1.
Le origini:
la famiglia e la formazione
L’infanzia
La mia vita, dall’infanzia all’età avanzata, è sempre stata accompagnata da due grandi panorami: da una parte i vasti orizzonti dell’Appennino lucano (ai cui piedi nasce Potenza) con i suoi fiumi, il Basento, il Bradano e l’Agri, digradanti verso Metaponto; dall’altra la visione di ciò che intravedevo dalla baracca in via Reggio Campi, a Reggio Calabria. Mio padre, infatti, era nativo di Reggio Calabria, ed essendo scampato al terremoto del 1908, aveva avuto in assegnazione un container nel quale, nei primi anni della mia vita, vissi con la mia famiglia. In quegli anni avevo davanti a me lo stretto di Messina e il mio sguardo si allungava su Scilla e Cariddi.
La mia visione del mondo si è alimentata di questi panorami, oltre che dei suggerimenti e degli impulsi culturali che provenivano dall’una e dall’altra zona.
Svolsi gli studi a Potenza, dove frequentai la scuola dalle elementari al ginnasio e al liceo. In quel periodo cominciai anche ad impegnarmi nel sociale, dividendomi tra lo studio e l’Azione cattolica, associazione per la quale compivo frequenti viaggi nella regione.
Potenza, che oggi ha circa settantamila abitanti, allora ne contava meno di trentamila. Aveva la sua cattedrale, la sua piazza e i suoi luoghi ricchi di storia come piazza XVIII Agosto, sorta a testimonianza della rivoluzione che i lucani avevano fatto nel 1860 per preparare la strada all’arrivo di Garibaldi (quando Giacinto Albini divenne prodittatore della Basilicata).
Nella città c’era una certa vivacità intellettuale: il Liceo e l’Istituto magistrale avevano una notevole importanza; poi, mano a mano, sono stati aperti i vari istituti tecnici e la città si è allargata. C’erano vari circoli culturali, di cui frequentavo le attività.
Grazie all’Azione cattolica viaggiavo molto: andavo per esempio a Melfi, dove sorge il castello da cui Federico II emise e firmò le Costitutiones Augustales; poi a Venosa, sede di una grande abbazia benedettina, punto di incrocio tra Puglia e Basilicata, che divenne centro di riferimento del monachesimo occidentale insieme a quelle di Monticchio, nel cuore del Vulture, di Lagonegro e di Avigliano. Andavo in tutti quei paesi per coordinare la Gioventù cattolica che, all’epoca, era una delle più grandi organizzazioni di cattolici presenti in Italia, distinta da quelle del fascismo, alle quali eravamo comunque obbligati a partecipare. Questa esperienza mi diede la possibilità di conoscere la Basilicata non dai libri, ma dalla realtà concreta: girando per la mia regione conobbi il Mezzogiorno, che era arrivato a me attraverso le analisi, le descrizioni e le valutazioni apprese leggendo gli scritti di Giustino Fortunato.
Questo impegno alimentava in me la consapevolezza delle distinzioni presenti nella società italiana e mi dava la nozione di cosa fosse il regime politico fascista, con le sue imposizioni, la mancanza di libertà, l’oppressione. Ci furono contrasti, tra regime e Azione cattolica, la prima volta nel 1931 e poi nel 1938: quegli episodi, assieme a letture, studi, e buoni maestri, suscitarono in me il desiderio di un’Italia libera dall’oppressione.
Il mio primo maestro fu monsignor Vincenzo D’Elia, parroco della SS. Trinità di Potenza (la mia parrocchia), nato a Brienza, un piccolo paese vicino al capoluogo. Monsignor D’Elia aveva compiuto i suoi studi in un seminario romano assieme a Pio XII e a tanti sacerdoti che poi sarebbero diventati personaggi di grande statura nella gerarchia ecclesiastica. Era un uomo rigoroso, parco di parole e largo di esempi, con una formazione sia religiosa sia sociale. Era stato il riferimento lucano di don Luigi Sturzo quando questi aveva fondato, prima dell’avvento del fascismo, il Partito popolare. Pur nella necessaria riservatezza di quel periodo, traspariva, dai suoi comportamenti, non solo l’attenzione alla formazione religiosa, ma anche alla società e alla patria.
Gli anni Venti furono per me molto intensi. Nel 1930 la Diocesi di Potenza, dopo cinque anni di sede vacante, ebbe finalmente il suo vescovo: quello precedente, Roberto Razzòli, aveva avuto un contrasto proprio con monsignor D’Elia, poiché aveva fatto chiudere «La Provincia», giornale cattolico da lui diretto e attraverso cui aveva combattuto le battaglie dei cattolici nel periodo prefascista.
A reggere la Diocesi, pertanto, arrivò monsignor Augusto Bertazzoni, che avrebbe avuto un’importantissima influenza nella mia vita. Originario di San Benedetto Po, proveniva da una zona in cui era stato eletto, come deputato, Enrico Ferri, esponente di quel socialismo antropologico che tanto contrastava con la visione cattolica e con la concezione cristiana dell’uomo e della società. Anche Bertazzoni, tuttavia, aveva alle spalle un’esperienza sociale e politica, oltre che religiosa. Mentre mi occupavo soprattutto di organizzare la Gioventù dell’Azione cattolica, egli, dunque, divenne uno dei miei punti di riferimento.
Da Potenza a Roma. Gli studi universitari e l’impegno in Azione cattolica
Proseguii nel mio impegno anche a Roma, dove giunsi per intraprendere gli studi universitari. Alloggiavo presso alcuni miei carissimi zii in via Capodistria, una traversa di via Nomentana. Ogni mattina, quando andavo a prendere il tram che mi avrebbe portato all’università, passavo davanti a Villa Torlonia e, di frequente, le guardie di scorta di Mussolini mi chiedevano di esibire la carta di identità, documento che portavo sempre con me. Queste esperienze, maturate al di là dei libri e delle lezioni, furono importanti perché contribuirono a darmi una visione diversa della realtà politica italiana, rispetto a quella che allora era veicolata dal fascismo: per questa ragione, crebbe in me, giorno per giorno, la volontà di lottare per una società migliore.
A Roma, oltre a personalità legate all’Azione cattolica, ebbi modo di conoscere un nipote di monsignor D’Elia, don Giuseppe De Luca, che lo zio aveva aiutato a entrare in seminario e che poi, grazie alla sua preparazione, sarebbe divenuto storico e filologo. Questi lavorò alla Storia della pietà, un filone vicino all’esperienza della storiografia francese.
Don Giuseppe De Luca frequentava tutti gli ambienti culturali: un giorno – ero un giovanissimo studente di circa diciannove anni – mi trovai in casa di questo sacerdote, a un pranzo a cui partecipavano Giovanni Papini e Piero Bargellini, nomi legati a «Il Frontespizio», una rivista culturale toscana, animata da cattolici toscani. Immaginate quale potesse essere l’atteggiamento di un ragazzo che veniva dalla provincia: durante il pranzo, mentre polemizzavano tra loro sui diversi orientamenti culturali, assistevo intimorito sia per la loro presenza, sia per la forza delle loro argomentazioni.
Avrei incontrato Bargellini successivamente, in occasione di una conferenza all’Istituto nazionale di studi romani (istituzione fondata durante il fascismo): poco prima dell’incontro, quando apparvi nella sala, il professor Bargellini, ricordandosi di avermi visto nella casa di De Luca, mi fece un cenno di saluto che percepii come gesto distintivo rispetto agli altri presenti. La circostanza mi riempì di orgoglio. Da ministro del Tesoro avrei incontrato nuovamente Bargellini, nel frattempo divenuto sindaco di Firenze, il quale si sarebbe rivolto a me per il reperimento dei fondi necessari per far fonte ai danni causati dall’alluvione alla città e al suo patrimonio.
A ventun anni conseguii la laurea, dopodiché dovetti andare a fare il militare.
Fu proprio al termine del corso Scuola allievi ufficiali di Ravenna che ebbi notizia della caduta del fascismo. Partii subito per la Basilicata, ma poi fui richiamato per compiere servizio di ordine pubblico come ufficiale appena nominato, senza, però, poter svolgere il mio compito, poiché l’8 settembre determinò, con la firma dell’armistizio, la fine di ogni operazione. Fui tra quei giovani che scesero verso Roma per sfuggire alla coercizione dell’esercito tedesco che cercava di obbligare a passare nelle loro fila quanti avevano una funzione nelle forze armate.
Lungo il viaggio di ritorno, sul treno che mi portava da Genova a Roma (dove avrei rivisto mio fratello e i miei zii), viaggiava con me un carissimo amico, che poi sarebbe diventato mio cognato. Viaggiavamo in due vagoni diversi ma, per uno strano destino, io arrivai a Roma e il mio amico fu preso e deportato in Germania, da cui poi sarebbe tornato dopo la caduta del nazismo.
Al mio rientro in Basilicata, giunto nella piazza di Potenza con un mezzo di fortuna, mi trovai di fronte a un’accoglienza molto calorosa: evidentemente i miei familiari avevano diffuso la notizia del mio arrivo. Mi resi conto che non si trattava solo delle manifestazioni per il rientro di tanti giovani, dei quali ci si era domandati che fine avessero fatto e, soprattutto, se ce l’avessero fatta a tornare, ma c’era dell’altro. Mi accorsi che ci si aspettava che al mio rientro, avendo militato per anni nell’Azione cattolica, potessi assumere un ruolo dirigenziale nell’ambito della Democrazia cristiana, il partito dei cattolici italiani che si stava costituendo. Nei giorni seguenti constatai quanto fosse giusta la mia intuizione. Rimasi indeciso per molto tempo, ma poi preferii non dedicarmi ad alcuna attività politica, pur sapendo che, nella nuova realtà che si stava aprendo dopo la caduta del fascismo, fosse necessario impegnarsi.
Mentre pensavo alla prosecuzione degli studi universitari, mi chiamarono a ricoprire il ruolo di segretario generale della Gioventù di Azione cattolica, la Giac, un’organizzazione che contava allora quasi due milioni di iscritti in Italia. Andai a Roma per assumere quel ruolo e cercai il relatore della mia tesi di laurea, il professore Arturo Carlo Jemolo, docente di diritto ecclesiastico e uomo di grande cultura e prestigio. Ricordo che questi, quando ero andato a chiedergli la tesi, avendo visto che ero di Potenza, mi aveva sorpreso con una domanda improvvisa su chi fosse stato monsignor Andrea Serrao. Per fortuna lo sapevo: Andrea Serrao era stato il vescovo di Potenza che, durante la rivoluzione napoletana del 1799, aveva sostenuto gli ideali liberali, per essere poi ucciso nell’episcopio dalle bande del cardinale Ruffo di Calabria, in marcia verso Napoli per soffocare l’anelito di libertà espresso dalla Rivoluzione napoletana. Questo episodio mi valse le simpatie del professore, il quale mi inserì tra i suoi allievi per cominciare a svolgere parallelamente le due attività, quella di segretario della Giac e quella di studioso, con l’obiettivo di arrivare alla libera docenza per poi intraprendere, se la fortuna mi avesse assistito e se mi fossi opportunamente impegnato, la carriera universitaria in diritto ecclesiastico. Per quello scopo, pertanto, mi ero iscritto anche all’Ateneo Lateranense per conseguire la laurea in Diritto canonico, di modo da integrare quella in diritto ecclesiastico.