Sociologia dello sviluppo
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Sociologia dello sviluppo

  1. 288 pagine
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Sociologia dello sviluppo

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Nella gran parte del mondo attuale, avanzato o arretrato, industrializzato o no, tutti hanno dimestichezza con il contenuto suggestivo e ipnotico evocato dal termine 'sviluppo', che continua a catalizzare passioni e interessi, speranze e delusioni, impegno e utopie. Dalla Guerra Fredda alla crisi petrolifera recente, senza eludere l'eredità del colonialismo, dagli economisti 'pionieri' alla scuola della 'dipendenza' fino alle teorie sui 'bisogni essenziali' e alle questioni ambientali comparse negli anni Settanta, Gianfranco Bottazzi ripercorre con chiarezza e sintesi le tappe salienti di quello che definisce 'il romanzo dello sviluppo', spingendo la sua analisi fino all'oggi, al tema della necessità di un'alternativa e di una vera e propria inversione di rotta sintetizzata nello slogan-obiettivo della 'decrescita'.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117682
Categoria
Sociologia

Capitolo 1. Lo «sviluppo» come problema

Il progresso non consiste nel rimpiazzare
una teoria sbagliata con una giusta,
ma nel rimpiazzare una teoria sbagliata
con una sbagliata in maniera più sottile.
Arthur Bloch , Il secondo libro di Murphy

1.1. Lo «sviluppo»: un termine con più significati

Nella gran parte del mondo attuale, avanzato o arretrato, industrializzato o no, sviluppato o sottosviluppato, tutti hanno dimestichezza con il contenuto suggestivo e ipnotico che il termine «sviluppo» evoca. Pur con le multiformi accezioni che ciascuno vi attribuisce, si tratta del più diffuso catalizzatore di passioni e di interessi, di speranze e di delusioni, di impegno e di utopie della seconda metà del xx secolo. E nel nuovo secolo non sembra che la sua presa sia significativamente diminuita, non fosse altro che per contestarlo.
Sviluppo è un termine polisemico, che è diventato corrente dopo la seconda guerra mondiale, accompagnato dall’aggettivo «economico». I suoi sinonimi spesso usati sono progresso, evoluzione, cambiamento, crescita, trasformazione, ciascuno con un più o meno sottinteso giudizio di valore, generalmente positivo fino agli anni Ottanta-Novanta, sempre più critico e negativo in seguito. È un termine che rimanda a un’idea tutta occidentale, tanto che in molte lingue non europee per tradurre «sviluppo» sono necessari neologismi o giri di parole1.
La varietà dei contenuti e degli aspetti associati allo sviluppo non ha impedito che un nucleo duro dell’idea di sviluppo rimanesse dominante: un processo di cambiamento delle strutture economiche e uno straordinario potenziamento delle capacità produttive che ha consentito di avere a disposizione una quantità di beni e servizi di molto superiore rispetto ad un passato anche recente, e che ha parallelamente cambiato in modo radicale le strutture e le istituzioni economiche e sociali, i modi di pensare e di essere, i modelli culturali, i comportamenti e le aspettative. L’aumento senza precedenti della quantità di beni e servizi mediamente a disposizione, ossia in sostanza una maggiore ricchezza disponibile, rimane comunque l’aspetto che per primo viene evocato.
Questa idea di sviluppo ha finito per toccare, con maggiore o minore forza, direttamente o indirettamente, tutto il mondo. Ma se ha beneficiato una parte della popolazione mondiale, non senza distorsioni e nuovi problemi, ha deluso molte delle aspettative dell’altra parte. Qualcuno si è certamente sviluppato: all’inizio degli anni Sessanta, il 20% della popolazione mondiale disponeva di poco più del 65% delle risorse prodotte nel mondo; nei primi anni Duemila, il 15% della popolazione mondiale assorbe oltre l’80% della ricchezza, mentre, in corrispondenza, l’85% della popolazione dispone di meno del 20% delle risorse mondiali. Qualcuno, invece, è probabilmente rimasto sottosviluppato: nel 2006, 1 miliardo e 200 mila persone, il 20% della popolazione mondiale, vive con meno di 1 dollaro al giorno e quasi la metà della stessa popolazione, quasi 3 miliardi, vive con meno di 2 dollari al giorno in termini di potere di acquisto, ossia meno di quanto costino i sussidi pagati alle agricolture americana ed europea per ogni vacca allevata o di quanto costi mantenere un cane. Quasi un miliardo di persone non ha abbastanza da mangiare. Dieci milioni di bambini muoiono ogni anno per malattie facilmente curabili. Un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile e due miliardi vivono senza sistemi fognari. I mezzi di comunicazione ci informano con cadenza quasi quotidiana su queste disparità, così ampie e così evidentemente inique da apparire grottesche, tra la sostanziale indifferenza delle opinioni pubbliche dei paesi sviluppati e addirittura opulenti, la cui preoccupazione principale rimane il loro sviluppo e il loro pil, quando questo non cresce come dovrebbe. Come accade con la crisi finanziaria internazionale esplosa a fine 2008, che tocca in primo luogo proprio i paesi più ricchi: non è difficile prevedere che la fame, la miseria, le malattie che ancora interessano un buon terzo della popolazione mondiale, saranno espunte dall’agenda dei problemi mondiali. D’altronde, il divario tra gli have e gli have not, tra chi ha e chi non ha, è in aumento anche in questi paesi. Ma anche questo è un problema dello sviluppo.
Dare conto della vera e propria epopea dello sviluppo negli ultimi cinquant’anni è dunque complicato poiché i piani sui quali essa si svolge sono molteplici e cangianti, perché il problema è in realtà un insieme di problemi che rimandano a questioni e prospettive disciplinari diverse, in un intreccio non facilmente districabile. È un tema dell’economia, certamente e forse principalmente, se non altro per il debordante ruolo che la crescita del reddito disponibile ha assunto dentro la dinamica dello sviluppo. Ma è anche, evidentemente, un tema della sociologia, che ha nel mutamento sociale uno dei suoi prevalenti campi di interesse. Come lo è dell’antropologia, della storia, della geografia, della scienza politica, delle relazioni internazionali. Così come contiene questioni etiche e filosofiche, giuridiche, persino teologiche, se si considera che sono la concezione dell’uomo, dei suoi diritti naturali, ad essere chiamati in ballo.
Proprio perché le cose stanno così, il rischio di raccontare questa storia lunga ormai sessant’anni è quella del déjà vu. Di una mera successione di teorie e pratiche dello sviluppo che, dagli anni Quaranta e Cinquanta, si sono dipanate come un canovaccio fatto di tesi diventate, solo per poco, ortodossia e poi abbandonate; di semplici cambiamenti di mode intellettuali, di nuove, «definitive» verità e di vecchie teorie riverniciate. Ma questo è il punto. Ciò che infatti appare più intrigante non è tanto la storia delle «teorie», più o meno riconducibile all’evoluzione delle scienze sociali nello stesso cinquantennio, quanto quella di come queste teorie si sono fatte «idee», spesso «ideologia», e sono diventate pratiche, politiche di sviluppo, appunto. La storia dell’idea di sviluppo è talmente e inestricabilmente legata a quelle molteplici dimensioni sopra ricordate che attorno ad essa si potrebbe scrivere la storia del mondo dopo la seconda guerra mondiale.
Forse è vero che sviluppo è soltanto «un termine comodo per riassumere l’insieme delle virtuose aspirazioni umane» (Rist 1996), o che «tutti i dilemmi riguardanti la condizione umana e tutte le speranze dell’uomo» (Arndt 1987) siano insiti nel concetto. In effetti, le domande sono sempre le stesse, i nodi problematici ricorrenti, ma ripercorrere una volta di più il romanzo dello sviluppo può aiutare per una migliore messa a punto. In questo senso è una «parabola», nel duplice significato di racconto che nasconde un insegnamento – anche se questo insegnamento non è una verità morale o religiosa – e di curva ascendente e poi discendente. Naturalmente, poiché è quanto meno velleitario soltanto provare ad abbracciare tutte le molteplici dimensioni di questa storia, occorre scegliere gli occhiali con i quali ad essa si guarda. Quelli di seguito prevalentemente usati sono propri della sociologia economica, anche se, di volta in volta, può capitare di inforcare occhiali di altre discipline, più o meno limitrofe, con incursioni che aiutano ad ampliare la prospettiva dell’analisi. L’ottica e l’aspirazione confessate sono dunque quelle di una scienza sociale più ampia di quanto le costrizioni accademiche consentano.

1.2. Lo sviluppo come «problema»

Il fenomeno «sviluppo» – o meglio la mancanza di questo, il «sottosviluppo» – divenne un problema alla fine della seconda guerra mondiale (Freyssinet 1966). Il sottosviluppo e le ineguaglianze nella distribuzione del reddito a scala mondiale o all’interno di un singolo paese, non erano, come fatto, niente di particolarmente nuovo. Infatti, «fino alla seconda guerra mondiale – scrive Galbraith (1979) – le cause della povertà di massa ed i possibili rimedi erano argomenti di discussione che raramente venivano affrontati con impegno e serietà». Dopo la guerra, in un crescendo continuo, forse nessun argomento «attirò tanto l’attenzione di un così grande numero di persone quanto appunto la salvezza della popolazione dei paesi poveri dalla loro miseria». Quando questo fenomeno determinava scandalo e chiedeva interventi, suscitava passioni e prese di posizione politiche, stimolava analisi e ricerche, diventava un problema. Nel senso che chiedeva di essere spiegato e chiedeva che fossero individuati i metodi e reperiti i mezzi per risolverlo.
Vi erano vari elementi di contesto che intervenivano nel sorgere del problema stesso. Il primo e più rilevante era il nuovo quadro geopolitico mondiale che risultava dalla fine della guerra. Da questa emersero come indubbi vincitori gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Sia gli Alleati europei che l’Unione Sovietica, tuttavia, uscivano dalla guerra in rovina: a parte la macabra contabilità delle vittime (oltre 20 milioni di morti nella sola Unione Sovietica), le città erano ridotte ad ammassi di ruderi, gli impianti industriali distrutti, così come distrutta era la gran parte delle infrastrutture civili, strade, ponti, impianti idrici e dighe; l’agricoltura era stravolta, gran parte del patrimonio zootecnico scomparso, il ritorno dei reduci e dei flussi di profughi cacciati da paesi nei quali erano diventati indesiderati aggravava carenza di cibo ed epidemie. Tutto disegnava un quadro di enorme difficoltà. Diversa era la situazione degli Stati Uniti, che erano emersi dal conflitto più ricchi e più forti di quanto non fossero stati prima. Alla fine della guerra gli Stati Uniti disponevano di due terzi delle riserve mondiali in oro e di tre quarti del capitale investito nel mondo. Più della metà dell’intera capacità produttiva industriale mondiale era localizzata negli usa e la nazione sfornava più di un terzo di tutti i beni prodotti nel mondo.
L’Unione Sovietica, tuttavia, sebbene apparisse come una nazione devastata ed esausta, condusse una politica piuttosto aggressiva, soprattutto in Europa, allargando la sua sfera di influenza in modo consistente. Per quanto nei primi anni del dopoguerra, gli Stati Uniti – forti della loro superiorità economica e militare (basata soprattutto sul potere deterrente della bomba atomica) – guardassero all’Unione Sovietica con qualche sospetto ma senza particolari timori per la sua eventuale minaccia in termini militari, lo scontro covava sotto la cenere, come era stato evidente anche durante la guerra. Il presidente Harry Truman, succeduto a Roosevelt, preoccupato per la rapida ricostruzione in urss e per il rapido riarmo che questa perseguiva, si convinse che fosse necessario il contenimento del «comunismo» ovunque si manifestasse l’espansionismo sovietico (dottrina Truman), poiché era interesse degli Stati Uniti «appoggiare popoli liberi che resistono al tentativo di soggiogamento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne». Era iniziata la «guerra fredda».
Il timore per la minaccia sovietica nasceva, in parte, sulla base di una valutazione empirica: sia nei paesi europei che, soprattutto, nel vasto mondo che viveva le condizioni del sottosviluppo, i movimenti nazionalisti che erano apparsi un po’ dovunque nella prima metà del secolo avevano spesso un orientamento marxista e guardavano quindi con interesse all’Unione Sovietica, considerata come il solo oppositore delle potenze coloniali occidentali. Per altra parte, la paura del comunismo nasceva dalla diffusa convinzione che il modello statalista della pianificazione sovietica potesse promuovere con maggiore efficacia la crescita economica e il soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione, in particolare nei contesti arretrati e pre-industriali. La prova su cui si fondava questa convinzione era il fatto stesso che, nell’arco di soli venti anni, l’Unione Sovietica si era trasformata da paese povero e tecnologicamente arretrato in una potenza industriale e militare; e, dopo la guerra, era stata in grado, senza aiuti esterni, di ricostruire rapidamente il proprio apparato produttivo e di divenire appunto una potenza militare in grado di sfidare il ruolo degli Stati Uniti. Ancora all’inizio del 1961, in un discorso «alla Nazione», il presidente Kennedy dichiarava:
A quelle popolazioni di metà del globo che vivono in capanne e villaggi e combattono per spezzare i vincoli della miseria di massa, noi dedichiamo i nostri maggiori sforzi per aiutarli a sollevarsi, per tutto il tempo che sarà necessario; non perché possano farlo i comunisti, nemmeno perché cerchiamo i loro voti, ma perché così è giusto fare (cit. da Galbraith 1979).
Il fatto che Kennedy trovasse necessario precisare «non perché possano farlo i comunisti» è rivelatore di quella convinzione diffusa in tutto l’establishment americano. La minaccia sovietica era peraltro supportata dal fatto che, nell’immediato dopoguerra, i movimenti di ispirazione comunista apparivano in forte crescita anche nei paesi dell’Europa occidentale e in numerosi paesi soprattutto asiatici di recente indipendenza o ancora coloniali: dall’Indonesia alla Malesia, dalle Filippine all’Indocina francese, alla Cina che, nel 1949, vedeva l’ascesa al potere del Partito comunista di Mao Zedong. Insomma, il sottosviluppo diventò un problema anche per il timore che, in assenza di un intervento di contrasto, i paesi appunto sottosviluppati potessero essere preda dell’espansione sovietica.
Fu comunque su questa base che l’interesse per il sottosviluppo, per quei popoli che hanno una «vita economica primitiva e stagnante», divenne una priorità. Il 20 gennaio 1949, nel discorso sullo «stato dell’Unione», il presidente Truman enunciava quello che è rimasto famoso come, semplicemente, il «punto iv»:
dobbiamo lanciare un nuovo programma che sia audace e che metta i vantaggi del nostro progresso scientifico e industriale al servizio del miglioramento e della crescita delle regioni sottosviluppate. Più della metà delle persone di questo mondo vive in condizioni prossime alla miseria. Il loro nutrimento è insufficiente. Sono vittime di malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante. La loro povertà costituisce un handicap e una minaccia, tanto per loro quanto per le regioni più prospere. Per la prima volta nella storia l’umanità è in possesso delle conoscenze tecniche e pratiche in grado di alleviare la sofferenza di queste persone.
Il punto iv è stato oggetto di analisi contrastanti, ma può certamente essere considerato l’atto di nascita delle politiche per combattere il sottosviluppo. Mentre Truman presentava il suo programma, era già in corso di realizzazione l’European Recovery Program (erp), comunemente noto come Piano Marshall – dal nome del Sottosegretario di Stato americano che lo propose nel giugno 1947 – sul quale si era costruito un vasto programma di aiuti e di finanziamenti per la ricostruzione rapida delle economie dell’Europa occidentale. Anche il Piano Marshall è stato oggetto di interpretazioni contrastanti, sulla falsariga della dottrina Truman e del punto iv: da un lato, veniva visto come un mezzo per tenere lontano la minaccia comunista dall’Europa occidentale e, contemporaneamente, per consentire all’economia americana di rilanciarsi liberandosi delle eccedenze di prodotti e capitali che il venir meno dell’economia di guerra aveva determinato; dall’altro, esso era letto come una prova della generosità del popolo americano e della lungimiranza dei suoi governanti che aiutavano, in nome della democrazia, persino il paese che era stato nemico acerrimo nella guerra, la Germania. Il Piano Marshall costituirà comunque l’esempio di una politica di sviluppo di successo e ad esso successivamente si farà spesso riferimento come modello da ripetere: in pochi anni, infatti, i paesi europei beneficiati dall’erp ricostruirono le loro capacità produttive e conobbero tassi di crescita senza precedenti.
Nel nuovo quadro geopolitico mondiale, un altro elemento che portava in primo piano la questione del sottosviluppo era la crisi dei vecchi imperi coloniali che, nell’arco di poco più di venti anni, si dissolsero, almeno formalmente. Le popolazioni degli ex imperi coloniali, durante la guerra, avevano sperimentato l’indebolimento progressivo dei poteri delle metropoli. Soprattutto in Asia, la fulminea espansione giapponese aveva mostrato che l’uomo bianco non era invincibile e aveva alimentato quei processi di presa di coscienza nazionale e di spinta all’indipendenza che già erano avviati prima della guerra. In qualche caso, gli indipendentisti collaborarono con l’invasore giapponese, pur sempre un «asiatico», o vi si opposero – spesso guidati da movimenti e partiti comunisti – in chiave di indipendenza nazionale, contro i giapponesi e contro il ritorno dei vecchi poteri coloniali. Dopo la guerra, questi movimenti alimentarono una spinta decisa all’indipendenza nazionale. Le Filippine divennero indipendenti nel 1946, l’India, dopo più di un secolo di dominio britannico, giunse all’indipendenza nel 1947, la Birmania e Ceylon nel 1948. L’Indonesia aveva proclamato l’indipendenza nel 1945 e, dopo un tentativo olandese di riprenderne il controllo, divenne uno Stato autonomo nel 1949. Nel corso degli anni Cinquanta, l...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo 1. Lo «sviluppo» come problema
  2. Capitolo 2. I «pionieri» e l’economia dello sviluppo
  3. Capitolo 3. La teoria della modernizzazione
  4. Capitolo 4. Voci dalla periferia: la teoria della dipendenza
  5. Capitolo 5. Il contesto della crisi del «paradigma dello sviluppo»
  6. Capitolo 6. I «bisogni essenziali» e la «self-reliance»
  7. Capitolo 7. Lo sviluppo sostenibile: una nuova ortodossia?
  8. Capitolo 8. Le alternative allo sviluppo
  9. Capitolo 9. In conclusione: la storia non è ancora finita
  10. Riferimenti bibliografici