra.
«Credo nelle utopie e nei sogni». Lucía va subito al sodo. In tutti i sensi, perché ritorna indietro a quegli anni di militanza e di guerriglia, prima della dittatura, che l’hanno segnata a vita. Hanno segnato tutti loro. «Esistevano movimenti come il nostro in gran parte dei paesi dell’America Latina. Ma i tupamaros erano particolari, perché l’Uruguay è particolare. È un paese dove la vita vale tantissimo. E così iniziammo a combattere, anche con le armi. Ma la nostra fu una guerriglia con i guanti bianchi». Anche se poi i morti, da una parte e dall’altra, ci furono. Una guerriglia senza sangue fu un’utopia realizzata solo in parte. «È vero, ma si può dire che in Uruguay i morti di quegli anni hanno tutti una faccia, tutti un nome e un cognome, anche i desaparecidos. Nel senso che, rispetto all’Argentina, al Cile, agli altri paesi, anche considerando che il nostro è più piccolo, ci furono meno persone ammazzate e scomparse». Si dice che a voi, i tupamaros, le cose a un certo punto scapparono inesorabilmente di mano... «Diciamo che quando uno va in giro con delle armi, poi lo scontro arriva, anche quando meno te lo aspetti. E allora non è detto che si possano sempre indossare i guanti bianchi».
Di quegli anni Lucía ha un ricordo preciso. «La vita aveva un’immediatezza incredibile. Non sapevi se saresti morto, se ti avrebbero sequestrato, se saresti partito in esilio. La vita correva. E noi credevamo che l’utopia fosse dietro l’angolo. Ma non era vero». «Per noi – aggiunge – prima di tutto veniva la causa. E la lealtà nella battaglia per realizzarla. La nostra era una militanza particolare, con aspetti molto duri. E dire che avevamo poco più di vent’anni. Non c’erano vacanze, non esistevano fine settimana, non c’era niente: dedicati ventiquattro ore su ventiquattro alla causa. E non avevamo dubbi, per noi era quello che dovevamo fare». Dubbi ne sono arrivati adesso? Pentita? «Se ritornassi indietro, lo rifarei». Anche l’umiltà di questa casupola non è un caso. «Seguivamo una certa austerità nel vivere, abbiamo iniziato lì. Ma non siamo noi tupamaros ad averla inventata, l’abbiamo imparata da altri, soprattutto dagli anarchici, molti di origine italiana. Mi viene in mente una donna come Luce Fabbri, che ho conosciuto. L’apprezzavo tantissimo, era un esempio per me. Scappò dall’Italia al seguito del padre, che era un anarchico, per fuggire dal fascismo. Poi più tardi (l’ironia della sorte) subì le persecuzioni qui, sotto la dittatura in Uruguay. Era una donna speciale, insegnava letteratura italiana. Era una poetessa. E un’amica dei tupamaros. Viveva in maniera austera, in una casa costruita dal suo compagno, anarchico e muratore: italiano anche lui». «Ho conosciuto molta gente ricca – aggiunge Lucía – ma che non era per niente felice. L’austerità alla fine non è un sacrificio, perché niente prova che l’opulenza ti dia la serenità».
Ai tempi della guerriglia le donne si conquistarono un ruolo importante. «Occorreva fare tanti sopralluoghi prima di un’operazione. Non bisognava dare nell’occhio. Poiché in generale si sottostimavano le donne, diventammo molto utili in questo tipo di azioni. Ma anche negli attacchi. Abbiamo conquistato sul campo la nostra parità». Lei non ama i giri di parole, non le piace tanto filosofeggiare come il marito. Così sulla parità uomo-donna tra i guerriglieri tupamaros chiude l’argomento in questo modo: «Dietro una calibro 45 non importa tanto il genere». Perché con una pistola tra le mani siamo tutti uguali. A proposito del Pepe, a un certo momento si palesa durante la conversazione. Presentazioni, qualche scambio di battute. Lui deve andare fuori con Manuela, ma è in tuta da ginnastica. Apparentemente deve lavarsi. Mentre Lucía continua a parlare, va in bagno. Lascia la porta aperta. Si odono scrosci d’acqua, rumori indistinti come qualcuno che fa dei gargarismi. Viste le dimensioni della casa, mi trovo a due metri da lui ma per rispetto non girerò mai la testa per osservare cosa stia succedendo. Mi ricordo...

Indice dei contenuti

  1. Un nuovo inizio
  2. 1. Alla «chacra» di Lucía e del Pepe
  3. 2. Marijuana di Stato
  4. 3. Alle origini delle utopie
  5. 4. I sogni di Garibaldi
  6. 5. Valdesi anticonformisti
  7. 6. Quando venne il Che
  8. 7. Un computer per tutti
  9. 8. L’illusione dei Robin Hood
  10. 9. Piria e la sua città inventata
  11. 10. Ostaggi per undici anni
  12. «Per finire, per ricominciare»
  13. Il Pepe-pensiero dalla A alla Z
  14. Bibliografia