Capitolo III.
Teologia
Auch hier sind Götter und walten,
Groß ist ihr Maß.
Hölderlin, Der Wanderer
Partiremo da due affermazioni contraddittorie:
I teologi tendono a definire il nemico come qualcosa che va annientato. Io sono però un giurista e non un teologo.
Io sono un teologo della scienza del diritto.
Come è possibile, contemporaneamente, essere e non essere un teologo, e ‘teologo’ in quale senso? Cosa comporta tutto ciò rispetto allo statuto e ai contenuti, entrambi molto discussi, della «teologia politica»? Questi sono i nodi problematici che ora ci sforzeremo di sciogliere.
1. Un concetto «polimorfo»
La nozione di ‘teologia politica’ – Schmitt non ha certo coniato l’espressione: piuttosto, è l’utilizzo che ne fa ad essere particolare – è polisemica, per non dire contraddittoria; la maggioranza dei commentatori ha segnalato questo aspetto, compresi coloro che hanno provato a ricondurre a unità i suoi diversi significati. Basterebbe sfogliare i due libri nei quali tale espressione compare nel titolo per rendersi conto del fatto che il contesto del suo uso è quanto meno flessibile. Lo stesso Schmitt lo segnala, ammettendo la palese differenza tra l’oggetto dell’analisi e le preoccupazioni dell’autore tra Teologia politica I e II: «La teologia politica è un àmbito estremamente polimorfo; inoltre essa ha due diversi aspetti, uno teologico e uno politico; ciascuno si orienta verso i suoi specifici concetti». Si è tentati – e Schmitt sembra invitarci a ciò – di considerare che, mentre la Teologia politica del 1922 ne esplora, in particolare nel terzo capitolo, l’aspetto «politico» (più precisamente: giuridico-politico), sviluppando quella che viene definita, in modo alquanto enigmatico, una «sociologia dei concetti giuridici», la Teologia politica II, per la maggior parte orientata al rifiuto della «leggenda» della «liquidazione [concettuale] di ogni teologia politica» da parte del cristianesimo, tratterebbe invece dell’aspetto strettamente teologico della locuzione. In ogni caso, la questione non è ben definita e va analizzata più accuratamente.
Quando nel 1922 Carl Schmitt pubblica il volumetto intitolato Teologia politica. Quattro capitoli sulla teoria della sovranità, la locuzione presente nel titolo non è per nulla di uso corrente, né in Germania né altrove, tanto che nel 1935 il teologo Erik Peterson nella nota finale alla sua opera sul monoteismo politico – opera alla quale Schmitt risponderà trentacinque anni dopo pubblicando Teologia politica II – ritiene di poter affermare che «il concetto di ‘teologia politica’ è stato introdotto nella letteratura, per quanto io ne sappia, da Carl Schmitt». Naturalmente, per ‘letteratura’ bisogna intendere ‘letteratura secondaria’. In effetti, un colto esegeta dei Padri della Chiesa come Peterson non poteva ignorare le osservazioni critiche che Tertulliano prima, e Agostino poi, dedicarono alla tripartizione della teologia elaborata – come sembra – dal pontefice Scaevola, ed esposta da Varrone in un passo che conosciamo grazie ad Agostino: secondo Varrone, la theologia si suddivide in fabularis (mythikè), naturalis (physikè) e civilis (politikè). In ogni caso tutto il libro di Peterson – sotto l’egida dell’invocazione di sant’Agostino – dimostra che per lui, così come per Schmitt, al centro dell’attenzione non è per nulla la «teologia politica» romano-pagana, la quale corrisponde a ciò che si potrebbe definire, con lessico moderno, religione civile. Ed è per questo che la conclusione del libro VI della Città di Dio «gli Dei adorati dalla teologia politica non possono offrire la vita eterna» non riguarda né la teologia politica di Peterson né quella di Schmitt. In effetti per entrambi (i quali, peraltro, giungono a conclusioni opposte) il problema teologico-politico non può essere analizzato in modo sensato se non nel quadro di una religione rivelata e del tipo di teologia che quest’ultima comporta.
Peterson sbaglia, però, nel momento in cui fa intendere che Schmitt sarebbe stato il primo a introdurre la nozione di teologia politica nella letteratura moderna. Almeno un autore moderno lo ha preceduto, utilizzandone l’espressione, ed è un autore richiamato più volte in Teologia politica, dove ne è sottolineata l’«importanza intellettuale». Proprio leggendo Cattolicesimo romano e forma politica (1923), libretto che – come afferma Peterson – è un elogium della Chiesa, la cui redazione è contemporanea a quella della prima Teologia politica, si può notare come Schmitt tragga l’espressione ‘teologia politica’ dall’autore di La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale: quel Michail Bakunin che, scrive Schmitt, «ora, con impeto da Scita, ingaggia battaglia contro religione e politica, contro teologia e giurisprudenza». Il modo in cui Carl Schmitt si impossessa, trasformandola in un proprio emblema, di un’espressione usata da un autore totalmente opposto alle sue posizioni religiose, politiche e teoriche, è veramente rivelativo del suo procedere intellettuale, e spiega in anticipo la sua famosa e successiva tesi – la cui prima formulazione risale al 1927 – secondo cui il criterio del ‘politico’ è la relazione amico/nemico. Questa appropriazione di un’espressione elaborata da un ‘nemico’, che Schmitt arriverà a definire, con Cromwell, «provvidenziale», rivela il carattere fortemente polemico, e di conseguenza politico, di tale teologia politica, che Schmitt pretende derivi, nel momento in cui ne introduce il concetto, da una semplice «analisi sociologica» dei concetti politici, e abbia quindi una funzione e un carattere esclusivamente scientifici.
Si tratta di un’attitudine che trova sviluppo, molto più tardi, in uno dei pezzi che compongono Ex Captivitate Salus: quello intitolato La sapienza della cella, dove si afferma l’esistenza di un legame essenziale – in termini schmittiani meglio sarebbe dire esistenziale – con quel nemico che è, per noi, «l’altro». È soltanto all’interno della mia relazione con l’altro, spiega lì Schmitt parafrasando alcune formule del «Filosofo» (Hegel), che posso essere me stesso. E aggiunge: «Il nemico è la personificazione del nostro proprio problema». Questa glossa retrospettiva alla formula utilizzata in Der Begriff des Politischen (la quale è lungi dal rappresentare, come molti ritengono, tutto il pensiero di Schmitt, e nemmeno la sua riflessione sul politico) sottolinea quanto meno le radici teologiche della concezione schmittiana del ‘politico’; e dà senso, nello stesso passaggio di Ex Captivitate S...